Riprendo il tema del dibattito
surreale che sta accompagnando la partenza del percorso congressuale del PD.
Sul tema del rapporto segretario –
premier, la soluzione di cui parlavo nel precedente post sembra stia finalmente prendendo corpo. Era la sola possibile, ma il
tema ha comunque fatto da palestra per tenzoni di grande spessore politico.
Merita però di ritornare sulla questione vera che si nasconde dietro la diatriba,
che a mio avviso è quella che è stata sollevata da Barca nel suo documento sul
“Partito Nuovo”: il rapporto tra partiti e istituzioni.
E’ una questione che non può
essere confinata nel problema specifico di una singola persona, o carica. Senza
nulla togliere alla dimensione del problema che si pone per il vertice
(soprattutto in quanto si riflette sul futuro del governo in carica), ridurla a
questo aspetto serve però solo a rimuovere il problema reale e così a difendere
lo status quo.
Il tema va invece affrontato alla
radice, secondo la mia opinione. Ciò significa che occorre partire dai circoli
e dal loro rapporto con il territorio e con le istituzioni locali, passando
attraverso i livelli intermedi, regionali e provinciali. Per inciso, sulla abolizione
di queste ultime è finalmente arrivato da parte del governo Letta un atto
formale che tuttavia, dopo un balletto e una tattica del rinvio miope e
arrogante, che la Consulta ha finito giustamente per censurare, azzera la
questione, la riporta ai nastri di partenza e mette in moto un percorso
legislativo che non sarà breve né semplice.
Affrontare il tema della
commistione impropria di ruoli tra partito e istituzioni a livello locale e
intermedio è l’unico modo per sperare di imprimere un cambio di direzione anche
a livello statale.
Ne abbiamo sotto gli occhi una
controprova che dovrebbe apparirci evidente e facciamo invece fatica a vedere.
Da due anni le tornate amministrative premiano regolarmente il centrosinistra
ma sempre grazie a candidati che non provengono da incarichi di partito.
Le eccezioni si contano davvero
sulle dita di una mano e hanno in genere spiegazioni particolari. In ogni caso
nessun presidente di regione o sindaco di comuni capoluogo proviene dai ranghi
di partito. Dunque a tutti i livelli intermedi il problema che tanto appassiona quando si tratta del vertice nazionale neppure si pone. L’idea di candidare ai vertici istituzionali di
livello intermedio il segretario del livello corrispondente non viene, di
norma, neppure presa in considerazione e nei pochi casi in cui accade si
rischiano sonore sconfitte.
Nonostante questo, il carrierismo
nei livelli intermedi continua ad essere un fenomeno impressionante.
Trova però soddisfazione
attraverso altri meccanismi ed altri percorsi. Che non passano per nessuna
verifica elettorale e sono anzi tenuti rigorosamente al riparo dal giudizio
degli elettori. Si va dalla nomina negli organismi esecutivi (giunte) agli
incarichi di nomina politica nella costellazione degli enti e società
partecipate, fino alla poltrona-premio che il Porcellum permette di concedere
benignamente agli apparati locali.
Le primarie-parlamentarie, al di
là delle intenzioni di alcuni di quelli che le hanno sostenute (ma quelli in
buona fede supplicavano di adottare una ben diversa tempistica), sono state il
veicolo e la foglia di fico al tempo stesso. Non che non sia accaduto che
abbiano fatto emergere qualche personaggio locale apprezzato per meriti
specifici pur senza avere l’appoggio dell’apparato. Ma nel complesso sono state
il trionfo delle burocrazie locali. “Apparatarie”, più che parlamentarie.
Il Molise non ha fatto eccezione.
Questa distorsione è stata pagata
a caro prezzo. Basterebbe andare a vedere, caso per caso, regione per regione,
dove e in che misura si è verificato il travaso da “Italia Bene Comune” a M5S
nelle settimane prima del voto, dopo la diffusione delle liste dei candidati, e
metterlo in relazione con il profilo degli “estratti” dalle primarie. Se ne
avrebbe una controprova inconfutabile.
Per inciso, le burocrazie che
hanno vinto le “apparatarie” sono le stesse che hanno infoltito la schiera dei
cospiratori che hanno tramato per rottamare, con Prodi, ogni residua speranza
(o pericolo?) di governo di cambiamento. Ha forse fatto eccezione il Molise?
Non è dato saperlo, anche se non si sono udite parole particolarmente sdegnate
per il tradimento consumato nella notte fatale (quanto ai generici abbinamenti
del caso Prodi al caso Marini, come se aver agito alla luce del sole o nell’ombra
non rappresentasse la differenza decisiva, autorizzano qualsiasi dubbio…)
Di questo non si parla. Ma di
questo dovrà parlare il congresso. Cominciare o no dai circoli? Certo che sì,
ma ha senso solo se si pensa di farne il motore del cambiamento e il terminale
di un rinnovato rapporto tra partito e società (e dunque tra politica e
cittadini). Altrimenti sono solo alchimie tattiche per allungare il brodo e
eludere i temi cruciali del confronto congressuale.
A questo proposito, fa pensare
l’accoglienza riservata al documento di Barca, che su questi temi offre un
ragionamento di grande spessore, ricco di spunti felici. Oltre all’ironia sui
termini adottati e sulla corposità e difficoltà di lettura del documento (come
se uno studente di matematica si lamentasse di dover leggere pagine piene di
numeri e formule), niente. O, meglio, l’uso spregiudicato per sostenere
l’incompatibilità tra segretario e candidato premier.
A ben vedere, è una dimostrazione
del rigore e della lucidità dell’analisi di Barca. Il suo documento si è
dimostrato, in senso popperiano, falsificabile e ha retto alla prova (ahimé!). “L’esistenza della fratellanza siamese e del
catoblepismo ci dice che ogni tentativo di cambiamento troverà – come ha
trovato finora – una forte resistenza nelle elite, che vedranno messo in
discussione il proprio potere.” Come volevasi dimostrare. Sul suo documento
è scattata la congiura del silenzio, mentre circoli e federazioni tempestano
Barca di richieste di presenze a dibattiti, sempre molto partecipati e
appassionati: ma la sua agenda è quella che è …
Ma non finisce qui.