Agenda (plur.),
dal latino: le cose da fare, che non si sono fatte o si sono fatte male (e
occorre correggere).
Andiamo avanti a esaminare, dopo il tema delle pensioni, le
cose da correggere tra quelle fatte in base all’agenda Monti in materia di
lavoro.
Su questo tema, di assoluto rilievo, è diffusa l’idea di
dover rimettere mano alla riforma Fornero. So di dare una delusione a quanti
vorrebbero riaprire il dossier articolo 18, ma ritengo che sarebbe un errore
non molto diverso da quello compiuto da Monti.
Il parere su quella parte della riforma è negativo, si
intende: ho avuto modo di esprimermi anche su questo blog. Ma il motivo
principale di dissenso, che voglio qui ribadire, sta nell’aver attribuito a una
modifica, in senso “deregolatorio”, del regime dei licenziamenti individuali un
qualche effetto positivo sulla dinamica dell’occupazione.
Un falso, confutato da tutte le evidenze empiriche. Al
contrario, se fosse stato indebolito il principio della nullità dei
licenziamenti discriminatori l’effetto sarebbe stato di segno tutto negativo. E
sarebbero state deleterie le conseguenze sul sistema dei diritti e delle
libertà elementari dei cittadini.
Ora, è pur vero che quel principio è stato messo in
discussione, con soave leggerezza professorale, all’inizio della vicenda. Ma la
reazione decisa del PD ha impedito che si andasse avanti (neanche la voce
dissonante di Ichino ha concesso spazi a Monti su questo punto). Le nuove
procedure sono però pasticciate e arzigogolate e finiscono per andare in
direzione contraria rispetto a quello che tutti unanimemente si aspettavano,
sindacati e imprenditori, perché non risolvono il problema di una giustizia
lenta e incerta ma ampliano il potere discrezionale dei magistrati.
Sarebbe dunque il caso di imboccare con decisione la strada
opposta. Ma il problema è che di tutto abbiamo bisogno meno che di una nuova
guerra atomica sull’articolo 18. Una manutenzione sarà necessaria, ma non è
prioritaria. Altri sono i problemi più scottanti da affrontare per primi.
A differenza di quanto teorizzato da Monti nella sua agenda,
si dovrà intervenire sulla gestione: attivare
politiche efficaci. Si dovranno ripensare le sedi, i soggetti e le modalità
di intervento, tornando a dare un ruolo protagonista alle parti sociali e
restituendo loro piena autonomia.
Un tempo la legge interveniva per aiutare le parti a trovare
intese più larghe e più rappresentative possibili (mettendoci anche, se
necessario, risorse economiche oltre a quelle cosiddette politiche) e per
suggellare infine gli accordi tra le parti con un riconoscimento giuridico che
li rendeva efficaci verso tutti . Poi è arrivata la furia demolitrice della
destra fanatica e ideologica, condizionata dall’egoismo miope delle componenti
più retrive e meno competitive del sistema produttivo.
Non quelle proiettate sul mercato estero. Quelle sceglievano
di delocalizzare in regioni più avanzate (la
Carinzia è il caso più eclatante, invasa dai piccoli del Nord-Est) dove
norme e condizioni salariali erano anche più onerose (e più favorevoli per i
lavoratori) ma in compenso burocrazia, fisco e servizi fornivano un contesto
molto più propizio per l’impresa. Piuttosto, era preso a riferimento chi
vagheggiava condizioni cinesi (perdendo così inesorabilmente terreno di fronte
ai concorrenti, cinesi in primis).
Ritornare alla concertazione (o al dialogo sociale di tipo
europeo, opposto esatto di quello praticato da Sacconi & co.) deve andare
di pari passo con la riscoperta di una politica industriale, dopo lunghi anni
in cui è stata totalmente assente. Ciò significa favorire la buona occupazione,
quella basata sulla capacità di collocarsi all’avanguardia dei processi (con
una grande attenzione alla sostenibilità) e sull’eccellenza dei prodotti.
Quando queste condizioni si verificano può anche esserci flessibilità ma mai
precarietà. Se di flessibilità ci sarà bisogno, sarà nella dose necessaria,
compensata da contropartite economiche e normative. Perciò costerà più del
lavoro stabile (e di intensità costante), come da tempo sostiene il PD.
Su queste basi si potrà allora costruire un sistema di
servizi all’altezza delle esigenze. Il pubblico, a livello decentrato, sotto la
responsabilità delle Regioni, dovrà garantire che siano aperti - e non ostruiti
come oggi spesso accade - i canali di ingresso del lavoro (qualificato e
specializzato in particolare) all’interno dei processi produttivi. E farà sì che
le esigenze straordinarie di flessibilità, per riconvertire, per far fronte
alle dinamiche dei mercati nel mondo o alle novità tecnologiche, siano rese
compatibili con le esigenze di continuità di reddito dei lavoratori coinvolti.
Potrà così garantire dal lato delle imprese la disponibilità delle competenze
necessarie per l’implementazione delle novità, al presentarsi delle fasi alte
del ciclo.
Siamo ancora molto lontani dall’obiettivo. Questo genere di
interventi non ha alcuna guida a livello nazionale e le Regioni si arrangiano
come possono. In qualche caso prendono a modello gli esempi migliori nel
continente (e nel mondo), in altri danno perfino lezione, ma nella maggior
parte dei casi restano drammaticamente
al di sotto delle esigenze. Chi avrà la responsabilità di amministrare questo sistema
complesso sarà chiamato prima di tutto a promuovere un salto di qualità.
Dipende, dovrebbe essere chiaro, solo in minima parte dalle
leggi che saranno varate. Conterà invece, soprattutto, la qualità
dell’intervento sul campo, la capacità di aggiustare il tiro fino al
particolare, di tarare ogni servizio e ogni singolo ufficio sulle esigenze
specifiche, di far circolare le esperienze, di sanzionare le inadempienze, le
inefficienze o, peggio, le illegalità.
Di questo immenso campo, il professor Monti e il suo
ministro del Lavoro hanno dato l’impressione di non avere neppure colto
l’esistenza. Di non averne avuto la percezione. Abbandonato, tanto quanto era
stato trascurato (o per molti versi addirittura inquinato) dai suoi
predecessori di destra.
Non è un programma minimale. E’ una vera rivoluzione
copernicana, anche se non poggia su slogan ad effetto o su ricette miracolose.
E’ un processo complesso, da governare.
I grandi principi? Non solo non vengono dimenticati o
disattesi, ma sono la stella polare e ancora una volta misureranno, in tutta la
sua importanza, la differenza tra destra e sinistra. Tra le agende.
Lottare contro la precarietà, restituire dignità al lavoro,
assicurare stabilità di reddito e rafforzare la coesione sociale. Sono questi gli
obiettivi di fondo concordemente proclamati a sinistra.
Ebbene, se si mettono in fila gli interventi che ho tratteggiato,
sia pure sommariamente, in questi due post penso se ne possa ricavare un quadro
d’assieme ispirato a questi obiettivi e alle scelte di principio che
sottendono.
-
Politica industriale (investimenti orientati verso
processi innovativi per prodotti di eccellenza), oltre che dei servizi e delle
“piccole opere”, per rimettere in moto la domanda di lavoro
-
Politica di sostegno alla contrattazione
(interconfederale, nazionale, decentrata, sia aziendale che territoriale) per
un sistema di tutele del lavoro flessibile (arrivando anche ad un salario
minimo interconfederale come misura di ultima istanza per il lavoro disperso),
lasciando alla legge il compito di recepire e estendere a tutti (erga omnes)
gli accordi raggiunti (con il vincolo di un percorso democratico)
-
Sistema di servizi che accompagnino efficacemente
imprese e lavoratori nelle fasi di riconversione (aziendale o territoriale) con
un sostegno al reddito strettamente connesso agli interventi di
riqualificazione dei soggetti interessati
-
Tutele per il reddito, presente e futuro (attraverso un
rafforzamento della contribuzione previdenziale figurativa per scongiurare
pensioni indecenti a fine carriera), rivolte anche ai giovani in cerca di prima
occupazione che siano impegnati in percorsi di inserimento (reddito minimo
garantito su base lavoristica).
Non è tutto. Ma significherebbe un cambiamento di rotta tale
da suscitare nuove speranze e nuove energie. Un’agenda di tutto rispetto.