sabato 22 marzo 2014

Il JOBSACT è decreto: altro che "svolta buona"!

La riforma del lavoro targata Renzi ha mosso i primi passi.
Quando se ne è parlato per la prima volta, all'inizio dell'anno, la nota che conteneva un “sommario di prime azioni concrete” è stata accolta con un certo distacco perché non andava oltre un elenco di titoli. Alcuni suggestivi, altri ermetici, altri ancora, diciamo così, poco promettenti. In ogni caso si aspettava di vederne concretamente gli sviluppi, prendendo in parola Renzi che annunciava, a stretto giro, una riunione della Direzione nazionale specificamente dedicata al tema.
Non se ne è fatto niente. Altre emergenze incombevano. Siamo così costretti a giudicare un fatto compiuto, un decreto che con il consueto l'iter parlamentare dovrà essere convertito in legge.

Ripartiamo dalla nota di gennaio (il “Jobs Act”) per seguire il percorso compiuto sui tre capitoli:
  • azioni di sistema: restano all'ordine del giorno, con qualche aggiornamento; in particolare, punto chiave, la riduzione del carico fiscale per i lavoratori dipendenti, non sarà finanziata da “risparmi derivanti dalla revisione della spesa corrente” se non in piccola parte, ma sarà affidata alla trattativa con l'Europa, che deve autorizzare un aumento netto di .2/.4% del deficit. Non è un cambiamento di poca importanza, il risultato è ancora tutto da verificare: ci si deve augurare che l'obiettivo sia tenuto fermo indipendentemente dalle condizioni che si realizzeranno a Bruxelles.
  • quanto al secondo capitolo, la lista di settori su cui puntare per la creazione di posti di lavoro resta tale e quale, in attesa di essere “ingegnerizzata”
  • resta l'ultimo capitolo, quello delle regole, che come primo punto annunciava proprio una “semplificazione delle ... regole attualmente esistenti che sia ben comprensibile anche all’estero”. Voilà, eccoci serviti, di ciò si occupa il decreto, con una sorpresa non da poco.

La semplificazione che ha preso corpo non riduce il numero dei contratti in essere, non li sfronda per dare nuovamente un ruolo centrale al contratto a tempo indeterminato. Quello che viene reso più semplice è il modo di eludere il ricorso a quel tipo di contratto, definito “normale” dalle direttive europee (tradotte, quelle sì, in tutte le lingue dell'Unione).

1) Viene reso più semplice il modo di godere di sgravi contributivi sui neo-assunti pagandoli il 35% della paga contrattuale. Finora tutto ciò era complicato da un'incombenza molto pesante, una regola incomprensibile all'estero: si doveva erogare formazione al giovane neo-assunto, perfino di tipo teorico, perfino fuori del luogo di lavoro, perfino in base a un piano formale, messo per iscritto.
Questo gravame, definito come apprendistato, è stato finalmente abrogato, se non altro per dimostrare alla Germania, dove ancora vige questo sistema come modo generalizzato di ingresso al lavoro, che sappiamo fare riforme molto più moderne di quelle di cui loro sono capaci.
Quale assurdità rappresenti la controriforma dell'apprendistato in un'ottica di investimento sulle “conoscenze in azione” lo spiega bene Andrea Ranieri in questa nota.

2) Il contratto a termine viene ulteriormente liberalizzato, per tre anni niente causali e proroghe a piacimento. Su questo, basti dire che l'Italia è già ora il Paese in cui il mercato del lavoro è più mobile e meno regolamentato, come dimostra lo studio comparato illustrato da Michele Raitano. Gli effetti negativi non sono solo quelli, del tutto evidenti, di ordine sociale, che tutto il PD, almeno sulla carta, combatte portando avanti la bandiera della lotta alla precarietà. C'è anche un effetto nefasto sulla competitività delle imprese, tenute sul mercato anche quando non raggiungono i livelli marginali di efficienza, grazie al sotto-salario (e all'illegalità). Consentendo loro di non investire, e di non ammodernare processi e prodotti si perpetua il ritardo di una fetta sempre più ampia del nostro sistema produttivo.

C'era chi aspettava questa riforma da anni. Ci aveva provato una dozzina d'anni fa il duo Maroni-Sacconi ma non avevano convinto i sindacati (e il prof. Marco Biagi non era d'accordo). Ci ha riprovato Sacconi da Ministro ma non ha fatto in tempo e alla Fornero è sembrata una mossa troppo azzardata.
Era questa la svolta buona che dovevamo aspettarci?