sabato 1 febbraio 2014

La legge elettorale può cambiare. Se tutto il PD lo vuole

Le contraddizioni dell'accordo Renzi Berlusconi. E di alcuni suoi critici

L'accordo sulla legge elettorale in discussione al Parlamento è lo specchio fedele delle contraddizioni del PD. Spiace dirlo, nel momento in cui l'attivismo di Renzi per il cambiamento ha portato quel partito, finalmente, a dettare l'agenda delle questioni. Ma è doveroso dirlo, perché se si abbassa la testa, andando a passo di carica si rischia di non vedere gli ostacoli. O di smarrire la rotta.
Partirei dalle contraddizioni più evidenti, su cui Renzi è passato, secondo il suo stile, come un carro armato. Sono quelle dell'area che ha retto la “ditta” fino al mese scorso, divisa ormai su quasi tutto ma non sulla strategia a cui resta ostinatamente legata benché non abbia retto fin qui alla prova dei fatti (politici), senza che nessuno in quel gruppo dirigente faccia mostra di volerne analizzare a fondo le cause.

Dovranno farlo, prima che sia troppo tardi. Convinti fin qui che la destra degli ultimi vent'anni (anomala nel panorama mondiale) fosse stata creata da Berlusconi, hanno ritenuto di dover cercare un accordo con lui in quanto padrone indiscusso, almeno fintanto che non fosse stato messo, come persona, in condizioni di non nuocere (dalla magistratura, se non dal caso, o dai malanni). Sordi ai richiami di chi li invitava a un'analisi meno approssimativa della base sociale della destra italiana, del suo DNA culturale, non avendo mai del tutto abbandonato la cultura dell'egemonia, si sono anche sentiti in dovere di di far da lievito per la nascita di un'altra destra, “normale” prima ancora che di sconfiggerlo.
Con questo impianto strategico-culturale guardano ora alla legge elettorale con una propensione inconfessabile per il proporzionalismo, tatticamente tenuta in ombra per ricercare in ogni caso una soluzione che permetta ai moderati di emanciparsi da Berlusconi, e conquistare la maggioranza in seno alla destra. Per questo la risposta all'accordo voluto da Renzi è stata molto debole: una critica ai punti dell'accordo meno graditi a Alfano senza porre al centro l'interesse politico, strategico, del PD e della sinistra in genere.
Non hanno chiesto ragione dell'abbandono del Mattarella, si sono limitati a un doveroso ossequio alla posizione storica del partito sul collegio uninominale e hanno scelto di restare nel recinto del modello spagnolo (la bozza Violante-Quagliariello, alla base della proposta Renzi). Le critiche si sono concentrate sull'entità del premio di maggioranza e sulle preferenze: temi ostici per Berlusconi, non per Alfano. Poco o niente sui due macroscopici punti deboli dell'accordo: le soglie e la soluzione transitoria per il Senato.
Fermiamoci sul premio di maggioranza, tema rivelatore. Perché Berlusconi vuole un ballottaggio solo sotto il 35%? Perché si vede perdente in un ballottaggio con la sinistra e deve perciò puntare il tutto per tutto su un voto equilibrato (cioè su una fetta consistente di voto di sinistra dirottata su Grillo). Solo così può sperare di raggranellare qualche voto più del PD appena sopra il 35%. Se poi non ce la facesse, può sempre sperare che i “5 stelle”, in un quadro che sarebbe evidentemente tripartito (una quarta coalizione è impedita dalla soglia del 12%), si inseriscano nel ballottaggio.
In quel caso, se il terzo escluso fosse il PD, potrebbe celebrare il de profundis per la sinistra. Se fosse la destra, cavalcherebbe l'avventura grillina, come ha fatto immancabilmente in tutte le occasioni in cui è successo (facendoli vincere, a partire da Parma).
L'entità del premio è dunque un tema di rottura con Berlusconi, dunque buono per la sinistra, si dirà. Ma interessa tanto anche a Alfano: il NCD ha bisogno di crescere. Può permettersi perfino una sconfitta se aiuta la liquidazione di Forza Italia.
Altrettanto dicasi per le preferenze, l'altro cavallo di battaglia dei cuperliani, riscoperte venti anni dopo la messa all'indice: le vuole il NCD, che punta a lanciare sul territorio maggiorenti locali in cerca di spazio autonomo, mentre a Berlusconi interessano i voti che premiano, con lui, le persone affidabili per la sua leadership. E sa che sono di più.

Un impianto ben calcolato: nell'interesse di chi?
Non che per il PD una soglia più alta non sia vantaggiosa, al di là del fatto che lo sia anche per il NCD. Anche la Consulta avrebbe molto da ridire. Ma qui viene alla luce la contraddizione cui sta andando incontro Matteo Renzi: il quadro sarebbe comunque ad altissimo rischio per le soluzioni sulle soglie d'ingresso e sul Senato, scelte da Berlusconi, con il generoso premio di maggioranza a suggellare il tutto.
Soglie d'accesso per i partiti coalizzati che tenessero fuori SEL (i partitini di destra, inventati per tentare una rimonta alle ultime elezioni, non sembrano più interessare a B.) o che, tra i non coalizzati, facessero il vuoto al centro chiudendo quella strada al NCD, toglierebbero al centro-sinistra ogni possibilità di coalizione (spingendo di nuovo Casini nel suo "alveo naturale" come è poi avvenuto.
Significa unificazione con SEL, o con SC? Prescindendo da ogni valutazione politica (e dagli umori emersi nel congresso SEL) sul piano elettorale una fusione a freddo sarebbe disastrosa. Un puro cartello elettorale? Farebbe saltare l'ipotesi di primarie libere nell'elettorato di sinistra per la scelta dei candidati imponendo “posti riservati”, che dalla quota SEL o SC si estenderebbero alle figure “di rilievo nazionale” prive di radicamento territoriale. Con tanti rischi anche per le alternanze di genere.
Le soglie così definite vanno dunque, con tutta evidenza, contro l'interesse del PD e della sinistra: sarebbero una sconfitta per le forze del cambiamento che chiedono una nuova legge elettorale per avvicinare la politica ai cittadini e scalfire l'eccesso di potere burocratico degli apparati di partito.
Quanto alla clausola per applicare il modello “Italicum”, in via transitoria, al Senato, semplicemente non esiste. Sia perché il vincolo costituzionale costringe a calcolare i resti del Senato su base regionale anziché nazionale, sia perché è diverso l'elettorato attivo. Dunque, nessuna garanzia di governabilità e anzi, alla luce del voto del 2013, forte probabilità di una nuova coabitazione forzata. Dunque, elezioni solo dopo il 2015. Un altro anno, per il PD, di sostegno a un governo destinato a non produrre nulla, per la distanza incolmabile dall'alleato di governo. Un governo il cui gradimento presso gli elettori è in crollo verticale: meno di un quarto lo approva. Film già visto verso la metà del 2012, quando il PD si è immolato per tenere in piedi il governo Monti.
Le contraddizioni dell'area post-comunista, il dover mantenere al centro, come prioritaria, l'intesa a destra con i soi-disant moderati, le impediscono di incalzare Renzi sui principali punti di debolezza dell'accordo. Ma nascondono, non cancellano, i limiti intrinseci del suo attivismo.
Veloci e risoluti per portare a casa il punto: questo l'imperativo per il funambolico neo-segretario. I “tre milioni di elettori” questo gli hanno chiesto: facci sognare, facci vincere dopo anni di frustrazione. Ma vincere cosa? L'attenzione dei media? La fine dei bizantinismi e della paralisi a cui si era condannato il PD? Obiettivi importanti, ma non in sé, non in quanto tali! Importanti se aprono la strada per affermare una nuova strategia, vincente rispetto ai grandi problemi di questo paese.

Cambiare si può. Se lo vuole il PD unito
Renzi ha ragione da vendere a voler stringere i tempi con un Parlamento di nominati recalcitranti per i quali la “sospensione della democrazia” ora in vigore non sembra rappresentare un problema. Ma proprio perché un suo insuccesso non sarebbe pagato da loro ma dal Paese occorre che stia bene attento a costruire una soluzione che sia praticabile e al tempo stesso faccia avanzare la democrazia.
A Renzi questa critica dà l'orticaria, ma perché è quella che più coglie nel segno. Non lo disturba l'opposizione del vecchio apparato, ancora attestato sulla linea dell'accordo al centro “perché la sinistra - nel credo dalemiano - non è maggioranza nel paese”. Ma c'è una sinistra che lo incalza, soprattutto da fuori ma con un punto di riferimento, sempre più solido, all'interno, nell'area di Civati. Una sinistra che pone domande e offre risposte alternative anche per l'immediato, ma solo in quanto proiettato in una visione del futuro.
Senza quella visione non si sovrasta la destra berlusconiana e non si risponde a chi chiede di cambiare verso, ma per davvero. Si spazzano via le obiezioni (ovvero, per riprendere la battuta fulminante di Altan, non ci si attarda a “pulire il water”). Prendere o lasciare, se si tocca crolla tutto.
Possibile? Da un leader capacissimo, un accordo così fragile?
Se fosse vero, nel linguaggio della sinistra di una volta sarebbe stato definito con un termine ormai desueto: avventurismo. Ma forse non è vero. Forse, invece, non si sa misurare il proprio potere contrattuale. Si sopravvaluta quello personale e si sottovaluta quello del collettivo: quanto conti il potere organizzato, quale forza di cambiamento provenga da un consenso informato, radicato, in grado di produrre una mobilitazione diffusa.