Esiste un popolo del PD. Non è una
figura retorica.
Mezzo milione di iscritti. Per una
parte non insignificante, attivi.
Circa tre milioni di simpatizzanti che
votano alle primarie. E una base elettorale da tre a quattro volte
più grande.
Quanto conta questo popolo?
Quelli che hanno votato, meno di un
anno fa, per una prospettiva di cambiamento, per un governo con una
impronta democratica, di sinistra, ispirato ai valori della
Costituzione uscita dalla Resistenza, sono stati traditi. Hanno visto
i loro eletti giustificare con uno stato di necessità, conseguenza
della mancata vittoria, il ritorno a un governo di ampia coalizione
con la peggiore destra per continuare sulla stessa strada che, dopo
la caduta di Berlusconi, si era già rivelata fallimentare con
l'esperienza Monti.
Il governo Letta non avrebbe potuto
fare di più. Ma era stato promesso che si sarebbe occupato di
espletare le pratiche urgenti in materia economica, fino alla Legge
di Stabilità, e di modificare la legge elettorale, destinata con
ogni evidenza ad essere dichiarata incostituzionale.
Sono stati traditi una seconda volta.
Quel governo ha dato l'idea di voler resistere a oltranza, dopo aver
assolto nel peggiore dei modi (abolizione dell'IMU e altri pasticci
in serie) alle incombenze economico-finanziarie, senza decidersi a
porre mano alla riforma elettorale.
Intanto, quando Berlusconi si è visto
costretto, come minore dei mali dal suo punto di vista, a scegliere
la via dell'uscita della maggioranza per prepararsi a una rivincita
elettorale, questa novità, anziché essere vista per quello che era
- un'ulteriore erosione della base di consenso del “governo di
necessità” -, è stata salutata come la svolta storica che avrebbe
permesso alla destra italiana di emanciparsi dal berlusconismo. Con
questo, in dispregio sfacciato della realtà dei fatti, si intendeva
far balenare l'idea che la maggioranza stesse acquistando una valenza
politica tale da permettere di uscire dallo stato di necessità.
A quel punto, quei tre milioni che sono
andati a votare alle primarie si sono espressi, in maggioranza
schiacciante, per una nuova leadership che prometteva di imporre al
Parlamento, senza mettere in crisi il governo, di modificare la legge
elettorale per portare, appena concluso il semestre di presidenza
europea (un tabù caro al Capo dello Stato), a nuove elezioni che
avrebbero restituito la parola ai cittadini perché scegliessero
finalmente lo schieramento cui affidare le sorti del Paese.
Sono stati traditi di nuovo. Il leader
stra-votato in nome di questi impegni solenni è stato sospinto,
dallo stesso gruppo dirigente del partito che aveva gestito tutte le
precedenti sconfitte e che aveva pervicacemente tradito i suoi
elettori, a imporsi come nuovo premier, senza passare per il vaglio
delle elezioni, per tenere in piedi la stessa maggioranza, lo stesso
Parlamento, lo stesso blocco di interessi che in questi anni di crisi
aveva prosperato sulle spalle degli italiani, a spese degli strati
più deboli che la politica aveva lasciato privi di ogni sostegno.
Non solo. Prendendo la via di Palazzo
Chigi non lascia la segreteria del partito e sceglie di abbandonarlo
a se stesso, senza guida. Ancora un tradimento, ancora una beffa,
ancora una dimostrazione di indifferenza per le persone che lo
compongono e lo animano. Per coloro da cui proviene il mandato.
Questo accade, mentre si celebrano
stancamente, come un rito inutile, i congressi regionali. Da cui sta
emergendo il quadro di un partito coacervo di interessi, aggregato
informe di comitati elettorali in perenne contesa per le poltrone.
Quousque tandem, dicono gli amanti del
classico. Fino a quando questo popolo potrà accettare passivamente
di essere tradito, beffato, umiliato, sfruttato?
Non è una domanda retorica ma un
programma politico. Ora, senza perdere un minuto di più, è il
momento di riappropriarsi del proprio strumento politico. Non un
altro, non uno qualsiasi, ma quello che è stato faticosamente
costruito nei 25 anni che ci separano dalla fine della guerra fredda
come luogo di associazione dei cittadini che si ispirano ai valori
della sinistra democratica e sognano di veder realizzare un progetto
politico mirato all'uguaglianza dei diritti, alla legalità come base
della convivenza civile, alla sostenibilità.
Quello è oggi il contenitore,
l'aggregato cui quel popolo continua a guardare e in cui continua,
tenacemente, a riporre le speranze.
Riappropriarsi. Significa aprire le
sedi per partecipare e farsi sentire. Significa utilizzare tutti i
mezzi di espressione e di comunicazione per diffondere la propria
voce. Significa organizzarsi per imporre, con tutti gli strumenti
democratici che in un partito e nelle varie sedi istituzionali sono
disponibili, un cambio di rotta radicale che riporti la politica nel
solco delle scelte condivise da quel popolo. Che è sovrano e intende
dimostrare di esserlo non solo nei libri di teoria ma nei fatti.
C'è una prima occasione per fare tutto
questo. Andare a votare, ancora una volta, domenica 16 febbraio,
negli stessi luoghi dove si è votato l'8 dicembre, per scegliere i
segretari regionali e le assemblee regionali del PD:
In queste regioni, tra quelle dove si
vota, c'è un candidato che è espressione della parte che ha difeso
con coerenza le ragioni del popolo PD, fino al voto contrario nella
direzione del 13 febbraio, l'area raccolta intorno al candidato alla
segreteria nazionale Pippo Civati:
Piemonte – Daniele Viotti
Lombardia – Diana De Marchi
Liguria – Stefano Gaggero
Umbria – Juri Cerasini
Marche – Luca Fioretti
Lazio – Marco Guglielmo
Calabria – Mimmo Lo Polito
Sicilia – Antonella Monastra
In queste altre, pur non essendoci un
candidato segretario di area Civati, vi sono tuttavia aderenti alla
mozione nelle liste dei seguenti candidati a segretario:
Bolzano – Liliana Di Fede
Campania – Michele Grimaldi
Molise – Micaela Fanelli
Non rassegnatevi. Non buttate via
questa occasione. Il PD è il nostro partito, ce ne riapproprieremo.