mercoledì 19 febbraio 2014

Le primarie per il regionale PD del Molise. Si volta pagina

Non ho potuto seguire da vicino le primarie per il segretario regionale del Molise ma mi sono tenuto costantemente in rapporto con gli amici di “Molise per Civati”. A loro mi unisce, oltre a un'antica consuetudine, un impegno appassionato, con Pippo Civati, per un PD diverso, coerente nel rapporto con gli elettori, affidabile e aperto per i suoi iscritti, che ritrovi la sua collocazione storica nella sinistra dello schieramento politico italiano.

Abbiamo attentamente valutato, con loro e con i referenti di tutte le regioni italiane chiamate al voto, le scelte da compiere per dare continuità alla battaglia che con Civati avevamo sostenuto nelle primarie dell'8 dicembre, arrivando ad ottenere tra gli elettori quindici volte i consensi della fase di pre-selezione dei candidati riservata agli iscritti. 
Il contemporaneo esaurirsi della capacità di direzione e perfino della coesione interna del gruppo che era stato alla guida del PD dopo la caduta di Veltroni, ci aveva caricato di una grande responsabilità: indicare una prospettiva, un programma di governo per tutto il partito su una piattaforma saldamente ancorata nei valori della sinistra.
La spinta al cambiamento che aveva premiato Renzi, aveva lasciato a questo riguardo troppi lati oscuri. Cambiare verso, ma in quale direzione? Quale segno avrebbe avuto la discontinuità? Quale spazio avrebbero avuto i vecchi metodi di direzione e i potentati che ne erano stati i protagonisti? Domanda, quest'ultima, imposta in particolare dal massiccio effetto “carro del vincitore” che si era verificato non appena si era colta l'ampiezza del consenso degli elettori verso il sindaco fiorentino.

Domande che oggi sono ancora più di attualità, e caricano il nostro gruppo di consensi (e responsabilità) ancora maggiori, dentro il PD e più in generale nella sinistra italiana.


Queste valutazioni ci hanno portato, nella maggior parte delle regioni in cui si è votato, a presentare nostri candidati per esprimere con la massima chiarezza, in totale libertà, le nostre posizioni e le obiezioni che muoviamo all'indirizzo politico che ha prevalso dopo le primarie nazionali.
In tre regioni la valutazione è stata diversa, tra queste anche il Molise.
Gli amici "civatiani" del Molise hanno avanzato per primi una candidatura, quella di Michele Di Giglio, per mettere un punto fermo e chiarire che sarebbero andati al confronto con gli elettori senza remore, nella chiarezza. Ma hanno anche detto fin dal primo momento – ero presente personalmente all'incontro in cui il gruppo ha assunto formalmente questa decisione, ripresa ampiamente dalla stampa locale – che erano pronti a fare un passo indietro nel momento in cui fossero emerse possibilità di convergenza su alcuni punti fermi.
In Molise la scelta era netta: la discriminante fondamentale stava nella rottura di continuità rispetto alla gestione del partito successiva alle ultime primarie. Non credo di dovermi dilungare sul giudizio attorno a quella gestione. Ne ho scritto a più riprese su questo blog, da ultimo ho considerato una sorta di delitto efferato aver imposto un'alleanza innaturale in Regione, su basi prive di qualunque contenuto programmatico, esclusivamente in nome di una gestione comune del potere, concordata a tavolino tra individui, manovra tutta interna al personale politico. Antesignani, precursori, per dirla tutta, se ragioniamo sugli aspetti che destano maggiore preoccupazione nelle vicende di questi giorni al governo nazionale: larghe intese che si fanno strette, un'alleanza “di necessità” che si fa maggioranza politica, un governo che nasce, di servizio, con scadenza ravvicinata e diventa di svolta, con un'orizzonte di legislatura. Senza uno straccio di programma. Esattamente quanto avvenuto in Molise, nella ripetizione 2013 delle elezioni regionali, quando è stata gettata alle ortiche la ventata di novità, di cambiamento effettivo, dell'ottobre 2011.

Avendo posto queste premesse, il gruppo è stato chiamati a unire le forze da una parte dei sostenitori di Renzi a livello nazionale, raccolti attorno a Micaela Fanelli e al Presidente Frattura. Non ha posto pregiudiziali o rigidità sul candidato segretario, ma tre condizioni politiche precise. Che ci fossero pronunciamenti programmatici chiari su alcune delle questioni più scottanti sul tappeto, nella situazione economico-sociale della Regione e nella vita del partito. Che non ci fossero mediazioni o compromessi, in nome del “volemose bene - scurdammoce 'o passato” con chi aveva le maggiori responsabilità nella deriva catastrofica del partito regionale. Che il partito riconquistasse una piena autonomia nei confronti delle istituzioni, senza commistioni di ruolo, non per esercitare una critica sterile o preconcetta ma per stimolare la definizione di soluzioni innovative, marcate a sinistra, partecipando attivamente alla loro costruzione. 
Quest'ultima condizione porta come conseguenza un impegno nel partito a tempo pieno e senza commistioni con incarichi istituzionali per il segretario, Micaela Fanelli, che pertanto, nell'eventuale prospettiva, pur legittima, di candidarsi ad incarichi rappresentativi o esecutivi a livello nazionale passerebbe il testimone al vice, indicato sin dall'inizio nel coordinatore regionale della nostra area, Michele Di Giglio, capolista del raggruppamento unitario.


Questa scelta è stata premiata dagli elettori. Per i miei amici “civatiani” è stata un'esperienza di grande rilievo, per incrociare da vicino i problemi, le aspirazioni, gli ideali del popolo del PD in Molise e per misurarsi con le risposte e le proposte di soluzioni.
Il fronte dei “noti” non ha ritenuto di esprimere una candidatura in prima persona: il risultato delle primarie nazionali sconsigliava un simile azzardo. E' così confluito attorno a un'altra esponente del “renzismo” molisano, l'on. Laura Venittelli, persona che in Parlamento coltiva peraltro ottimi rapporti personali con Pippo Civati, inquadrabile nell'area politica di Franceschini. Rispettabile, come scelta di fedeltà a quei legami, che l'ha portata però a farsi portavoce di un gruppo dirigente regionale che nella sua stessa città, Termoli, ha praticamente distrutto il Partito Democratico. Una scelta che era doveroso combattere con la massima chiarezza e determinazione.
E' stato un confronto serrato, una partita combattuta, il cui esito è stato però chiaro. Ora si volta pagina. I migliori auguri a Micaela Fanelli, a Michele Di Giglio e al nuovo gruppo dirigente che è chiamato a cimentarsi con impegni di enorme portata.

Il rigore e la coerenza saranno le armi migliori per affrontarli al meglio e per vederli coronati da successo. Primo appuntamento: il tagliando dei dodici mesi per la Giunta. L'occasione per uscire dalla fase delle coabitazioni innaturali e delle pratiche spartitorie che tanti danni hanno provocato al Molise. Un regalo che gli elettori molisani meriterebbero finalmente di ricevere.  

sabato 15 febbraio 2014

16 febbraio. Appello al voto, per riprenderci il PD

Esiste un popolo del PD. Non è una figura retorica.
Mezzo milione di iscritti. Per una parte non insignificante, attivi.
Circa tre milioni di simpatizzanti che votano alle primarie. E una base elettorale da tre a quattro volte più grande.

Quanto conta questo popolo?
Quelli che hanno votato, meno di un anno fa, per una prospettiva di cambiamento, per un governo con una impronta democratica, di sinistra, ispirato ai valori della Costituzione uscita dalla Resistenza, sono stati traditi. Hanno visto i loro eletti giustificare con uno stato di necessità, conseguenza della mancata vittoria, il ritorno a un governo di ampia coalizione con la peggiore destra per continuare sulla stessa strada che, dopo la caduta di Berlusconi, si era già rivelata fallimentare con l'esperienza Monti.
Il governo Letta non avrebbe potuto fare di più. Ma era stato promesso che si sarebbe occupato di espletare le pratiche urgenti in materia economica, fino alla Legge di Stabilità, e di modificare la legge elettorale, destinata con ogni evidenza ad essere dichiarata incostituzionale.

Sono stati traditi una seconda volta. Quel governo ha dato l'idea di voler resistere a oltranza, dopo aver assolto nel peggiore dei modi (abolizione dell'IMU e altri pasticci in serie) alle incombenze economico-finanziarie, senza decidersi a porre mano alla riforma elettorale.
Intanto, quando Berlusconi si è visto costretto, come minore dei mali dal suo punto di vista, a scegliere la via dell'uscita della maggioranza per prepararsi a una rivincita elettorale, questa novità, anziché essere vista per quello che era - un'ulteriore erosione della base di consenso del “governo di necessità” -, è stata salutata come la svolta storica che avrebbe permesso alla destra italiana di emanciparsi dal berlusconismo. Con questo, in dispregio sfacciato della realtà dei fatti, si intendeva far balenare l'idea che la maggioranza stesse acquistando una valenza politica tale da permettere di uscire dallo stato di necessità.

A quel punto, quei tre milioni che sono andati a votare alle primarie si sono espressi, in maggioranza schiacciante, per una nuova leadership che prometteva di imporre al Parlamento, senza mettere in crisi il governo, di modificare la legge elettorale per portare, appena concluso il semestre di presidenza europea (un tabù caro al Capo dello Stato), a nuove elezioni che avrebbero restituito la parola ai cittadini perché scegliessero finalmente lo schieramento cui affidare le sorti del Paese.

Sono stati traditi di nuovo. Il leader stra-votato in nome di questi impegni solenni è stato sospinto, dallo stesso gruppo dirigente del partito che aveva gestito tutte le precedenti sconfitte e che aveva pervicacemente tradito i suoi elettori, a imporsi come nuovo premier, senza passare per il vaglio delle elezioni, per tenere in piedi la stessa maggioranza, lo stesso Parlamento, lo stesso blocco di interessi che in questi anni di crisi aveva prosperato sulle spalle degli italiani, a spese degli strati più deboli che la politica aveva lasciato privi di ogni sostegno.

Non solo. Prendendo la via di Palazzo Chigi non lascia la segreteria del partito e sceglie di abbandonarlo a se stesso, senza guida. Ancora un tradimento, ancora una beffa, ancora una dimostrazione di indifferenza per le persone che lo compongono e lo animano. Per coloro da cui proviene il mandato.
Questo accade, mentre si celebrano stancamente, come un rito inutile, i congressi regionali. Da cui sta emergendo il quadro di un partito coacervo di interessi, aggregato informe di comitati elettorali in perenne contesa per le poltrone.

Quousque tandem, dicono gli amanti del classico. Fino a quando questo popolo potrà accettare passivamente di essere tradito, beffato, umiliato, sfruttato?
Non è una domanda retorica ma un programma politico. Ora, senza perdere un minuto di più, è il momento di riappropriarsi del proprio strumento politico. Non un altro, non uno qualsiasi, ma quello che è stato faticosamente costruito nei 25 anni che ci separano dalla fine della guerra fredda come luogo di associazione dei cittadini che si ispirano ai valori della sinistra democratica e sognano di veder realizzare un progetto politico mirato all'uguaglianza dei diritti, alla legalità come base della convivenza civile, alla sostenibilità.
Quello è oggi il contenitore, l'aggregato cui quel popolo continua a guardare e in cui continua, tenacemente, a riporre le speranze.
Riappropriarsi. Significa aprire le sedi per partecipare e farsi sentire. Significa utilizzare tutti i mezzi di espressione e di comunicazione per diffondere la propria voce. Significa organizzarsi per imporre, con tutti gli strumenti democratici che in un partito e nelle varie sedi istituzionali sono disponibili, un cambio di rotta radicale che riporti la politica nel solco delle scelte condivise da quel popolo. Che è sovrano e intende dimostrare di esserlo non solo nei libri di teoria ma nei fatti.

C'è una prima occasione per fare tutto questo. Andare a votare, ancora una volta, domenica 16 febbraio, negli stessi luoghi dove si è votato l'8 dicembre, per scegliere i segretari regionali e le assemblee regionali del PD:
In queste regioni, tra quelle dove si vota, c'è un candidato che è espressione della parte che ha difeso con coerenza le ragioni del popolo PD, fino al voto contrario nella direzione del 13 febbraio, l'area raccolta intorno al candidato alla segreteria nazionale Pippo Civati:

Piemonte – Daniele Viotti
Lombardia – Diana De Marchi
Liguria – Stefano Gaggero
Umbria – Juri Cerasini
Marche – Luca Fioretti
Lazio – Marco Guglielmo
Calabria – Mimmo Lo Polito
Sicilia – Antonella Monastra

In queste altre, pur non essendoci un candidato segretario di area Civati, vi sono tuttavia aderenti alla mozione nelle liste dei seguenti candidati a segretario:

Bolzano – Liliana Di Fede
Campania – Michele Grimaldi
Molise – Micaela Fanelli


Non rassegnatevi. Non buttate via questa occasione. Il PD è il nostro partito, ce ne riapproprieremo.

mercoledì 12 febbraio 2014

Sette buone ragioni per rifiutare la staffetta

Se non per convincere Renzi, almeno perché si lasci attraversare dal dubbio

1. Il programma
Non c'è. Non l'ha scritto il PD, mentre quello scritto da Letta non può essere il programma di Renzi (o ho capito male il senso del ricambio). E' dunque tutto da costruire. Il guaio è che sarà costruito DOPO, non PRIMA di aver fatto il governo. Non si è mai visto (tanto per ricordarlo a chi evoca la Grosse Koalition, nata da due mesi di trattative serrate). O pensiamo che il paese possa restare due mesi fermo, ad aspettare che Alfano ci spieghi se i figli di immigrati nati in Italia potranno prima o poi essere cittadini italiani o se si può recuperare un po' di progressività nell'imposizione fiscale?

2. Gli elettori
Senza voce in capitolo. Eppure, nell'anno trascorso dalle elezioni i cittadini hanno fatto le loro riflessioni sulla situazione che si è creata. Non amano il compromesso senza anima (piace al 24%). Sentono l'oppressione della crisi economica. Una parte sempre più larga sta prendendo coscienza del fatto che la crisi in Italia morde più forte che altrove perché il potere economico-finanziario non solo condiziona la politica ma, infettato dal potere criminale, è arrivato a permearla direttamente attraverso l'intreccio affaristico. Perciò, si aspetterebbero che la forze che si contrappongono a quell'intreccio si dimostrassero in grado di produrre una proposta convincente, condivisa, e una legge elettorale che consentisse loro di liberarsi dai condizionamenti e di unirsi per governare.
Se li si condanna a restare in silenzio per altri tre anni, per la terza edizione del compromesso senza anima, si producono invece effetti distruttivi, fino a minare le basi della convivenza civile.

3. I pericoli
La frustrazione degli elettori unita al disagio sociale sempre più grave possono innescare una miscela esplosiva. C'è stata un'evoluzione democratica delle forze dell'ordine (e delle forze armate, più aperte al mondo di altri apparati). Le propaggini del blocco corporativo-conservatore al loro interno sono, sì, solide, ben arroccate, tentate dall'eversione, ma numericamente minoritarie. Per quanto potremo però fare affidamento su questo equilibrio? La nostra storia passata ci insegna che i pericoli possono venire da “formazioni irregolari”, se così vogliamo chiamarle, e che le forze regolari, fedeli alle istituzioni, possono far fatica ad arginarle se la politica invece di guidarle le svia dai loro compiti. E' un pericolo remoto? Non è mai il caso di scherzare col fuoco.

4. L'Europa
La costruzione dell'Europa è a un punto critico che, nei fenomeni fisico-chimici, prelude in genere a una catastrofe, intesa come discontinuità imprevedibile. Tra pochi mesi, dopo le elezioni europee, sarà più chiaro se il cambiamento inevitabile porterà a più Europa, ossia un'intensificazione del processo di unità politica, o a un indebolimento dell'Unione. In questo caso si andrà ad un allentamento dei vincoli (già traballa l'accordo di Schengen, dopo il referendum svizzero) fino a possibili fratture: prima fra tutte, la possibile divisione tra euro forte e euro-sud. Nel 2011, quando l'Italia berlusconiana rischiava di far collassare l'intera Europa l'allarme è scattato per salvare, con l'economia italiana, quella europea (a caro prezzo!). Se cambia il vento l'Europa forte potrebbe invece scegliere di fare della debolezza italiana la leva per una dislocazione dei poteri e una ristrutturazione dell'assetto dell'Europa. In quel caso non solo non ci sarebbe nessun Draghi pronto a iniettare liquidità nel sistema bancario né alcun progetto di costituzione di Euro-bond per impedire la speculazione sui debiti sovrani ma si rischierebbe una manovra di strangolamento (non necessariamente attraverso lo spread, arma spuntata). Un governo inefficiente, di basso compromesso, in quel caso sarebbe, sì, aiutato: a fallire.

5. I precedenti
Il blocco corporativo-conservatore che tiene prigioniero il nostro paese ha già compiuto un'operazione simile 15 anni fa. Allora spaventava Prodi che con l'ingresso nell'euro e il patto per il lavoro con i sindacati aveva raggiunto il massimo consenso (mai più uguagliato in seguito) su un'azione riformatrice, pur tiepida ma di segno inequivocabile. Quel blocco mandò avanti D'Alema, facendo credere che si trattasse di uno spostamento a sinistra (complice Bertinotti) e sviando l'attenzione dai veri protagonisti (guidati da Cossiga), avendo ben chiaro come il programma si sarebbe ispirato a quello di Toni Blair. Oggi quel blocco è spaventato da quello che Renzi potrebbe (forse) fare vincendo le elezioni e governando con una maggioranza solida (quanto basta), attorno a un programma riformatore, pur tiepido. Non è detto che vada così ma quel blocco preferisce non correre rischi e manda avanti … Renzi stesso, consigliato all'uopo dai tanti che quel blocco gli ha disseminato intorno, per imbrigliarlo in una maggioranza saldamente controllata e quindi sbriciolarlo, contando sullo stato confusionale in cui versa il PD dopo lo sfaldamento del gruppo che ne aveva retto le sorti.

6. Il partito
Renzi avrebbe bisogno di un partito dietro le spalle, che potenzialmente rappresenterebbe una notevole forza organizzata, in grado di espandere il consenso, di intercettare istanze e elaborare collettivamente soluzioni. Ma quel partito è in condizioni disastrose. Anni di gestione oligarchica, di un'oligarchia per di più priva di qualunque senso di solidarietà interna, che lo ha usato come mero canale di costruzione di reti clientelari, è diventato un luogo di contesa perenne tra bande armate. La forza potenziale del suo corpo di attivisti è stata così azzerata. Potrebbe essere recuperata e rilanciata ma sarebbe necessaria, per riuscirci, una ricostruzione di lunga lena: diciamo un anno almeno, nella migliore delle ipotesi, con un impegno intenso e costante. Non se n'è ancora avuto sentore. Anzi, i congressi regionali stanno mettendo in evidenza come le dinamiche conflittuali, distruttive, stiano attraversando profondamente l'area che si era raccolta attorno a Renzi (per stravincere e così perpetuarsi). Dalle Marche al Molise, dal Lazio alla Campania, dalla Calabria alla Sicilia, si assiste a lotte fratricide tra esponenti delle diverse anime del renzismo, mentre il vecchio apparato che era rimasto fedele a Bersani e D'Alema sta cercando di ricollocarsi senza però sapere dove. In questa situazione lasciare il partito senza una guida riconosciuta, come intende fare Renzi nel caso traslocasse a Palazzo Chigi, renderebbe impossibile quel processo e il ramo su cui Renzi dovrebbe poggiare finirebbe per spezzarsi definitivamente.

7. La sinistra
Con il disfacimento del PD il percorso di ricostruzione, in Italia, di una sinistra normale, riconoscibile come tale nei cinque continenti, richiederebbe presumibilmente altri dieci anni (due cicli elettorali). Un quarto di secolo è già passato dalla caduta del Muro (e dalla fine del PCI). Va ad aggiungersi ai 45 anni della guerra fredda con la conventio ad excludendum (o fattore K) che avevano prodotto l'anomalia di una sinistra esclusa da ogni prospettiva di governo. Prima, 20 anni di repressione violenta operata dal fascismo. Un'eclissi lunga un secolo … e non è finita. Renzi, non farlo!

Per finire, l'alternativa.
Ci sarebbe.
Letta, dimissionario o sfiduciato, viene invitato a restare in carica per l'ordinaria amministrazione e, come governo di scopo, per modificare la legge elettorale entro sessanta giorni. 
Ben s'intende, dopo che il segretario del maggiore partito abbia notificato al Presidente della Repubblica l'impossibilità di formare un governo e la necessità di sciogliere le Camere così da votare entro l'estate.

giovedì 6 febbraio 2014

Verso il JOBS ACT: una legge sulla rappresentanza


Si parla di rappresentanza.
Se ne parla perché il 10 gennaio è stato firmato da Confindustria e CGIL-CISL-UIL l'ultimo atto di una storia iniziata con l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011.
Ma anche perché quell'atto doveva essere solo la conclusione del percorso, per la sua traduzione operativa, mentre ha invece prodotto una frattura che sta rimettendo in discussione il quadro largamente unitario in cui sembrava si potesse svolgere il congresso della CGIL.
E perché nelle situazioni di crisi più gravi (come quella del distretto del bianco nel nord-est) si invoca una rapida implementazione di quell'accordo per sfruttare i nuovi spazi di libertà che dovrebbe offrire nella trattativa.
Infine, perché il neo-segretario del PD nell'annunciare, nel suo manifesto programmatico sul lavoro detto “Jobs Act”, una legge sulla rappresentanza, assicura di volersi attenere strettamente al punto di arrivo segnato da quell'accordo.

Se ne dovrà parlare, dunque. E si dovrà sciogliere, senza ulteriori rinvii, il nodo dell'intervento per legge di cui parla il manifesto di Renzi. Nei prossimi giorni si dovrebbero conoscere più in dettaglio le linee su cui si andrà alla sua traduzione operativa. E' da lì che si dovrà cominciare. Come sarà concepita una legge su questa materia? Senza una risposta l'accordo resterà un puro esercizio di stile (un “wishful thinking” nella lingua del “jobs act”), il congresso della CGIL si dividerà su un punto di principio che non avrà nessuna conseguenza pratica e nei tavoli di crisi tutto resterà come prima.
Il nodo è però piuttosto intricato perché sembra esserci un larga, larghissima, convergenza, su una classica “conventio ad excludendum” che, se non rimossa, minerà alla radice qualunque sforzo, per quanto lodevole, di condurre a conclusione questa vicenda. L'intesa, voglio dire, di escludere dal quadro qualunque intervento in attuazione dell'articolo 39 della Costituzione. Citiamolo:


L'organizzazione sindacale è libera.Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.




Eppure quell'articolo fissa una linea di demarcazione precisa tra due culture difficilmente conciliabili, in materia di relazioni sindacali. Quella che fin qui ha prevalso considera le rappresentanze organizzate dei lavoratori e delle imprese come delle libere associazioni i cui accordi non hanno altro valore che quello che deriva dalla adesione degli associati e dalla libera volontà di altri soggetti di aderire.
Che abbia prevalso questa cultura nulla toglie al fatto che - le biblioteche sono piene di opere dedicate a questo argomento - il suo innesto nel nostro sistema giuridico e, in generale, nell'impianto della nostra Costituzione abbia comportato non poche contraddizioni. Per non parlare della complessa evoluzione delle posizioni, dei sindacati così come delle forze politiche, a questo riguardo, con cambiamenti di fronte e inversioni di ruoli.
Di fatto, la magistratura nel suo concreto operare non ha potuto fare a meno di assumere gli accordi tra le associazioni “maggiormente rappresentative” come termine di paragone per dirimere le controversie in materia di lavoro, anche al di fuori dell'ambito strettamente coperto dai contratti. E il Parlamento ha a più riprese, in particolare con lo Statuto dei Lavoratori del 1970, tentato di dare una veste giuridica più solida e più vincolante al ruolo delle rappresentanze. E vari referendum si sono pronunciati sulla materia, rendendo in effetti ancora più intricato il groviglio normativo.
La discussione che oggi attira maggiormente l'attenzione verte, ancora e sempre, sulle condizioni di “esigibilità” degli accordi non solo nel rapporto tra quelli stipulati da sindacati maggiormente rappresentativi e quelli stipulati da mini-associazioni (in genere riconducibili al fenomeno dei sindacati gialli) ma anche nel rapporto tra quelli stipulati ai vari livelli: nazionale o territoriale, confederale o categoriale, fino all'aziendale.
Perché questa disputa è destinata a non trovare soluzione senza un'applicazione dell'articolo 39, che metta un punto fermo dopo settanta anni? Perché la Costituzione fissa con chiarezza le condizioni perché un accordo sindacale sia applicabile a tutti (erga omnes) con forza di legge.
In mancanza di quelle condizioni, nessuna legge può imporre che una norma contrattuale si applichi oltre il suo campo di validità.
Per essere più precisi, si può in effetti, anche oggi, attribuire validità universale a una norma contrattuale, se quella norma viene assunta nel corpo di una legge e portata all'approvazione del Parlamento. Con ciò però si espropria l'autonomia collettiva delle parti sociali e si irrigidisce la loro dinamica in una gabbia irrazionale e socialmente ingiusta (inutile tornare a commentare l'assurdità di una norma come l'articolo 8 della legge 148/11, voluta da Sacconi, che all'opposto consente a un accordo tra le parti di derogare ad una norma di legge).

Non solo. C'è un'ulteriore conseguenza della mancata traduzione in legge del dettato costituzionale in materia di estensione erga omnes dei contratti. Occorre tenerla ben presente perché è su questo punto che si innesta la critica di incostituzionalità che la FIOM muove all'accordo attuativo del 10 gennaio, laddove si sanzionano iniziative dirette a contrastare i contratti approvati secondo le regole concordate. Perché se non sono assolte le condizioni fissate dalla Costituzione, da recepire in legge, non c'è autorità che possa impedire a chi si ritrovi incluso nel campo di validità di un accordo (nazionale, ad esempio) di esigerne l'applicazione se lo considera più favorevole rispetto ad una norma prevista in un altro accordo (aziendale, ad esempio) il cui campo di validità si sovrapponga al primo.
Facciamo un esempio semplice. Un'azienda rientra nel campo di applicazione di un contratto nazionale che prevede un certo orario settimanale di lavoro (normale) per un dato stipendio: se quell'accordo non prevede esplicitamente la possibilità di derogare in una sede diversa (territoriale o aziendale) qualunque accordo che modifichi in altra sede quella condizione (allungando l'orario o diminuendo la paga) non potrà essere applicato al dipendente che faccia richiesta in questo senso (come singolo o associato in un sindacato).
L'obiezione che viene mossa, da chi critica questo assetto, è che la norma reputata meno vantaggiosa potrebbe essere collegata, in sede locale, a contropartite che renderebbero il quadro di assieme più favorevole per i lavoratori pur comportando un peggioramento per un singolo aspetto. Il fatto è che la valutazione circa la convenienza complessiva di un accordo deve essere riscontrata da ciascuno singolarmente. A meno che (e qui interviene la norma costituzionale) una procedura certa e verificabile non abbia consentito di raccogliere in modo libero l'adesione, se non di ogni singolo lavoratore, della maggioranza degli interessati rientranti nel campo di applicazione.

Se quella procedura non viene stabilita, applicando la Costituzione, l'”esigibilità” di un accordo, non da parte delle associazioni di rappresentanza (il tema che oggi divide e appassiona, pur avendo poca rilevanza) ma da parte dei singoli cittadini/lavoratori interessati, non solo non può essere conculcata ma nemmeno ha senso metterla in discussione. Quel diritto sta scritto nelle basi del nostro ordinamento e non c'è riforma che possa toccarlo senza toccare le basi stesse dello stato di diritto. L'ultimo, più eclatante, episodio in questo senso cui abbiamo assistito è stata la vertenza ILVA. Il diritto alla salute non c'è decreto che possa sottometterlo ad altri diversi e contrastanti interessi: men che meno si può immaginare che un tale potere sia attribuito ad un'intesa sindacale.


Mettere ordine e dare certezza giuridica in questo campo è urgente. Non lo esige una corrente di pensiero giuridico, o una forza sindacale: si tratta di un'esigenza squisitamente politica su cui dovrebbe ritrovarsi chiunque abbia sposato la causa della democrazia come premessa indispensabile di una ordinata convivenza civile e di una solida coesione sociale.   

sabato 1 febbraio 2014

La legge elettorale può cambiare. Se tutto il PD lo vuole

Le contraddizioni dell'accordo Renzi Berlusconi. E di alcuni suoi critici

L'accordo sulla legge elettorale in discussione al Parlamento è lo specchio fedele delle contraddizioni del PD. Spiace dirlo, nel momento in cui l'attivismo di Renzi per il cambiamento ha portato quel partito, finalmente, a dettare l'agenda delle questioni. Ma è doveroso dirlo, perché se si abbassa la testa, andando a passo di carica si rischia di non vedere gli ostacoli. O di smarrire la rotta.
Partirei dalle contraddizioni più evidenti, su cui Renzi è passato, secondo il suo stile, come un carro armato. Sono quelle dell'area che ha retto la “ditta” fino al mese scorso, divisa ormai su quasi tutto ma non sulla strategia a cui resta ostinatamente legata benché non abbia retto fin qui alla prova dei fatti (politici), senza che nessuno in quel gruppo dirigente faccia mostra di volerne analizzare a fondo le cause.

Dovranno farlo, prima che sia troppo tardi. Convinti fin qui che la destra degli ultimi vent'anni (anomala nel panorama mondiale) fosse stata creata da Berlusconi, hanno ritenuto di dover cercare un accordo con lui in quanto padrone indiscusso, almeno fintanto che non fosse stato messo, come persona, in condizioni di non nuocere (dalla magistratura, se non dal caso, o dai malanni). Sordi ai richiami di chi li invitava a un'analisi meno approssimativa della base sociale della destra italiana, del suo DNA culturale, non avendo mai del tutto abbandonato la cultura dell'egemonia, si sono anche sentiti in dovere di di far da lievito per la nascita di un'altra destra, “normale” prima ancora che di sconfiggerlo.
Con questo impianto strategico-culturale guardano ora alla legge elettorale con una propensione inconfessabile per il proporzionalismo, tatticamente tenuta in ombra per ricercare in ogni caso una soluzione che permetta ai moderati di emanciparsi da Berlusconi, e conquistare la maggioranza in seno alla destra. Per questo la risposta all'accordo voluto da Renzi è stata molto debole: una critica ai punti dell'accordo meno graditi a Alfano senza porre al centro l'interesse politico, strategico, del PD e della sinistra in genere.
Non hanno chiesto ragione dell'abbandono del Mattarella, si sono limitati a un doveroso ossequio alla posizione storica del partito sul collegio uninominale e hanno scelto di restare nel recinto del modello spagnolo (la bozza Violante-Quagliariello, alla base della proposta Renzi). Le critiche si sono concentrate sull'entità del premio di maggioranza e sulle preferenze: temi ostici per Berlusconi, non per Alfano. Poco o niente sui due macroscopici punti deboli dell'accordo: le soglie e la soluzione transitoria per il Senato.
Fermiamoci sul premio di maggioranza, tema rivelatore. Perché Berlusconi vuole un ballottaggio solo sotto il 35%? Perché si vede perdente in un ballottaggio con la sinistra e deve perciò puntare il tutto per tutto su un voto equilibrato (cioè su una fetta consistente di voto di sinistra dirottata su Grillo). Solo così può sperare di raggranellare qualche voto più del PD appena sopra il 35%. Se poi non ce la facesse, può sempre sperare che i “5 stelle”, in un quadro che sarebbe evidentemente tripartito (una quarta coalizione è impedita dalla soglia del 12%), si inseriscano nel ballottaggio.
In quel caso, se il terzo escluso fosse il PD, potrebbe celebrare il de profundis per la sinistra. Se fosse la destra, cavalcherebbe l'avventura grillina, come ha fatto immancabilmente in tutte le occasioni in cui è successo (facendoli vincere, a partire da Parma).
L'entità del premio è dunque un tema di rottura con Berlusconi, dunque buono per la sinistra, si dirà. Ma interessa tanto anche a Alfano: il NCD ha bisogno di crescere. Può permettersi perfino una sconfitta se aiuta la liquidazione di Forza Italia.
Altrettanto dicasi per le preferenze, l'altro cavallo di battaglia dei cuperliani, riscoperte venti anni dopo la messa all'indice: le vuole il NCD, che punta a lanciare sul territorio maggiorenti locali in cerca di spazio autonomo, mentre a Berlusconi interessano i voti che premiano, con lui, le persone affidabili per la sua leadership. E sa che sono di più.

Un impianto ben calcolato: nell'interesse di chi?
Non che per il PD una soglia più alta non sia vantaggiosa, al di là del fatto che lo sia anche per il NCD. Anche la Consulta avrebbe molto da ridire. Ma qui viene alla luce la contraddizione cui sta andando incontro Matteo Renzi: il quadro sarebbe comunque ad altissimo rischio per le soluzioni sulle soglie d'ingresso e sul Senato, scelte da Berlusconi, con il generoso premio di maggioranza a suggellare il tutto.
Soglie d'accesso per i partiti coalizzati che tenessero fuori SEL (i partitini di destra, inventati per tentare una rimonta alle ultime elezioni, non sembrano più interessare a B.) o che, tra i non coalizzati, facessero il vuoto al centro chiudendo quella strada al NCD, toglierebbero al centro-sinistra ogni possibilità di coalizione (spingendo di nuovo Casini nel suo "alveo naturale" come è poi avvenuto.
Significa unificazione con SEL, o con SC? Prescindendo da ogni valutazione politica (e dagli umori emersi nel congresso SEL) sul piano elettorale una fusione a freddo sarebbe disastrosa. Un puro cartello elettorale? Farebbe saltare l'ipotesi di primarie libere nell'elettorato di sinistra per la scelta dei candidati imponendo “posti riservati”, che dalla quota SEL o SC si estenderebbero alle figure “di rilievo nazionale” prive di radicamento territoriale. Con tanti rischi anche per le alternanze di genere.
Le soglie così definite vanno dunque, con tutta evidenza, contro l'interesse del PD e della sinistra: sarebbero una sconfitta per le forze del cambiamento che chiedono una nuova legge elettorale per avvicinare la politica ai cittadini e scalfire l'eccesso di potere burocratico degli apparati di partito.
Quanto alla clausola per applicare il modello “Italicum”, in via transitoria, al Senato, semplicemente non esiste. Sia perché il vincolo costituzionale costringe a calcolare i resti del Senato su base regionale anziché nazionale, sia perché è diverso l'elettorato attivo. Dunque, nessuna garanzia di governabilità e anzi, alla luce del voto del 2013, forte probabilità di una nuova coabitazione forzata. Dunque, elezioni solo dopo il 2015. Un altro anno, per il PD, di sostegno a un governo destinato a non produrre nulla, per la distanza incolmabile dall'alleato di governo. Un governo il cui gradimento presso gli elettori è in crollo verticale: meno di un quarto lo approva. Film già visto verso la metà del 2012, quando il PD si è immolato per tenere in piedi il governo Monti.
Le contraddizioni dell'area post-comunista, il dover mantenere al centro, come prioritaria, l'intesa a destra con i soi-disant moderati, le impediscono di incalzare Renzi sui principali punti di debolezza dell'accordo. Ma nascondono, non cancellano, i limiti intrinseci del suo attivismo.
Veloci e risoluti per portare a casa il punto: questo l'imperativo per il funambolico neo-segretario. I “tre milioni di elettori” questo gli hanno chiesto: facci sognare, facci vincere dopo anni di frustrazione. Ma vincere cosa? L'attenzione dei media? La fine dei bizantinismi e della paralisi a cui si era condannato il PD? Obiettivi importanti, ma non in sé, non in quanto tali! Importanti se aprono la strada per affermare una nuova strategia, vincente rispetto ai grandi problemi di questo paese.

Cambiare si può. Se lo vuole il PD unito
Renzi ha ragione da vendere a voler stringere i tempi con un Parlamento di nominati recalcitranti per i quali la “sospensione della democrazia” ora in vigore non sembra rappresentare un problema. Ma proprio perché un suo insuccesso non sarebbe pagato da loro ma dal Paese occorre che stia bene attento a costruire una soluzione che sia praticabile e al tempo stesso faccia avanzare la democrazia.
A Renzi questa critica dà l'orticaria, ma perché è quella che più coglie nel segno. Non lo disturba l'opposizione del vecchio apparato, ancora attestato sulla linea dell'accordo al centro “perché la sinistra - nel credo dalemiano - non è maggioranza nel paese”. Ma c'è una sinistra che lo incalza, soprattutto da fuori ma con un punto di riferimento, sempre più solido, all'interno, nell'area di Civati. Una sinistra che pone domande e offre risposte alternative anche per l'immediato, ma solo in quanto proiettato in una visione del futuro.
Senza quella visione non si sovrasta la destra berlusconiana e non si risponde a chi chiede di cambiare verso, ma per davvero. Si spazzano via le obiezioni (ovvero, per riprendere la battuta fulminante di Altan, non ci si attarda a “pulire il water”). Prendere o lasciare, se si tocca crolla tutto.
Possibile? Da un leader capacissimo, un accordo così fragile?
Se fosse vero, nel linguaggio della sinistra di una volta sarebbe stato definito con un termine ormai desueto: avventurismo. Ma forse non è vero. Forse, invece, non si sa misurare il proprio potere contrattuale. Si sopravvaluta quello personale e si sottovaluta quello del collettivo: quanto conti il potere organizzato, quale forza di cambiamento provenga da un consenso informato, radicato, in grado di produrre una mobilitazione diffusa.