mercoledì 14 agosto 2013

La notte delle stelle cadenti (nuove considerazioni sulla Giunta Frattura)

Le nomine decise alle 24 del 12 scorso, nel mezzo della notte delle stelle cadenti, dal Consiglio Regionale del Molise impongono un aggiornamento delle considerazioni sulla Giunta Frattura del mio post precedente.
Non mi pronuncio sulle persone. Ne conosco solo alcune, non ho elementi per giudicarli. E' però sotto gli occhi di tutti come il metodo sia stato quello classico della spartizione, nella totale mancanza di trasparenza.
Nessuno vieta alle forze politiche di promuovere candidature. Non sarebbe una lottizzazione se si lasciasse spazio a autocandidature, se si rendessero pubblici i cv dei candidati, se si fissassero preventivamente i criteri e se le decisioni finali discendessero da questa procedura, che il programma di centro-sinistra aveva promesso di adottare.
Ma non è questa l'unica inadempienza rispetto a quel programma. I posti da ricoprire erano (e sono adesso, nella procedura affidata ad acta, a norma di Statuto, al Presidente Niro) tutti quelli dello status quo ante. Sarà cambiato quello stato, come da programma? Quando?

Ecco, ciò che più preoccupa, e sconcerta, e fa incazzare (per aggiungere anche un tocco di linguaggio specialistico) è che nessuno degli elettori ha una risposta a queste domande. Perché a nessuno è dato sapere quale sia il programma della Giunta Frattura. E il motivo sta nel modo in cui si è dato vita alla coalizione elettorale a seguito della trattativa condotta dal Presidente e dal Segretario del PD con le forze provenienti dalla coalizione di centro-destra. Per inciso: trattativa le cui conclusioni sono state accettate (con quale animo è del tutto irrilevante in sede politica) da tutti gli altri partiti di centro-sinistra.
Il programma, torno a dire, non è stato mai oggetto di trattativa. Erano dunque lecite entrambe le supposizioni: che la coalizione fosse un cartello di forze disomogenee, ciascuna con un suo programma, ovvero che l'ingresso delle formazioni provenienti dal centro-destra presupponesse tacitamente la loro adesione al programma elaborato dal centro-sinistra nel 2011 e aggiornato dal candidato Presidente prima dell'accordo.
Gli elettori hanno comunque premiato col voto la coalizione “facendosi una ragione” di questa ambiguità. Che, all'atto della formazione della Giunta, andava sciolta. O, quanto meno, all'atto delle dichiarazioni programmatiche di inizio consiliatura. O, se proprio si doveva andare per le lunghe, nell'arco dei primi cento giorni. Troppo poco tempo per l'adozione dei primi provvedimenti? Ma sarebbe bastato l'annuncio delle priorità, delle scadenze, delle emergenze: quel “progetto esecutivo” che avrebbe dovuto guidare la realizzazione del programma di massima.

Niente di tutto questo. Il fatto è che, come ho già avuto modo di affermare, gli avvenimenti nazionali hanno gettato una luce a ritroso su quelli molisani. Le “larghe intese preventive” raggiunte con singolare preveggenza in Molise erano parenti strette di quelle che nel Parlamento nazionale erano scaturite da un (asserito) stato di necessità. Da un fato, a cui aveva dato una mano “pesante” il sabotaggio dell'elezione di Prodi come Capo dello Stato, cui non era stato fatto mancare l'apporto del vertice del PD molisano. La Giunta Frattura si regge dunque, come il governo Letta, sul compromesso continuo (al di là di dichiarazioni verbali che, nella misura in cui “volant”, di programmatico non possono avere gran che), continuamente soggetto ai ricatti e ai condizionamenti delle forze con cui si è stabilita un'intesa.
Che in Molise sia stata stabilita preventivamente, in mancanza di un qualunque stato di necessità, non solo non è un'attenuante, per il vertice del PD che le ha volute e per il Presidente Frattura che ora le interpreta. E' anzi un'aggravante. Perché il Governo nazionale ha, almeno sulla carta, un termine definito, collegato a un compito di emergenza, mentre quello molisano dovrebbe, almeno in teoria, perpetuare questo stato di cose, che rappresenta una degenerazione della politica, bella e buona, per un intero mandato quinquennale.

E' questo che vuole la maggioranza di centro-sinistra, in tutte le sue espressioni? E' questo che vuole il Presidente Frattura? Personalmente sono curioso di saperlo, ma soprattutto credo sia giusto fare appello agli elettori perché facciano sapere in modo chiaro cosa ne pensano.

Intanto, c'è una parte consistente (checché se ne pensi) che è chiamata a pronunciarsi nell'imminente congresso del PD. Oltre ad essere numericamente consistente, ha un peso decisivo se si considera che il governo regionale del Molise è a (turbo-)trazione PD.

Ai militanti molisani del PD rimasti fedeli allo statuto e ai valori fondanti del PD e a quanti si sono riconosciuti nel progetto di Italia Bene Comune si offrono due alternative.
1) Vergognarsi e abbandonare il partito a chi lo sta guidando oggi.
2) Vergognarsi, incazzarsi e organizzarsi, pancia a terra, per un congresso che sostituisca il gruppo dirigente attuale con quadri nuovi che credano nel programma del PD, nel suo popolo e in se stessi e portino avanti il progetto di unità a sinistra che era alla base di Italia Bene Comune, praticandolo nei fatti anche nella campagna congressuale.

Capisco che la seconda alternativa è un po' troppo radicale e estremista rispetto alla prima, ma mi sento di caldeggiarla. Perché mai come in questo caso il moderatismo può uccidere la politica.

venerdì 9 agosto 2013

Considerazioni sulla Giunta Frattura. A 150 giorni dalle elezioni

A centocinquanta giorni dalle elezioni regionali in Molise sento di dover tornare ancora su un bilancio, aggiornandolo alla luce dei primi atti di Giunta, con qualche considerazione per il prosieguo. In politica c'è sempre un dopo.

Ho già avuto modo, su sollecitazione di amici molisani, di chiarire (su FB il 26/7) che non mi riconosco in molti degli atti salienti della Giunta Frattura. E che non per questo mi dichiaro pentito di aver dato un contributo (per quel che può aver pesato) alla sua elezione. Ma l'apparente contraddizione ha bisogno di una spiegazione politica. Che prende le mosse dall'elezione del 2011.

Non ripercorrerò ancora una volta gli antefatti, su cui ho espresso il mio giudizio in un post precedente. Se non per insistere sul fatto che la carica innovativa di Paolo Di Laura Frattura e l'entusiasmo di sostenitori attratti dall'idea di un cambiamento radicale aveva portato nel 2011 a una vittoria (al di là dei numeri ufficiali, poi riconosciuti privi di valore dal Consiglio di Stato) contro il “satrapo” Iorio. Il quale, fino all'ultimo momento, era stato dato per imbattibile non solo dai suoi sostenitori ma da tutto l'apparato del centro-sinistra (moderato o radicale che fosse). Apparato che si sarebbe comodamente accontentato di una sconfitta in cui avesse visto confermato uno scranno di opposizione.
La paura per la vittoria, pur negata in prima istanza e dunque solo sfiorata, è stata tale da paralizzare maggioranza e opposizione (di comodo), che hanno passato i dodici mesi tra il voto e il pronunciamento del Consiglio di Stato, anziché a governare e a fare opposizione (sia pure per finta), a studiare ogni genere di mosse tattiche e “larghe intese”, per lo più indicibili e spesso irrealizzabili, con il solo scopo di impedire che quella ventata di novità tornasse a imporsi, in via definitiva.

Aggiungo, se mai questo concetto si fosse un po' smarrito, che la crisi dello “iorismo” non era dovuta a motivi contingenti o esogeni: l'economia della regione arrancava e aveva perso contatto con l'andamento dell'area centrale del paese, a cui si era faticosamente avvicinata fino agli anni Novanta, ed era ripiombata nelle performance (negative) tipiche del Mezzogiorno. Tessuto industriale in crisi, brusco stop ai processi di ammodernamento del settore terziario, incapacità di investire localmente il risparmio. Occupazione in drastica caduta, mentre disagio sociale e povertà (anche assoluta) si diffondevano. Sprechi, corruzione e clientelismo dilaganti nella vita pubblica, in stretto connubio, anche affaristico, con una politica autoreferenziale. 
Ma proprio qui, come abbiamo visto, stava il punto. Non ci si poteva aspettare che dall'interno di questa politica autoreferenziale potesse venire una spinta sufficiente per imboccare la strada della svolta radicale. E i vertici del centro-sinistra, non solo del PD, che della stagione passata erano stati non tanto spettatori quanto attori diligenti, benché in un ruolo marginale, di quella svolta non sarebbero mai stati i protagonisti. Sarebbero stati semmai scavalcati e posti ai margini.

Ecco spiegate le ragioni di un fatto altrimenti incomprensibile. La trattativa con i pezzi in fuga dal centro-destra (in sé non solo lecita ma perfino augurabile) non ha mai, in nessun momento, neppure fugace, neanche in pubblico (per salvare la faccia), dico proprio mai toccato questioni di merito. E non ha mai, ripeto, mai preso in considerazione l'ipotesi che comportasse l'adesione al programma politico della coalizione di cui si entrava a far parte. Ad un programma che, tanto per ricordarlo, era stato elaborato in un percorso condiviso e presentato all'elettorato, appena un anno prima, come alternativo rispetto sia alla persona di Iorio che al suo modello di gestione politica.

Così nasce la Giunta di cui stiamo parlando.
E' per questo, a questo punto del discorso, che ho considerato necessario inquadrare queste vicende locali in quelle nazionali. Perché, insisterò fino alla noia su questa affermazione, la gestione del dopo-elezioni (nazionali) che ha portato al governo delle larghe intese, fino alla sua attuale, incombente, evoluzione tragica, trova nei fatti accaduti nella più piccola regione (ordinaria) d'Italia un prologo illuminante.
La politica senza qualità, gestione del potere a fini di arricchimento personale, è riuscita ad avere il sopravvento in Molise, nel momento in cui gli elettori stavano lanciando un segnale diverso e sembravano credere in un'alternativa possibile. Come è riuscita? Con il travisamento e con la sopraffazione, innanzi tutto. Ma anche grazie all'incapacità di quel fronte elettorale alternativo di darsi un'espressione politica compiuta, unita, organizzata, credibile.
Allo stesso modo, il travisamento e la sopraffazione hanno portato a bocciare la candidatura di Prodi al Quirinale, a impedire un governo alternativo capace di interpretare e dare risposte alla domanda di cambiamento che l'84,4% dell'elettorato aveva espresso. Espresso, ahimé, in forme disorganiche, disorganizzate, inconcludenti, nelle elezioni di febbraio. Senza che emergesse, mi ripeto, un'espressione politica alternativa compiuta, unita, organizzata, credibile.

Che cosa ha fatto in questo contesto il Presidente Frattura? Ben poco. Poteva e potrebbe fare di più? Direi proprio di sì e non c'è dubbio che abbia commesso errori, nemmeno secondari, anche agli occhi di chi gli era più vicino e lo sosteneva con più convinzione sulla strada del cambiamento. Ma si sa che il segreto non sta nel non commettere errori (a tutti, anzi, deve essere concesso di sbagliare) ma nel riflettere ed apprendere dagli errori commessi. Perché ciò avvenga però, oltre alle qualità personali, occorre un contesto favorevole all'apprendimento. In quale contesto si trova Frattura? Sfavorevole come non mai. Chi può fare qualcosa per cambiarlo e come?

E' questa la domanda su cui (continuare a) lavorare adesso. Personalmente mi auguro che Paolo Di Laura Frattura trovi il modo di fare la sua parte anche in questa direzione, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze che possono derivare dalla scelta di esporsi in una battaglia squisitamente politica. Ma nessuno pensi che la soluzione stia sulle spalle del classico “uomo solo/donna sola al comando”. Le due tornate elettorali regionali e il successivo turno amministrativo hanno fatto emergere un folto gruppo di persone che la strada dell'alternativa hanno mostrato di saperla percorrere e di voler andare avanti. Saranno abbastanza uniti, organizzati, credibili (scusate la ripetizione)? Non so dirlo, me lo auguro. Ma ho anche maturato la convinzione che la partita molisana difficilmente potrà risolversi nel solo spazio politico molisano e che è necessario che il cambiamento prevalga sul piano nazionale.
Il cuore del problema sta nel PD. Lo dice, a mio parere con grande chiarezza, Pippo Civati rivolgendosi a Rodotà, Zagrebelsky e Landini. Battersi nel Congresso del Pd è “l’unico modo per non consegnare alla destra (perché questo stiamo facendo) e all’indistinto, tutto il patrimonio di passioni, esperienze, anime (belle, anzi bellissime) che hanno formato una storia preziosa, da Dossetti a Berlinguer, da Pertini ai ventenni di oggi, che ci guardano con speranza e smarrimento, ma che sono giovani davvero”.

Raccolgo qui di nuovo, per comodità del lettore, i link che ho proposto:

Mie note su FB e post su questo blog:

sabato 3 agosto 2013

LA DITTATURA DEL 15,6% E PIPPO CIVATI

La nomenclatura PDL dopo la condanna di Berlusconi si sta agitando in modo scomposto. Provoca uno sconquasso istituzionale, ma i cittadini italiani non sembrano scuotersi più di tanto. Sfibrati e delusi, assistono all'ennesima rappresentazione della compagnia al seguito di Silvio.
Alcuni senza più sperare in un cambiamento radicale e in un nuovo inizio. Altri, senza più riuscire a credere a chi promette miracoli nuovi di zecca … purché si impedisca al nuovo di prevalere.

Per gli uni e per gli altri Berlusconi è il problema e non la soluzione. Ma per gli uni e per gli altri la soluzione non è in vista.
Gli uni e gli altri fanno, insieme, l'84,4% dell'elettorato attivo. 39,5 milioni di persone rispetto ai 7,5 che hanno votato Berlusconi nel mese di febbraio.
Le masse in trepida attesa a Palazzo Grazioli
Quando si dice che Berlusconi è stato sconfitto per via giudiziaria anziché politicamente si dice una mezza balla.
Il suo partito, il PDL, ha perso tra il 2008 e il 2013 quasi metà dei consensi, 6,3 milioni su 13,6. La sua coalizione ha perso più di 9 milioni di voti rispetto al 2006, quando aveva fatto il pieno raccogliendo il suo massimo storico (18,98 milioni di voti) nello scontro (perso) contro Prodi. E ne perde 7,15 rispetto al 2008 quando, pur calando, aveva distaccato di 3,4 milioni di voti la coalizione PD-IDV di Veltroni, che si era fermata a 5,3 milioni di elettori in meno rispetto a due anni prima.

Ma quando si dice che Berlusconi non è stato sconfitto politicamente nonostante i guai giudiziari si dice una mezza verità.
Come è possibile che una formazione che raccoglie consensi in meno di un sesto dell'elettorato (il 15,6%!!!) detti ancora legge? Che il suo leader, pregiudicato, con giudizi pendenti (e condanne) per ogni sorta di reati, ponga condizioni e minacci a destra e a manca tutti i poteri costituiti?
Come è possibile che la stragrande maggioranza del corpo elettorale non trovi una proposta politica convincente e soddisfacente per mettere finalmente fuori gioco questa forza eversiva, che ha portato il Paese ai margini del mondo civile dopo averlo lasciato andare alla deriva?

E' evidente che la responsabilità principale di questo stato di cose, di questa dittatura del 15,6% - una colpa imperdonabile -, ricade sulla formazione che ha la maggiore consistenza elettorale in quel vasto 84,4% di elettori. Sul PD.
E' evidente a tutti, ma non a chi ha guidato il PD in questa disfatta. Si può capire. Ma è chiaro che se nel PD non riuscirà a prevalere una diverso gruppo dirigente, espressione di una maggioranza alternativa, in grado di offrire una risposta politica all'elettorato che attende di uscire dall'incubo presente, il destino del PD è segnato.

Contro i riti bizantini, da Prima Repubblica, del dibattito nel PD, hanno affermato per primi questa verità, tradotta nella parola d'ordine provocatoria ma efficace della “rottamazione”, Matteo Renzi e Pippo Civati. Per dire, con questa espressione, che era il momento di cambiare il partito anziché cambiare partito, come faceva, nei riti dell'era passata, chi era in disaccordo.
Dopo la prima uscita pubblica, alla Leopolda, hanno preso strade diverse: Renzi ha occupato con grande efficacia la scena mediatica e si è esposto coraggiosamente nelle primarie contro Bersani, che pure aveva scommesso il suo futuro politico sul cambiamento, del partito e del Paese.
Civati ha dato credito a Bersani, fino al momento drammatico (la congiura dei 101) in cui il segretario che non aveva vinto le elezioni che non poteva perdere ha deposto le armi ai piedi dell'apparato che intendeva rinnovare. Civati ce l'ha messa tutta per impedire che il PD tenesse ancora in vita quella dittatura. Da allora sta combattendo tenacemente la sua battaglia, avendo per primo avanzato la sua candidatura a segretario del PD nel prossimo congresso.

La mia idea, per quel che può valere, è che meriti di essere appoggiato perché ha ... tre meriti che da soli basterebbero (e che non ritrovo in Renzi).
Non si limita a dire che si deve cambiare ma si sforza di entrare nel merito, ad ogni tornante della vita politica, del cosa del perché e del come. L'ultimo suo atto di accusa contro la gestione attuale del PD è di una chiarezza esemplare.
Non affronta i problemi e non cerca le soluzioni nel chiuso di una elaborazione “tecnica” riservata a chi possiede le competenze ma si sforza di seguire ogni volta un percorso condiviso, aperto, ritrovandosi così con l'intuizione della “mobilitazione cognitiva” di cui parlano Revelli e Barca.

Non si ingegna di trovare la migliore mossa tattica nel rapporto con l'apparato, scegliendo tra il conflitto e l'accordo in base alle convenienze, ma si sforza di far emergere attraverso il confronto a viso aperto i margini di convergenza, marcando con chiarezza i dissensi.
E' per questo che ha anticipato tutti, prima di qualsiasi mossa tattica di altri, candidandosi. Senza alcuno sponsor se non quel mondo di persone che ha deciso che valga la pena di provarci insieme a lui. Quorum et ego. Senza timori, senza illusioni, ma convinto.


Per liberarci dalla dittatura del 15,6%.