Agenda (plur.), dal latino: le cose da fare.
Che si devono fare (e non si sono fatte) o che si sono fatte male (e occorre correggere).L'agenda Monti è piena di cose che potevano e dovevano essere già fatte. Altre sono state fatte ma occorre correggerle. L'agenda Bersani promette di fare quelle non fatte (più qualcuna che Monti tralascia) e di correggere quelle sbagliate, partendo dal presupposto che sarà possibile solo con una diversa maggioranza politica: tema da cui Monti continua a sfuggire.
Poniamo a confronto le agende, partendo dalle cose da correggere.
Monti ha posto molta enfasi sulla sua agenda. Ma delle molte cose
che, anche secondo lui, erano da fare quando ha assunto l’incarico, poche sono
state fatte.
E tra quelle fatte, molto deve essere corretto.
La situazione di oggi è migliorata rispetto ad allora? Ritengo
di sì, ma il giudizio di assieme, basato soprattutto sul fatto che si è
allontanato il rischio di default, non significa che per numerosi aspetti e,
quel che più conta, per numerose fasce sociali, soprattutto le più deboli, non
sia peggiorata. E per chi si trova in quelle condizioni risulta più difficile
confrontare una difficoltà (pesante) attuale con un rischio eventuale. Dunque,
pur essendo convinto che quella deriva avrebbe comportato conseguenze da non sottovalutare
assolutamente - come invece molti si ostinano a fare - penso che fosse
necessario dare risposte, immediate, a chi vive quelle situazioni. Non è stato
fatto.
Inoltre, non è detto che il merito sia da ascrivere in toto
a quanto è stato fatto. Anche se l’argomento usato dal Cavaliere contro Monti
(tutto merito di Draghi) non ha riscontro nei dati di fatto, visto che è andata
meglio che per il resto dell’area Euro (lo spread altro non è che un
differenziale), ciò non toglie che un fattore come l’immissione di liquidità
nel circuito bancario ha contribuito non poco all’entità della riduzione.
In ogni caso, poiché l’attenzione degli elettori è
giustamente rivolta all’agenda proposta da Monti come suo marchio di fabbrica e
a quella del PD, per cogliere punti di contatto e differenze e per avere
strumenti di valutazione, è importante approfondire l’argomento, almeno per i
temi che hanno maggiore impatto sulle condizioni economiche e sociali.
Il confronto attorno alle cose non fatte richiederebbe
troppo spazio. L’elenco è molto lungo e dunque si devono prendere in esame
soprattutto le scelte di priorità. Bersani ne ha indicate due: lotta alla
corruzione e taglio dei costi della politica. Su quelle Monti non ha fatto
praticamente nulla nonostante le pressioni esercitate dal PD. Il tempo non è
mancato, le condizioni politiche tuttavia non l’hanno consentito. Il fatto è
che se non si analizzano con lucidità i motivi dell’insuccesso si è destinati a
ripeterlo. Per Bersani appare chiaro (serve una diversa maggioranza
parlamentare eletta dai cittadini con questo chiaro mandato), mentre il
ritornello di Monti sull’equidistanza (tinta di nuovo, si intende) non lascia
intendere alcuna consapevolezza della matrice politica delle resistenze.
Quanto alle cose fatte che vanno riprese e modificate, le
più importanti riguardano pensioni, mercato del lavoro e fisco. Sulle pensioni,
oggetto del primo intervento, immediato e drastico, è ancora necessario tornare
per fare chiarezza: argomento cruciale, spesso affrontato con poco rigore.
La questione chiave che si pone è quella dell’equilibrio dei
conti. Non tanto e non solo quello immediato, ma soprattutto nel lungo periodo:
a un giovane neo-assunto si deve garantire la sostenibilità. In altre parole, la
regola che gli viene applicata oggi dovrà reggere e mantenere la sua validità
per tutto il lasso di tempo che lo separa dall’uscita dalla vita lavorativa.
E’ un problema reale? Lo è, per di più in misura crescente
al crescere dell’aspettativa di vita. E’ attenuato da un aumento del tasso di
occupazione, ma solo in parte e solo nell’immediato perché quegli occupati in
più saranno, un domani, altrettanti pensionati in più.
Può essere giusto sanare lo squilibrio crescente con il
ricorso alle finanze pubbliche? Occorre sapere che comporta un aumento
dell’imposizione fiscale (in misura sempre maggiore al crescere
dell’aspettativa di vita) o una parallela riduzione di altre voci di spesa, in
modo stabile nel tempo. E dopo aver
tagliato sul superfluo “una tantum” (gli aerei militari, o altre voci che si
ritenga giusto eliminare) si arriva inevitabilmente a mettere mano al
contenitore in cui è compresa la spesa pensionistica, alla spesa sociale.
Il nostro paese, nell’affrontare questo problema a metà anni Novanta (Dini e
poi Prodi) ha deciso invece che la scelta dovesse essere un’altra e che si
dovesse garantire l’equilibrio e la sostenibilità nel tempo all’interno del rapporto tra contributi
versati (dalle imprese e in parte dai lavoratori) e prestazioni erogate. Non si è però fatto ricorso, come in altri
sistemi, alla capitalizzazione (dei contributi, così da erogare la pensione in
base a quanto ha fruttato il risparmio accumulato lungo la vita lavorativa),
sia pure garantita dallo stato. Si è invece adottata una soluzione originale tenendo
in piedi il sistema a ripartizione (pago le pensioni di oggi con i contributi
versati oggi da e per i lavoratori), calcolando però la pensione come se si mettesse a frutto quel
capitale nel tempo, in modo da evitare buchi di cassa in futuro (sostenibilità
intergenerazionale). Con la riforma si è inoltre aperto un secondo “pilastro”
complementare finanziato da ulteriori versamenti (volontari) garantiti dalla contrattazione
tra le parti sociali anziché attraverso il risparmio privato (che resta
comunque il terzo pilastro, per i più fortunati).
Probabilmente ho riassunto concetti largamente acquisiti.
Meno chiaro per l’opinione pubblica è però il meccanismo che doveva garantire
l’equilibrio nel tempo, al variare dell’aspettativa di vita. Si trattava di un
meccanismo flessibile, a scorrimento (soggetto a revisione periodica). La
flessibilità consisteva nell’individuazione di un’età di equilibrio (65 anni al
momento della riforma): l’entità della pensione sarebbe diminuita in caso di
pensionamento anticipato, ovvero aumentata nel caso inverso (supponendo che
continui la contribuzione). In base agli indicatori statistici demografici si sarebbe
poi rivista, a scadenze regolari, l’età di equilibrio.
Perfetto? Neanche per idea.
I punti deboli erano numerosi.
La gradualità nel passaggio al nuovo regime, che comporta
sempre, comunque la si realizzi, disparità di trattamento (nello specifico a
favore di quelli che avevano già superato il tornante di mezzo della loro vita
lavorativa, per i quali il cambiamento “in corsa” sarebbe stato più pesante).
Il mancato raccordo tra il sostegno al reddito attraverso la
pensione minima (da garantire a chiunque avesse versato contributi) e quella
sociale (da garantire a chi non aveva una posizione contributiva), a maggior
ragione in quanto la tendenza alla flessibilizzazione del mercato del lavoro
stava ampliando a dismisura la platea dei lavoratori discontinui destinati a
non raggiungere il minimo contributivo e dunque a godere della pensione minima.
Il guanto di velluto riservato ai più fortunati: le
posizioni pensionistiche “speciali”, che nel tempo si erano ritagliate spazi
“di maggior favore”, si dovevano armonizzare in tempi stretti con il nuovo sistema,
quelle di importo più elevato dovevano essere soggette a qualche forma di
solidarietà (attenuando i rendimenti, altrimenti lineari, oltre una certa
soglia). Niente di tutto ciò.
Da lì, diciassette anni fa, parte la storia. Che cosa è
successo da allora?
Non si sono fatti gli interventi correttivi necessari nel
senso dell’equità. Non si è dato seguito al meccanismo di flessibilità
rinviando a più riprese l’appuntamento con la revisione del punto di
equilibrio. Su queste lacune, per responsabilità, va detto, dei governi di
centrosinistra di allora e dei sindacati, è calato lo tsunami del
berlusconismo.
Dapprima bloccata l’attuazione della riforma, viene poi
introdotto uno “scalone” al posto della flessibilità mentre si accumulavano
squilibri (nelle proiezioni future) a causa del mancato adeguamento alle
migliorate aspettative di vita. Il successivo biennio di Prodi non ha posto
riparo in tempo prima del ritorno di Berlusconi e dunque la situazione a fine
2011 si presentava insostenibile, perfino nel breve-medio periodo.
Insomma, quella che l’Europa progressista (per fare un
esempio, la stessa Svezia) aveva salutato come una riforma esemplare, capace di
coniugare sostenibilità e equità, era stata lasciata fallire miseramente. Una
volta privata della necessaria manutenzione nel tempo, prevista in origine, si
stava trasformando in un sistema squilibrato e di nuovo iniquo (soprattutto
verso il lavoro precario destinato a pensioni di fame).
Che ha fatto Monti? Ha tagliato con l’accetta e ha
ripristinato una situazione di equilibrio, solo contabile, senza neppure la
dovuta flessibilità, quindi con un’overdose di rigidità. Ha fatto pagare a chi
sta andando in pensione in questi anni anche per l’equilibrio di chi andrà in
pensione tra venti anni, con un’aspettativa di vita presumibilmente più elevata.
Inoltre non ha previsto alcuna gradualità, senza tenere in nessun conto un dato
di fatto che aveva caratterizzato la nostra storia industriale nel dopoguerra
(ma i prof di economia talvolta preferiscono ignorare la storia). Le aziende
avevano sistematicamente fatto ricorso all’espulsione anticipata dei lavoratori
nell’idea che ciò si rendesse necessario per esigenze di competitività: un’idea
che il mondo sviluppato considera non solo incivile ma anche sbagliata nei
presupposti e che ha segnato pur tuttavia la storia industriale del nostro
paese.
In Italia è considerato praticamente un dogma di fede che
sia necessario mandare a casa prima possibile gli anziani per creare posti di
lavoro per i giovani (magari con il sistema feudale della trasmissione
ereditaria del posto). Le statistiche mostrano invece, quasi senza eccezioni,
come i paesi con il più basso tasso di occupazione giovanile sono regolarmente
quelli che hanno anche il più basso tasso di occupati con più di 55 anni. Per
chi volesse approfondire, si può consultare l’appendice statistica del rapporto
sull’Occupazione in Europa nel 2012, fresco di pubblicazione (http://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=738&langId=en&pubId=7315&furtherPubs=yes
: è quello di cui la stampa si è occupata per le critiche alle iniquità
contenute nell’IMU).
Contro questa piaga l’Europa (soprattutto negli anni in cui prevalevano governi di centrosinistra) ha previsto numerose azioni per promuovere l’”active aging” (“invecchiamento attivo) nei paesi come l’Italia (che occupa gli ultimissimi posti per entrambe le graduatorie, degli under 25 e degli over 54). Il prof. Monti, ex commissario UE, doveva dunque tenere nella giusta considerazione l’esigenza di far marciare in parallelo un’azione per l’innalzamento dell’età pensionabile con quelle per la promozione dell’invecchiamento attivo e per l’ingresso stabile dei giovani nel mercato del lavoro. Era questa l’esigenza primaria di flessiblità che, trascurata o addirittura negata, ha portato al clamoroso pasticcio sugli esodati.
Pasticcio. Perché se si dà via libera al pensionamento prima
del tempo, salta ogni adeguamento del sistema pensionistico alla più elevata
aspettativa di vita e insieme si sancisce una volta per tutte una massiccia
espulsione degli anziani dalla vita lavorativa. Viceversa, se si insiste nella
rigidità si creano situazioni assolutamente insostenibili per un numero molto
ampio di lavoratori esposti a restare senza reddito in un’età in cui
rappresentano un pilastro per l’economia familiare.
Con la gradualità si sarebbe impostata una strategia per agire
contemporaneamente sui diversi piani. Ora non sarà facile riportare il
dentifricio nel tubetto, ma i tecnici di Bersani stanno studiando da tempo una
soluzione praticabile e equa per rimettere in moto una strategia efficace. Alla
domanda “rimetterete mano alla riforma delle pensioni?” la risposta non potrà
che essere affermativa. Sarà fatto, nel solco degli indirizzi europei che la
riforma Monti ha, che piaccia o meno, disatteso.
Tornerò in seguito sugli altri temi, molto intrecciati con
questo primo, fondamentale perché posto all’incrocio tra la politica sociale e
quella per l’occupazione.