mercoledì 30 gennaio 2013

Dr. Ingroia e Mr. Patrimoniale


Alla presentazione del “Piano” per il lavoro della CGIL, presenti Bersani, Vendola e Barca, non è stato invitato il dr. Ingroia, che pure ha sposato appieno uno dei punti del piano,  l’idea di una patrimoniale ordinaria, denominata “Imposta strutturale sulle Grandi Ricchezze”.
Il magistrato, candidato presidente, ha reagito con una lettera agli iscritti CGIL in cui polemizza con il PD (“votò senza battere ciglio la riforma dell’art. 18”) ma individua “gli avversari da battere con il voto in Berlusconi (“destra caciarona e impresentabile”) e Monti. A quest’ultimo (“destra perbene“) riserva gli accenti più pesanti, chiaramente indicandolo come bersaglio principale.





Singolare corto circuito logico.
Se è (ancora) assai improbabile che Berlusconi possa vincere le elezioni alla Camera, resta in ogni caso l’unico contendente che può insidiare il primato della coalizione PD-SEL. Punta, più realisticamente, a un loro indebolimento per riuscire a esercitare ancora un potere di condizionamento in funzione dei suoi interessi privati. L’obiettivo è dunque lo stallo al Senato. Lo stesso che si propone Monti, l’esecrato premier uscente, nell’intento di imporre un accordo post-elettorale (su quali contenuti programmatici non è dato saperlo).
Eppure, la scelta di Ingroia, di candidarsi a rappresentare un settore della sinistra in concorrenza con la coalizione PD-SEL, avvantaggia proprio Berlusconi e, ancor più, Monti. Gli avversari da battere.
Se non è un oltraggio alla logica, deve evidentemente poggiare su radicali e non mediabili motivi di dissenso sui contenuti, tali da prevalere su qualunque valutazione tattica.

In effetti, annunciando la “rottura irreversibile” il dr. Ingroia aveva esattamente dichiarato che “c’è un’incolmabile distanza programmatica, che riguarda (questo è stato il passaggio centrale ripreso da tutti gli organi di informazione) il rifiuto opposto da Bersani e dal PD all’idea di introdurre una patrimoniale ordinaria. Quella proposta dalla CGIL.
E’ dunque questo non un punto programmatico tra gli altri, ma quello su cui si può giocare la rottura dell’elettorato di sinistra. Non si può sorvolare, è il caso di approfondire il tema.

Personalmente ho partecipato a varie occasioni di confronto (interno al PD ma reso pubblico senza alcun filtro di “centralismo democratico”) in tema di patrimoniale. Nessun esponente del PD ha mai opposto ragioni di principio, il dibattito è stato molto aperto, con il contributo di studiosi di grande levatura. Ha riguardato i pro e i contro di una patrimoniale ordinaria nell’ottica di un obiettivo, condiviso come centrale da tutto il partito e da tutta la coalizione, di un riequilibrio del carico fiscale nel senso dell’equità e della progressività, principi costituzionali oggi disattesi per effetto delle politiche del centro destra sulle orme di Reagan e della Thatcher.
Ho ascoltato molti argomenti convincenti a favore di una patrimoniale, ordinaria o straordinaria. Il dibattito è approdato però a una conclusione contraria (a maggioranza, come normalmente accade quando, anziché principi basilari, si confrontano diversi modi di applicare un principio da tutti condiviso): si deve compiere un passo preliminare rendendo visibili i patrimoni e tracciabili i processi che portano all’accumulazione di grandi ricchezze. Altrimenti il carico dell’imposta rischierebbe di cadere per l’ennesima volta su chi, già visibile e tracciato, paga le imposte per intero. Mentre i possessori di grandi ricchezze hanno gli strumenti per eludere il fisco facendola franca, o per evadere senza correre eccessivi rischi. Non per caso, l’unico patrimonio visibile e tracciato, la casa, è quello su cui si è operato il prelievo più pesante con l’IMU. Che è un’imposta ordinaria sul patrimonio. Che il programma di centrosinistra intende correggere per introdurre una progressività oggi praticamente assente (il mancato aggiornamento dei catasti urbani, alleggerendo il carico sugli edifici storici di pregio, ha un effetto perfino regressivo).

 

A questo dibattito ha guardato con interesse la CGIL, che ha scelto di invitare a collaborare alla stesura del suo programma chi aveva caldeggiato l’ipotesi di una patrimoniale ordinaria. Più che legittimo. Le obiezioni riguardanti i rischi di un ulteriore aggravio su lavoratori dipendenti e pensionati saranno certamente state considerate superabili o non convincenti.
Certo è che nel suo intervento al dibattito di presentazione del piano CGIL Bersani ha preferito sorvolare sul tema, fonte di diversità di vedute, per dare maggiore risalto agli ampi motivi di convergenza su parti fondamentali del piano stesso. E la CGIL non ha ritenuto di invitare chi di quel tema aveva fatto, appena qualche giorno prima, motivo non recuperabile e non mediabile di rottura con Bersani.

Il dr. Ingroia ha però imparato rapidamente l’arte di correggersi smentendo quanto appena detto. Ancora rimbalzavano tra tv e quotidiani le sue dichiarazioni sulla patrimoniale in occasione della “rottura irreversibile” che se ne sovrapponeva un’altra in cui spiegava che la distanza incolmabile riguarda la tattica, non i contenuti programmatici. Dr. Jeckill e Mr. Hide?
Un po’ di chiarezza non guasterebbe. Per dare agli elettori qualche motivo di valutazione in più sul senso, tattico e programmatico, della sua candidatura. Anche per rispondere alle critiche di chi, benché sensibile al richiamo, ha visto nella scelta dei candidati solo una sponda offerta a un ceto politico di lungo corso in pericolo di sopravvivenza.
Altrimenti, potrebbe perfino venire il dubbio che quel ceto politico, che avrà pure qualche errore e qualche sconfitta alle spalle, abbia commesso un errore ancora più grave dei precedenti affidandosi in mani sbagliate.

Quanto poi all’ultimo esempio di correzione in forma di smentita, senza voler infierire, è apparso davvero sgradevole. Aveva dichiarato (alle telecamere, che non possono essere smentite) “sono stato criticato per essermi impegnato in politica proprio come era successo a Falcone” (quando aveva accettato l’incarico al Ministero di Giustizia: incarico, peraltro, nient’affatto politico). Alla reazione veemente della Bocassini risponde smentendo di essersi mai paragonato a Falcone e aggiungendo “si informi prima di parlare”. Poi rincara la dose alludendo a giudizi di chi non può più parlare … Borsellino stesso.


Falcone non era sceso in politica, le critiche a Ingroia non riguardano l’impegno in politica ma l’essersi collocato in aspettativa, ma nonostante tutto potrebbe essere meglio sorvolare.
Senonché la storia ci dice quanto abbiano pesato, sulla scelta di Falcone di recarsi a Roma per collaborare con il Ministro Martelli, oltre alle scelte compiute allora dal CSM, la forte tensione tra magistrati nella procura di Palermo (la “stagione dei veleni”, il “corvo”) e quella con il sindaco di Palermo (di allora e di oggi) Leoluca Orlando, che ha sempre rivendicato le critiche a Falcone senza mai dichiararsene pentito ed oggi è a fianco di Ingroia. Le critiche che furono mosse a Falcone venivano da lì. Un quadro diverso, direi opposto rispetto a quello di cui è stato protagonista il dr. Ingroia. Potrò sbagliare ma credo che molti italiani si siano fatti l’impressione che sia stato non vittima ma protagonista, di primo piano, con grande cipiglio, di polemiche con altri magistrati, con altre procure, con altre istituzioni, non ultime quelle di garanzia, Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Per carità, non godono dell’intangibilità e possono essere e sono di fatto, rudemente e accanitamente criticate. Ma Falcone, suvvia, associarlo a queste iniziative è un insulto alla storia. Almeno fino alla prossima smentita.

sabato 19 gennaio 2013

L'uscita di ADC dal centrodestra e la stampa molisana


Uno spunto per ragionare di informazione.
Tre pezzi a confronto sul medesimo argomento (conferenza stampa di Pietracupa che lascia Iorio e fonda Rialzati Molise).

“Il centrosinistra si è trasformato in centrodestra” perché “ha acquistato Rialzati Molise”. La notizia è un’altra, ha lasciato il centro destra, i rapporti con il centrosinistra sono tutti da definire, ma questo fatto (non si sa neppure se i maggiori esponenti si candidano) viene appena accennato, relegato a manifestazione di “propositi confusionari” e “cialtroneria” perché Di Bello è sanguigno e battagliero e vuole che il lettore arrivi subito alle sue conclusioni (CSX trasformato in CDX). Accetta una critica, caro Pasquale: l’errore sta nell’impedire al lettore di farsi la sua opinione sulla base dei fatti. In più c’è un singolare peccato di omissione: manca un pensierino, anche solo un dubbio da insinuare nel lettore: non sarà che questo fatterello condanna Iorio alla sconfitta? Nossignore, la chiusa è questa: tra i fan di Frattura “il malumore e grande e da questo ribaltone quello che rischia di essere ribaltato è proprio lui” Ahi, ahi, Pasquale, perché trascurare Iorio e preoccuparsi solo per Frattura, c’è la par condicio …

L’omissione di Di Bello diventa invece il clou per Sorbo: “Iorio è rimasto solo, abbandonato praticamente da tutti.” Segue un lungo elenco di nomi: alcuni passati dalla regione a candidature nazionali, altri protagonisti di abbandoni: verso Romano e, da ultimo, Frattura (Udeur e, notizia fresca, ADC). Fatti, nomi e circostanze a corredo di un giudizio quasi epocale. Le ultime righe sono dedicate però al centrosinistra. Se non è par condicio, ci siamo vicini. Con una coda velenosa: “Il malcontento cresce di ora in ora e rischia di provocare nuovi addii. Massimo Romano sta alla finestra. Ora che il centrosinistra ha chiuso l'accordo con i patricielliani, le sue accuse di inciucio e trasversalismo lanciate in questi mesi alla coalizione di Frattura trovano una formidabile conferma. Ed ora proprio Romano rischia di capitalizzare il malcontento di buona parte dell'elettorato della sinistra.” Anche Sorbo ha una conclusione da riservare al lettore. Basata però su un fatto che resta nell’ombra. Un “accordo chiuso con i patricielliani”. Che genere di accordo? Se lo conosce, non ce lo racconta. Se non lo conosce … o se non è chiuso …
Antonio, Antonio, accetta una critica: i verbi, modi e tempi, sono importanti. Indicativo (passato prossimo)? Forse intendevi “quando avrà chiuso (un inciucio trasversale)”, a voler essere cattivo. O un congiuntivo (periodo ipotetico) “se mai chiudesse”, a voler essere prudente.” O addirittura “nella speranza (per Romano che sta alla finestra) che chiuda”, a voler alimentare polemiche (ma con rischio di querela)

Il contenuto dell’accordo sembra invece interessare Enzo Luongo, che intervista Pietracupa: “Ma su che basi si posa l'intesa tra i centristi e il centrosinistra? Il presidente del Consiglio regionale assicura che non ci sono accordi sulle poltrone: «Decideremo in un secondo momento se e come noi stessi saremo candidati, la politica si può fare anche da liberi cittadini. Non ci sono patti e da Frattura abbiamo avuto solo la disponibilità a parlare alla pari attorno ad un tavolo».  Frasi queste che contrastano con le voci insistenti che danno Pietracupa già piazzato sul listino maggioritario di Frattura. «Io non ho chiesto nulla - prova a smontare il diretto interessato - né per me, né per altri. Ogni decisione la prenderemo insieme».
Non mancano i toni epocali: “Un pezzo di storia di centrodestra si sgretola così”. Né si tace del centrosinistra e della “rivolta dei sostenitori di Frattura: da parte di tanti non si approva quest'alleanza”. In più si dà la parola a Iorio “Finalmente se ne sono andati … Sappiatelo tutti. Mi hanno impedito molte volte di realizzare i miei obiettivi … Il centrosinistra, comunque, appare più una lista di traditori che una lista politica. Buona fortuna”. Non sono frasi ricavate da un’intervista ma le virgolette sono appropriate. Le ha tratte dalla pagina Facebook del Governatore in uscita. Mi posso permettere una critica a Luongo? Ma dove crede di vivere, tra Times Square e la 8th Ave.? Non si monti la testa!

Bersani e Monti, agende a confronto (2)


Agenda (plur.), dal latino: le cose da fare, che non si sono fatte o si sono fatte male (e occorre correggere).
Andiamo avanti a esaminare, dopo il tema delle pensioni, le cose da correggere tra quelle fatte in base all’agenda Monti in materia di lavoro.

Su questo tema, di assoluto rilievo, è diffusa l’idea di dover rimettere mano alla riforma Fornero. So di dare una delusione a quanti vorrebbero riaprire il dossier articolo 18, ma ritengo che sarebbe un errore non molto diverso da quello compiuto da Monti.
Il parere su quella parte della riforma è negativo, si intende: ho avuto modo di esprimermi anche su questo blog. Ma il motivo principale di dissenso, che voglio qui ribadire, sta nell’aver attribuito a una modifica, in senso “deregolatorio”, del regime dei licenziamenti individuali un qualche effetto positivo sulla dinamica dell’occupazione.
Un falso, confutato da tutte le evidenze empiriche. Al contrario, se fosse stato indebolito il principio della nullità dei licenziamenti discriminatori l’effetto sarebbe stato di segno tutto negativo. E sarebbero state deleterie le conseguenze sul sistema dei diritti e delle libertà elementari dei cittadini.


Ora, è pur vero che quel principio è stato messo in discussione, con soave leggerezza professorale, all’inizio della vicenda. Ma la reazione decisa del PD ha impedito che si andasse avanti (neanche la voce dissonante di Ichino ha concesso spazi a Monti su questo punto). Le nuove procedure sono però pasticciate e arzigogolate e finiscono per andare in direzione contraria rispetto a quello che tutti unanimemente si aspettavano, sindacati e imprenditori, perché non risolvono il problema di una giustizia lenta e incerta ma ampliano il potere discrezionale dei magistrati.
Sarebbe dunque il caso di imboccare con decisione la strada opposta. Ma il problema è che di tutto abbiamo bisogno meno che di una nuova guerra atomica sull’articolo 18. Una manutenzione sarà necessaria, ma non è prioritaria. Altri sono i problemi più scottanti da affrontare per primi.

A differenza di quanto teorizzato da Monti nella sua agenda, si dovrà intervenire sulla gestione: attivare politiche efficaci. Si dovranno ripensare le sedi, i soggetti e le modalità di intervento, tornando a dare un ruolo protagonista alle parti sociali e restituendo loro piena autonomia.
Un tempo la legge interveniva per aiutare le parti a trovare intese più larghe e più rappresentative possibili (mettendoci anche, se necessario, risorse economiche oltre a quelle cosiddette politiche) e per suggellare infine gli accordi tra le parti con un riconoscimento giuridico che li rendeva efficaci verso tutti . Poi è arrivata la furia demolitrice della destra fanatica e ideologica, condizionata dall’egoismo miope delle componenti più retrive e meno competitive del sistema produttivo.
Non quelle proiettate sul mercato estero. Quelle sceglievano di delocalizzare in regioni più avanzate (la  Carinzia è il caso più eclatante, invasa dai piccoli del Nord-Est) dove norme e condizioni salariali erano anche più onerose (e più favorevoli per i lavoratori) ma in compenso burocrazia, fisco e servizi fornivano un contesto molto più propizio per l’impresa. Piuttosto, era preso a riferimento chi vagheggiava condizioni cinesi (perdendo così inesorabilmente terreno di fronte ai concorrenti, cinesi in primis).

 

Ritornare alla concertazione (o al dialogo sociale di tipo europeo, opposto esatto di quello praticato da Sacconi & co.) deve andare di pari passo con la riscoperta di una politica industriale, dopo lunghi anni in cui è stata totalmente assente. Ciò significa favorire la buona occupazione, quella basata sulla capacità di collocarsi all’avanguardia dei processi (con una grande attenzione alla sostenibilità) e sull’eccellenza dei prodotti. Quando queste condizioni si verificano può anche esserci flessibilità ma mai precarietà. Se di flessibilità ci sarà bisogno, sarà nella dose necessaria, compensata da contropartite economiche e normative. Perciò costerà più del lavoro stabile (e di intensità costante), come da tempo sostiene il PD.

 

Su queste basi si potrà allora costruire un sistema di servizi all’altezza delle esigenze. Il pubblico, a livello decentrato, sotto la responsabilità delle Regioni, dovrà garantire che siano aperti - e non ostruiti come oggi spesso accade - i canali di ingresso del lavoro (qualificato e specializzato in particolare) all’interno dei processi produttivi. E farà sì che le esigenze straordinarie di flessibilità, per riconvertire, per far fronte alle dinamiche dei mercati nel mondo o alle novità tecnologiche, siano rese compatibili con le esigenze di continuità di reddito dei lavoratori coinvolti. Potrà così garantire dal lato delle imprese la disponibilità delle competenze necessarie per l’implementazione delle novità, al presentarsi delle fasi alte del ciclo.

Siamo ancora molto lontani dall’obiettivo. Questo genere di interventi non ha alcuna guida a livello nazionale e le Regioni si arrangiano come possono. In qualche caso prendono a modello gli esempi migliori nel continente (e nel mondo), in altri danno perfino lezione, ma nella maggior parte dei casi restano  drammaticamente al di sotto delle esigenze. Chi avrà la responsabilità di amministrare questo sistema complesso sarà chiamato prima di tutto a promuovere un salto di qualità.
Dipende, dovrebbe essere chiaro, solo in minima parte dalle leggi che saranno varate. Conterà invece, soprattutto, la qualità dell’intervento sul campo, la capacità di aggiustare il tiro fino al particolare, di tarare ogni servizio e ogni singolo ufficio sulle esigenze specifiche, di far circolare le esperienze, di sanzionare le inadempienze, le inefficienze o, peggio, le illegalità.
Di questo immenso campo, il professor Monti e il suo ministro del Lavoro hanno dato l’impressione di non avere neppure colto l’esistenza. Di non averne avuto la percezione. Abbandonato, tanto quanto era stato trascurato (o per molti versi addirittura inquinato) dai suoi predecessori di destra.

Non è un programma minimale. E’ una vera rivoluzione copernicana, anche se non poggia su slogan ad effetto o su ricette miracolose. E’ un processo complesso, da governare.
I grandi principi? Non solo non vengono dimenticati o disattesi, ma sono la stella polare e ancora una volta misureranno, in tutta la sua importanza, la differenza tra destra e sinistra. Tra le agende.

Lottare contro la precarietà, restituire dignità al lavoro, assicurare stabilità di reddito e rafforzare la coesione sociale. Sono questi gli obiettivi di fondo concordemente proclamati a sinistra.
Ebbene, se si mettono in fila gli interventi che ho tratteggiato, sia pure sommariamente, in questi due post penso se ne possa ricavare un quadro d’assieme ispirato a questi obiettivi e alle scelte di principio che sottendono.
-         Politica industriale (investimenti orientati verso processi innovativi per prodotti di eccellenza), oltre che dei servizi e delle “piccole opere”, per rimettere in moto la domanda di lavoro
-         Politica di sostegno alla contrattazione (interconfederale, nazionale, decentrata, sia aziendale che territoriale) per un sistema di tutele del lavoro flessibile (arrivando anche ad un salario minimo interconfederale come misura di ultima istanza per il lavoro disperso), lasciando alla legge il compito di recepire e estendere a tutti (erga omnes) gli accordi raggiunti (con il vincolo di un percorso democratico)
-         Sistema di servizi che accompagnino efficacemente imprese e lavoratori nelle fasi di riconversione (aziendale o territoriale) con un sostegno al reddito strettamente connesso agli interventi di riqualificazione dei soggetti interessati
-         Tutele per il reddito, presente e futuro (attraverso un rafforzamento della contribuzione previdenziale figurativa per scongiurare pensioni indecenti a fine carriera), rivolte anche ai giovani in cerca di prima occupazione che siano impegnati in percorsi di inserimento (reddito minimo garantito su base lavoristica).

Non è tutto. Ma significherebbe un cambiamento di rotta tale da suscitare nuove speranze e nuove energie. Un’agenda di tutto rispetto.

lunedì 14 gennaio 2013

Bersani e Monti, agende a confronto (1)


Agenda (plur.), dal latino: le cose da fare.
Che si devono fare (e non si sono fatte) o che si sono fatte male (e occorre correggere).
L'agenda Monti è piena di cose che potevano e dovevano essere già fatte. Altre sono state fatte ma occorre correggerle. L'agenda Bersani promette di fare quelle non fatte (più qualcuna che Monti tralascia) e di correggere quelle sbagliate, partendo dal presupposto che sarà possibile solo con una diversa maggioranza politica: tema da cui Monti continua a sfuggire.
Poniamo a confronto le agende, partendo dalle cose da correggere.

Monti ha posto molta enfasi sulla sua agenda. Ma delle molte cose che, anche secondo lui, erano da fare quando ha assunto l’incarico, poche sono state fatte.
E tra quelle fatte, molto deve essere corretto.

La situazione di oggi è migliorata rispetto ad allora? Ritengo di sì, ma il giudizio di assieme, basato soprattutto sul fatto che si è allontanato il rischio di default, non significa che per numerosi aspetti e, quel che più conta, per numerose fasce sociali, soprattutto le più deboli, non sia peggiorata. E per chi si trova in quelle condizioni risulta più difficile confrontare una difficoltà (pesante) attuale con un rischio eventuale. Dunque, pur essendo convinto che quella deriva avrebbe comportato conseguenze da non sottovalutare assolutamente - come invece molti si ostinano a fare - penso che fosse necessario dare risposte, immediate, a chi vive quelle situazioni. Non è stato fatto.
Inoltre, non è detto che il merito sia da ascrivere in toto a quanto è stato fatto. Anche se l’argomento usato dal Cavaliere contro Monti (tutto merito di Draghi) non ha riscontro nei dati di fatto, visto che è andata meglio che per il resto dell’area Euro (lo spread altro non è che un differenziale), ciò non toglie che un fattore come l’immissione di liquidità nel circuito bancario ha contribuito non poco all’entità della riduzione.

In ogni caso, poiché l’attenzione degli elettori è giustamente rivolta all’agenda proposta da Monti come suo marchio di fabbrica e a quella del PD, per cogliere punti di contatto e differenze e per avere strumenti di valutazione, è importante approfondire l’argomento, almeno per i temi che hanno maggiore impatto sulle condizioni economiche e sociali.

Il confronto attorno alle cose non fatte richiederebbe troppo spazio. L’elenco è molto lungo e dunque si devono prendere in esame soprattutto le scelte di priorità. Bersani ne ha indicate due: lotta alla corruzione e taglio dei costi della politica. Su quelle Monti non ha fatto praticamente nulla nonostante le pressioni esercitate dal PD. Il tempo non è mancato, le condizioni politiche tuttavia non l’hanno consentito. Il fatto è che se non si analizzano con lucidità i motivi dell’insuccesso si è destinati a ripeterlo. Per Bersani appare chiaro (serve una diversa maggioranza parlamentare eletta dai cittadini con questo chiaro mandato), mentre il ritornello di Monti sull’equidistanza (tinta di nuovo, si intende) non lascia intendere alcuna consapevolezza della matrice politica delle resistenze.

Quanto alle cose fatte che vanno riprese e modificate, le più importanti riguardano pensioni, mercato del lavoro e fisco. Sulle pensioni, oggetto del primo intervento, immediato e drastico, è ancora necessario tornare per fare chiarezza: argomento cruciale, spesso affrontato con poco rigore.
La questione chiave che si pone è quella dell’equilibrio dei conti. Non tanto e non solo quello immediato, ma soprattutto nel lungo periodo: a un giovane neo-assunto si deve garantire la sostenibilità. In altre parole, la regola che gli viene applicata oggi dovrà reggere e mantenere la sua validità per tutto il lasso di tempo che lo separa dall’uscita dalla vita lavorativa.
E’ un problema reale? Lo è, per di più in misura crescente al crescere dell’aspettativa di vita. E’ attenuato da un aumento del tasso di occupazione, ma solo in parte e solo nell’immediato perché quegli occupati in più saranno, un domani, altrettanti pensionati in più.
Può essere giusto sanare lo squilibrio crescente con il ricorso alle finanze pubbliche? Occorre sapere che comporta un aumento dell’imposizione fiscale (in misura sempre maggiore al crescere dell’aspettativa di vita) o una parallela riduzione di altre voci di spesa, in modo stabile nel tempo. E dopo aver tagliato sul superfluo “una tantum” (gli aerei militari, o altre voci che si ritenga giusto eliminare) si arriva inevitabilmente a mettere mano al contenitore in cui è compresa la spesa pensionistica, alla spesa sociale.
Il nostro paese, nell’affrontare  questo problema a metà anni Novanta (Dini e poi Prodi) ha deciso invece che la scelta dovesse essere un’altra e che si dovesse garantire l’equilibrio e la sostenibilità nel tempo all’interno del rapporto tra contributi versati (dalle imprese e in parte dai lavoratori) e prestazioni erogate. Non si è però fatto ricorso, come in altri sistemi, alla capitalizzazione (dei contributi, così da erogare la pensione in base a quanto ha fruttato il risparmio accumulato lungo la vita lavorativa), sia pure garantita dallo stato. Si è invece adottata una soluzione originale tenendo in piedi il sistema a ripartizione (pago le pensioni di oggi con i contributi versati oggi da e per i lavoratori), calcolando però la pensione come se si mettesse a frutto quel capitale nel tempo, in modo da evitare buchi di cassa in futuro (sostenibilità intergenerazionale). Con la riforma si è inoltre aperto un secondo “pilastro” complementare finanziato da ulteriori versamenti (volontari) garantiti dalla contrattazione tra le parti sociali anziché attraverso il risparmio privato (che resta comunque il terzo pilastro, per i più fortunati).

Probabilmente ho riassunto concetti largamente acquisiti. Meno chiaro per l’opinione pubblica è però il meccanismo che doveva garantire l’equilibrio nel tempo, al variare dell’aspettativa di vita. Si trattava di un meccanismo flessibile, a scorrimento (soggetto a revisione periodica). La flessibilità consisteva nell’individuazione di un’età di equilibrio (65 anni al momento della riforma): l’entità della pensione sarebbe diminuita in caso di pensionamento anticipato, ovvero aumentata nel caso inverso (supponendo che continui la contribuzione). In base agli indicatori statistici demografici si sarebbe poi rivista, a scadenze regolari, l’età di equilibrio.

Perfetto? Neanche per idea.
I punti deboli erano numerosi.
La gradualità nel passaggio al nuovo regime, che comporta sempre, comunque la si realizzi, disparità di trattamento (nello specifico a favore di quelli che avevano già superato il tornante di mezzo della loro vita lavorativa, per i quali il cambiamento “in corsa” sarebbe stato più pesante).
Il mancato raccordo tra il sostegno al reddito attraverso la pensione minima (da garantire a chiunque avesse versato contributi) e quella sociale (da garantire a chi non aveva una posizione contributiva), a maggior ragione in quanto la tendenza alla flessibilizzazione del mercato del lavoro stava ampliando a dismisura la platea dei lavoratori discontinui destinati a non raggiungere il minimo contributivo e dunque a godere della pensione minima.
Il guanto di velluto riservato ai più fortunati: le posizioni pensionistiche “speciali”, che nel tempo si erano ritagliate spazi “di maggior favore”, si dovevano armonizzare in tempi stretti con il nuovo sistema, quelle di importo più elevato dovevano essere soggette a qualche forma di solidarietà (attenuando i rendimenti, altrimenti lineari, oltre una certa soglia). Niente di tutto ciò.

Da lì, diciassette anni fa, parte la storia. Che cosa è successo da allora?
Non si sono fatti gli interventi correttivi necessari nel senso dell’equità. Non si è dato seguito al meccanismo di flessibilità rinviando a più riprese l’appuntamento con la revisione del punto di equilibrio. Su queste lacune, per responsabilità, va detto, dei governi di centrosinistra di allora e dei sindacati, è calato lo tsunami del berlusconismo.
Dapprima bloccata l’attuazione della riforma, viene poi introdotto uno “scalone” al posto della flessibilità mentre si accumulavano squilibri (nelle proiezioni future) a causa del mancato adeguamento alle migliorate aspettative di vita. Il successivo biennio di Prodi non ha posto riparo in tempo prima del ritorno di Berlusconi e dunque la situazione a fine 2011 si presentava insostenibile, perfino nel breve-medio periodo.

Insomma, quella che l’Europa progressista (per fare un esempio, la stessa Svezia) aveva salutato come una riforma esemplare, capace di coniugare sostenibilità e equità, era stata lasciata fallire miseramente. Una volta privata della necessaria manutenzione nel tempo, prevista in origine, si stava trasformando in un sistema squilibrato e di nuovo iniquo (soprattutto verso il lavoro precario destinato a pensioni di fame).

Che ha fatto Monti? Ha tagliato con l’accetta e ha ripristinato una situazione di equilibrio, solo contabile, senza neppure la dovuta flessibilità, quindi con un’overdose di rigidità. Ha fatto pagare a chi sta andando in pensione in questi anni anche per l’equilibrio di chi andrà in pensione tra venti anni, con un’aspettativa di vita presumibilmente più elevata. Inoltre non ha previsto alcuna gradualità, senza tenere in nessun conto un dato di fatto che aveva caratterizzato la nostra storia industriale nel dopoguerra (ma i prof di economia talvolta preferiscono ignorare la storia). Le aziende avevano sistematicamente fatto ricorso all’espulsione anticipata dei lavoratori nell’idea che ciò si rendesse necessario per esigenze di competitività: un’idea che il mondo sviluppato considera non solo incivile ma anche sbagliata nei presupposti e che ha segnato pur tuttavia la storia industriale del nostro paese.

In Italia è considerato praticamente un dogma di fede che sia necessario mandare a casa prima possibile gli anziani per creare posti di lavoro per i giovani (magari con il sistema feudale della trasmissione ereditaria del posto). Le statistiche mostrano invece, quasi senza eccezioni, come i paesi con il più basso tasso di occupazione giovanile sono regolarmente quelli che hanno anche il più basso tasso di occupati con più di 55 anni. Per chi volesse approfondire, si può consultare l’appendice statistica del rapporto sull’Occupazione in Europa nel 2012, fresco di pubblicazione (http://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=738&langId=en&pubId=7315&furtherPubs=yes : è quello di cui la stampa si è occupata per le critiche alle iniquità contenute nell’IMU).


Contro questa piaga l’Europa (soprattutto negli anni in cui prevalevano governi di centrosinistra) ha previsto numerose azioni per promuovere l’”active aging” (“invecchiamento attivo) nei paesi come l’Italia (che occupa gli ultimissimi posti per entrambe le graduatorie, degli under 25 e degli over 54). Il prof. Monti, ex commissario UE, doveva dunque tenere nella giusta considerazione l’esigenza di far marciare in parallelo un’azione per l’innalzamento dell’età pensionabile con quelle per la promozione dell’invecchiamento attivo e per l’ingresso stabile dei giovani nel mercato del lavoro. Era questa l’esigenza primaria di flessiblità che, trascurata o addirittura negata, ha portato al clamoroso pasticcio sugli esodati.
Pasticcio. Perché se si dà via libera al pensionamento prima del tempo, salta ogni adeguamento del sistema pensionistico alla più elevata aspettativa di vita e insieme si sancisce una volta per tutte una massiccia espulsione degli anziani dalla vita lavorativa. Viceversa, se si insiste nella rigidità si creano situazioni assolutamente insostenibili per un numero molto ampio di lavoratori esposti a restare senza reddito in un’età in cui rappresentano un pilastro per l’economia familiare.
Con la gradualità si sarebbe impostata una strategia per agire contemporaneamente sui diversi piani. Ora non sarà facile riportare il dentifricio nel tubetto, ma i tecnici di Bersani stanno studiando da tempo una soluzione praticabile e equa per rimettere in moto una strategia efficace. Alla domanda “rimetterete mano alla riforma delle pensioni?” la risposta non potrà che essere affermativa. Sarà fatto, nel solco degli indirizzi europei che la riforma Monti ha, che piaccia o meno, disatteso.

Tornerò in seguito sugli altri temi, molto intrecciati con questo primo, fondamentale perché posto all’incrocio tra la politica sociale e quella per l’occupazione.

domenica 6 gennaio 2013

L'"IDEOLOGIA TEDESCA" DEL PROF E LA SINISTRA


Innumerevoli commentatori hanno inquadrato sotto vari profili l’ingresso in politica di Monti: dalla matrice ideale, autoritaria e anti-democratica, alle intrinseche contraddizioni nelle concrete scelte politiche. Nulla da aggiungere.

E pensare che dopo tutta la retorica contro l’anti-politica, l’ex premier ce ne dà un esempio tra i più chiari: da manuale, per un corso universitario di dottrina politica, si dovrebbe dire, inquadrabile nel quadrante ideologico della destra più reazionaria. Che cosa c'è di più anti-politico dell’idea di una politica ottimale, giusta in sé, rispetto alla quale sia da tacciare di eresia (o da “silenziare”) chiunque se ne discosti.?Per chi dissente, non resta che (cito uno dei concetti classici della politologia) l’”exit” (lasciare il campo, ovvero astenersi) o la “voice” (la protesta, sfogo sterile senza efficacia).
Sorprende, tuttavia, che molti sembrino colti di sorpresa: ma era questa la visione del mondo del prof? Era questa l’ideologia che si nascondeva sotto il loden, ben poco distante da quella di Berlusconi (che lo aveva nominato commissario europeo): è chiaro il nesso profondo tra populismo e autoritarismo! Tutto un inganno, il governo tecnico, Napolitano regista “super partes”, la strana maggioranza?
Eppure non si dovrebbe far finta di scoprire solo ora come stavano le cose.


La maggioranza era quella uscita dalle urne nel 2008: di centro-destra, selezionata accuratamente dall’apparato berlusconiano grazie al porcellum.
Il prof era una delle poche figure (forse perfino l’unica) che, gradita a Berlusconi e alla sua maggioranza, poteva assicurare una parvenza di serietà e autorevolezza alle cancellerie nel mondo, ma anche lealtà istituzionale alle forze fin lì all’opposizione. Per alleggerire la presa sempre più ferrea e minacciosa degli speculatori al ribasso sul default del nostro debito sovrano.
Dunque avrebbe dovuto garantire una tregua, una camera di decompressione: questo e nient’altro che questo. Non certo un indirizzo politico alternativo.
Qualcuno la vedeva diversamente? Qualcuno nutriva illusioni?

Agli attacchi contro Monti provenienti dal lato sinistro dello schieramento (per quelli leghisti e per i mal di pancia interni al pdl il discorso è tutto un altro) nessuno ha mai obiettato, dall’interno del pd, con una difesa della sua collocazione politica. C’è stato, sì, una sorta di eccesso di zelo nel lodarne la serietà, l’autorevolezza nelle relazioni internazionali, la competenza tecnica, quasi che questi aspetti personali o caratteriali delineassero anche un profilo politico diverso da quello, di destra conservatrice, che gli era proprio. Ma niente più di questo.





Ora però l’ingresso di Monti in politica ha riaperto, in modo acuto, il tema di fondo del dibattito a sinistra dal novembre 2011 in poi, il dilemma irrisolto: le tensioni interne al centro-destra, che avevano reso fragile la maggioranza parlamentare e aperto così la strada a una possibile crisi di governo, dovevano essere l’occasione per un immediato ricorso alle urne, che avrebbe visto vittoriosa la coalizione di centro sinistra, per arrivare in breve a un governo alternativo e stabile?
La risposta la darà la storia. A tempo debito, il 25 febbraio, con numeri inoppugnabili si saprà se il centrosinistra potrà governare con una maggioranza stabile, nei due rami del Parlamento. Pur con questo il verdetto sarà confutabile, ma in quel caso il PD, la sua dirigenza, Bersani, potranno almeno rivendicare che il tempo ha reso possibile o comunque non ha impedito una vittoria. Che quattordici mesi di governo Monti hanno comunque consentito di recuperare sei o sette punti per il pd (tornando pressappoco al risultato del 2008) mentre il pdl dimezzava i suoi consensi. Davvero in due – tre mesi di campagna elettorale si sarebbe potuto fare altrettanto (sia pure non perdendo per strada un partito come l’Idv)?
Insomma, se Bersani salirà a Palazzo Chigi con la maggioranza nei due rami, il prezzo pagato in questi mesi sarà valso la posta in gioco.
Altrimenti saranno dolori … e penitenza.
Poniamoci però la stessa domanda anche per l’opposizione di sinistra a Monti.
Il pd non ha mai nascosto, in tutto questo tempo, le difficoltà e la fatica, fisica, della mediazione. L’opposizione non ha mai mostrato invece la minima incrinatura nel condannare senza appello le posizioni del pd, nel distinguersi nel voto parlamentare, nel crocifiggere e perfino sbeffeggiare il ruolo di Napolitano. Ebbene, potrebbe affermare serenamente che un voto a febbraio marzo del 2012 le avrebbe di nuovo aperto le porte di Montecitorio, che dal 2008 erano rimaste sbarrate? Oggi la coalizione arancione dà a vedere di sentirsi sicura di un risultato a prova di quorum: se non sarà così, dolori e penitenza anche per loro (a maggior ragione…). Se invece avranno ragione, non sarà per caso che avranno lucrato una rendita netta, cioè non gravata dell’onere che ha pesato tutto sulle spalle del pd, di aver dovuto limitare i danni e fare da argine giorno per giorno?

Le risposte non tarderanno a venire, la ferita che si è aperta non si rimarginerà però né tanto presto né tanto facilmente. Nel frattempo il pd, per andare al governo, dovrà far capire con chiarezza agli elettori in che cosa la sua agenda si distingue da quella di Monti, tranquillizzando al tempo stesso gli investitori non solo a proposito della tenuta dei conti pubblici ma anche, se non soprattutto, sulla capacità di innestare una ripresa economica compatibile con i vincoli di bilancio.
Pensioni, ammortizzatori sociali, giustizia, costi della politica, efficienza dell’apparato pubblico: cosa andrà toccato e corretto? E che si farà, con quali priorità, tra le tante cose che Monti avrebbe dovuto (e forse anche potuto) fare e non ha fatto (riequilibrio del carico fiscale, lotta all’evasione, alla criminalità organizzata e all’evasione, alle pratiche economiche “unfair”, ecc. ecc.)?
Di questo non si parla abbastanza. Napolitano ha voluto dire la sua con il messaggio di fine anno, una sorta di endorsement per l’agenda Bersani che è servito anche per farla venire alla luce un po’ più di quanto sia avvenuto sino ad ora. Dicendo che la sua agenda sarà … quella Monti ma “a modo suo”, Bersani non ha soddisfatto granché il palato degli elettori. Due mesi per farsi ascoltare e per farsi capire non sono molti. Ma su questo sarà meglio tornare.