giovedì 29 marzo 2012

Articolo 18. Pifferi di montagna?


[24 marzo – 31 marzo]
Terza e (almeno per ora) ultima puntata sulla riforma del mercato del lavoro del governo Monti.
Tiriamo le somme. Ha avuto importanti conseguenze sul quadro politico.
Lo scenario appare improvvisamente mutato. Dobbiamo dunque chiederci: come andrà a finire? Quali previsioni si possono fare sui possibili sviluppi?
Torniamo così a ragionare, in conclusione, sul dopo Monti.
Si torna a parlare della data di scadenza. Ma la confezione è stata aperta ...

CONCLUSA LA TRATTATIVA, UN PRIMO BILANCIO:
IL PROFESSORE L'HA FATTA GROSSA
A conclusione della prima tappa della riforma del mercato del lavoro, la trattativa con le parti sociali e la presentazione della proposta del governo, sembra di poter dire che il Professore l'ha fatta grossa.
Doveva essere il suggello conclusivo, di peso marginale ma di rilevante impatto simbolico. Anziché suggellare ha invece messo in ombra tutto il resto, questione di bandiera su cui giocare la “partita della vita”. Sbagliando tutto.
Era davvero convinto (o qualcuno lo aveva convinto) di dover tenere il punto fino in fondo: che ne andasse del suo prestigio e della sua affidabilità internazionale (e, chissà, del suo futuro politico). Ma quale era il punto? Non solo permettere alle imprese di licenziare per motivi economici – principio già comunemente accettato – ma sancire il diritto dell'imprenditore a non subire interferenze nelle sue valutazioni economiche.
Può darsi che sia un dogma della “dottrina Bocconi” (in salsa Marchionne?): quando si tratta dell'azienda, dell'economia come la vede un capitano d'industria, la legge deve fare un passo indietro. Non si tratta però di una legge economica, è piuttosto una posizione politica. Che dentro le mura della fabbrica, così come su un transatlantico, il capitano non debba conoscere altra legge che il suo volere, è lecito teorizzarlo, in un trattato (di economia neo-liberista) o in un manifesto politico, ma lo decide una legge. Per l'esattezza, quella “fondamentale”, la Carta Costituzionale. Modello americano? Non posso spacciarmi per esperto di cose americane, ma a occhio e croce direi che in quel sistema giuridico un imprenditore ha forse più libertà di azione ma è certamente inserito in un sistema di contrappesi perfino più severo. Quel che conta è però che la “Carta fondamentale” a cui il Presidente del Consiglio ha giurato fedeltà è quella della Repubblica italiana.

UN'IPOTESI NORMATIVA CHE NON SUPEREREBBE IL PIU' ELEMENTARE DEGLI ESAMI DI COSTITUZIONALITA'”
Qui dunque il primo errore. Quell'idea, per dirla con le parole di un eminente costituzionalista (Gianluigi Pellegrino) che scrive su un quotidiano che è in prima fila tra i fan di Monti, configura una ipotesi normativa che per come progettata non supererebbe il più elementare degli esami di costituzionalità”.
Non male, come bocciatura, per un professore! Eppure la differenza tra Italia e USA non poteva sfuggire. Oltre tutto, lasciare al datore di lavoro la facoltà di “addurre” motivi economici, NON provati, per evitare, senza che il giudice possa entrare nel merito, ogni ipotesi di reintegro nel posto di lavoro, oltre a violare la Costituzione, contraddice il principio che tutti dicevano di voler salvaguardare: impedire i licenziamenti discriminatori “indipendentemente dalla motivazione addotta”, come recita la legge vigente (non il fatidico articolo 18, ma l'art. 3 della legge n. 108/1990).
                              

LA CGIL NON SI E' “AUTO-ESCLUSA” DALLA TRATTATIVA. UNA DELUSIONE PER QUALCUNO? E IL PD NON SI E' DIVISO
Un secondo errore è stato quello nei confronti della CGIL e del PD. Contrariamente a quanto Monti, con ogni probabilità, supponeva (ovvero, a quanto qualcuno gli aveva lasciato intendere) la CGIL è entrata nella trattativa. Non solo. Ha raggiunto un accordo con CISL e UIL e poi, dopo aver continuato caparbiamente a raccomandare di non anteporre l'articolo 18 a tutto il resto, si è attestata sulla posizione di accettare come percorribile un ammorbidimento delle sanzioni per i licenziamenti non discriminatori, lasciando un margine di discrezionalità tra reintegro e risarcimento (rimpinguato).
Non era un segreto di stato. Erano comparsi su tutti i quotidiani gli schemini riassuntivi delle posizioni dei sindacati e questa apertura, questa dichiarazione di disponibilità era messa in evidenza. Può darsi che non fosse gradita a chi si era messo in testa che la CGIL si sarebbe fatta fuori da sola e che il PD avrebbe pagato un prezzo altissimo in termini di divisioni profonde, se non di vero e proprio smembramento. Ma quella era la situazione reale che si era creata.
Invece il professore, che a quel punto alza la posta e impone quel “plus” all'americana, quando viene accusato di aver cercato deliberatamente la rottura con la CGIL risponde, in modo ben poco convincente, che “la CGIL è stata ambigua, non si capiva se l'apertura era effettiva o solo una finta, non lo ha mai detto con chiarezza”. Sorprendente vizio logico, quanto meno ... A maggior ragione, se fosse stato vero, quale migliore occasione per stanare finalmente la CGIL in tutta la sua doppiezza e costringere il PD a scegliere se stare con gli onesti o con i mestatori bugiardi?

SENZA UNA “EXIT STRATEGY” UNA TRATTATIVA E' DESTINATA IN PARTENZA A FALLIRE. “PRENDERE O LASCIARE” NON PAGA MAI
Terzo errore, quello di non ripiegare ma di insistere. I compromessi con tassisti, farmacisti, notai, banche, assicurazioni, petrolieri, benzinai hanno trovato molta comprensione da parte degli italiani che volevano far lavorare questo governo. Non si fa la rivoluzione in un giorno.
Perché allora, per una questione che è solo di bandiera, per un obiettivo che la Confindustria sceglie a maggioranza di considerare secondario, bocciando il candidato che quella bandiera aveva innalzato, per una norma che non passerebbe un elementare esame di costituzionalità, fare invece la voce grossa? Perché “si tratta su tutto ma non su quello”? Perché far uscire all'esterno, per la prima volta, una spaccatura verticale del Consiglio dei Ministri? I professori, si sa, si mettono facilmente d'accordo quando si tratta di dare lezione agli altri, ma non amano che qualcuno dia loro lezione, tanto più se hanno il sospetto che in realtà li si pigli per fessi.

GLI ITALIANI NON SONO PRONTI”.
Infine, quando appare evidente che questi errori non sono passati inosservati e che ne è derivato un calo di consenso per la bellezza di venti punti in una settimana, lascia un po' tutti di stucco scegliendo di rovesciare il tavolo: “Non avete il diritto di bocciarmi, sono io che boccio voi. Non siete pronti, ripassate a ottobre o vado a insegnare da un'altra parte. Non mi meritate.”
Che cosa ha portato un distinto professore molto padrone di sé e abbastanza competente (gli manca un po' di diritto del lavoro e molto diritto costituzionale, in economia è rimasto a testi un po' superati, ma insomma …) a commettere una sequela di errori così grossolani?

CHI GLIELO HA FATTO FARE?
I MERCATI?
POCHI SONO DISPOSTI A CREDERLO
Chi glielo ha fatto fare? Questa la domanda. La risposta, a mio modesto avviso, è di una qualche importanza.
I mercati? Entità impersonale. Fatta di investitori che non pensano in modo uniforme. Valutano il “rischio paese”, le prospettive di crescita di un'economia, per scommettere sul lungo periodo. Un paese instabile, confuso, guidato da una politica inefficace, predatoria, che alimenta l'illegalità, insomma, l'Italia di Berlusconi, attirava scommesse “a perdere”. Una guida più sobria, attenta al bene comune anziché all'interesse privato, appare meno a rischio (lo spread risale). Ma se commette errori e perde consenso, si ha un bel dire che “il Paese non mi merita”, è quello il Paese che sei chiamato a guidare verso la rinascita.
Che cosa dunque può contare di più per un investitore che scommette su un rischio paese: un premier che dà garanzie di stare dalla parte della finanza mondiale anche se perde consenso e scatena il caos? Ho i miei dubbi.
Si pensi al Brasile: la dottrina economica a cui si ispirano Lula e la Rousseff sono agli antipodi rispetto a quella che si insegna alla Bocconi. Ma il Brasile sta crescendo a una velocità impensabile per il nostro paese. Quale finanziere scommetterebbe mai contro il Brasile solo perché i Presidenti non sono “dei nostri”?
                          
Domanderei anche: come mai la “cura Marchionne” tanto decantata, ha un grande successo nell'America di Obama (nella Chrysler, dove i sindacati non solo dettano legge nelle trattative ma decidono nel Consiglio di Amministrazione) mentre appare un fiasco colossale (quote di mercato in picchiata) nell'Italia di Berlusconi e Monti dove i sindacati si vogliono fuori dalla fabbrica e “a tappetino” (nella Fiat, che l'unico nuovo modello in programma sceglie di produrlo nella Serbia appena uscita dalla guerra civile, in attesa di stabilire un sistema politico accettabile per l'ammissione nella Unione Europea)?

CHI GLIELO HA FATTO FARE?
L'EUROPA? PER IL MODELLO USA, CONTRO QUELLO TEDESCO?
Non i mercati, dunque. Lo spread risale per la caduta di consenso di Monti. Perché dunque ha imboccato una strada che lo porta a perdere consenso?
L'Europa? I documenti europei, basta leggerli, non solo non impongono ma neppure ipotizzano una libertà di licenziamento come quella disegnata dalla riforma. In più, se è vero che oggi l'Europa è a trazione tedesca e se il modello che Monti non ha voluto applicare è proprio quello tedesco, preferendo “fare l'americano”, è evidente che non ci si può appellare all'Europa.

CHI GLIELO HA FATTO FARE?
ATTENZIONE ALLA RISPOSTA!
E' troppo affezionato alle sue idee? Può essere una risposta, ma sarebbe un guaio se il Paese si fosse affidato a qualcuno con questo non trascurabile difetto!
O forse glielo hanno fatto fare? Il sospetto, lo confesso, mi sembra legittimo. Ha fatto una certa impressione scoprire che il Professore non era presente a raccogliere una citazione (presunta) di Obama a Seul perché non poteva esimersi dal prendere una telefonata di un certo Cicchitto che voleva essere rassicurato sulla riforma della giustizia e, più in particolare, circa la possibilità di abrogare la concussione (il reato per cui è sotto processo Berlusconi nella vicenda Ruby). E certamente non porta bene a un capo del Governo godere dell'appoggio incondizionato di un campione di fanatismo come Giuliano Ferrara, come abbiamo scoperto in questi giorni. Quanto alla sintonia con Marchionne, ne ho già accennato. Qualcuno vorrebbe mettere in fila anche l'intervista patinata alla first lady su “Chi”, organo ufficiale del berlusconismo d'assalto.

COME ANDRA' A FINIRE?
Come andrà a finire è difficile a dirsi. Può spuntare la exit strategy e la onorevole ritirata che fin qui sembrava esclusa. Cambiano le norme, si torna nell'alveo della Costituzione. Oppure, non mi sento di escluderlo, finisce tutto addirittura nel dimenticatoio dopo le amministrative. Tirare a campare torna ad essere una scelta nobile e dignitosa, nelle lungaggini del dibattito parlamentare si rinvia tutto a dopo le elezioni. Comunque sia, il danno di immagine e il cambiamento di scenario politico è irreversibile.
Può andare fino in fondo e la “catastrofe” (nel senso chimico-fisico, la rottura di continuità) si accelera. Non mangiano il Panettone a Palazzo Chigi.
Ognuna di queste ipotesi rappresenta un cambiamento netto di scenario. Vediamo.

COME CAMBIA IL QUADRO POLITICO. GLI SCENAFRI DEL DOPO MONTI SEMBRANO SEMPLIFICARSI ...
Proviamo a metterla su un piano squisitamente politico, riprendendo un'analisi di scenario su cui mi sono esercitato su questo stesso blog. Proviamo a immaginare che la destra berlusconiana, non avendo più i numeri per governare il paese e soffrendo non poco di astinenza da comando (e da affari), abbia bisogno di tornare a sottomettere la destra pulita, liberale e presentabile. Che Alfano da solo, passando esclusivamente per i canali diplomatici verso Fini e Casini, dimostri di non potercela fare. Quale strada migliore, così stando le cose, di quella che passa direttamente per Monti, forte dei sondaggi e dell'apprezzamento internazionale?
Purché Monti accetti di creare un varco tra centristi e PD e di inserirsi in quel varco per fare da leva.
Non dico che il Professore abbia accettato di prestarsi a questo gioco e abbia compiuto una scelta di campo. Ma qualche lusinga potrebbe aver fatto breccia e la tentazione potrebbe aver fatto capolino.
Il fatto è che a questo punto, una volta che si sia sbagliata la mossa e ci si sia fatti cogliere in flagrante abbraccio con la destra “impresentabile”, si può verificare come conseguenza quella di togliere di mezzo dal novero delle alternative in campo quella della “Grosse Koalition” (che nel precedente post consideravo poco realistica ma comunque coltivata da più di un soggetto politico).
E questa mi sembra, allo stato dei fatti, la prima vera vittima del “pasticcio-dito nell'occhio” sull'articolo 18. Monti dopo Monti, ABC dopo ABC, mi sembra un'ipotesi consegnata alla storia delle pie illusioni che costellano immancabilmente l'evolversi del dibattito politico.
Non solo. Dal 24 marzo la data di scadenza del governo torna ad essere incerta.
Sulla confezione c'era indicata, sì, la primavera 2013. Ma, come accade per le confezioni, una volta aperte vanno tenute in frigorifero. E si consiglia di consumarle appena possibile. 
                                      

mercoledì 21 marzo 2012

Articolo 18. Dito nell'occhio + pasticcio. Inaccettabile


[16 marzo – 23 marzo]
Devo procedere a un aggiornamento, quasi in tempo reale, al mio post di questa settimana sulla trattativa per la riforma del mercato del lavoro. Alla luce di quanto è emerso dalla riunione di ieri sera (20 marzo) la domanda che mi ponevo trova la seguente risposta: si profila UN DITO NELL'OCCHIO PIÙ UN PASTICCIO. O, meglio, pur di mettere un dito nell'occhio a una parte del sindacato (e al PD) si confeziona una soluzione per l'articolo 18 che non è solo una barbarie sociale ma anche un mostro giuridico. Che contrasta con convenzioni internazionali e direttive europee, viola la Costituzione italiana e aprirà un contenzioso infinito, altre a uno scontro sociale senza confini. A chi serve? Altro che passo avanti! E' certamente un passo indietro PER ENTRAMBE LE PARTI.
La scelta più difficile grava sul PD. La mia opinione è che debba fare la sua parte esprimendo in modo netto il suo dissenso e le sue proposte di modifica radicale, sostanziale, sui punti che ledono diritti fondamentali. Se questo governo deve durare, per portare l'Italia fuori dalla emergenza, questo è il solo modo per aiutarlo.

ALLE BATTUTE FINALI DELLA TRATTATIVA SULLA RIFORMA PRENDE CORPO, IN MODO PIU' CHIARO, L'IPOTESI DI ACCORDO.
Sono obbligato ad aggiornare, quasi in tempo reale, il commento sulla trattativa in corso per la “Grande riforma” del mercato del lavoro. Ieri sera (20 marzo) ha preso corpo l'ipotesi di accordo in particolare sull'articolo 18, mentre scrivo queste righe. Faccio dunque di nuovo il punto su questo argomento.
                       
Molte delle anticipazioni troverebbero conferma. Si materializzano però anche alcuni dei peggiori timori. Il puro azzardo, politico e giuridico, tale da provocare guai seri, a cui mi riferivo nel post precedente sembra venga perseguito con poca o nulla attenzione perfino alle conseguenze che ne possono derivare per il sistema di relazioni industriali. Il prezzo, quando viene meno la certezza del diritto, lo pagano tutti, da una parte e dall'altra. Si rischia di entrare in una fase di indeterminatezza e di contenzioso molto peggiore di quella a cui gli imprenditori dicono di voler sfuggire.

RESTA IL NO AI LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI. OK. MA E' PROPRIO VERO?
Torniamo al merito delle anticipazioni. Si confermano i tre punti su cui mi sono soffermato, a partire dal primo: resterà in piedi l'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori.
Bene. Partiamo da qui. Se è vero, significa che resta in piedi (sopra e sotto la soglia dei 15 addetti) la norma secondo cui il licenziamento per motivi discriminatori è nullo (all'art. 3, legge n. 108 del 1990) " indipendentemente dalla motivazione addotta”.

UNA MODIFICA AL CODICE DISCIPLINARE: PREVEDERE ANCHE LA SANZIONE DEL LICENZIAMENTO CON RISARCIMENTO. SI PUO' FARE. MA E' DI QUESTO CHE SI TRATTA?
Vediamo allora che cosa cambierebbe per i licenziamenti disciplinari. A questo proposito sembra si vada chiarendo il fatto che affidare al giudice la decisione tra reintegro e risarcimento significa che tra le sanzioni che possono essere comminate al lavoratore in caso di violazioni disciplinari da qui in avanti potrà essere contemplato anche il licenziamento CON RISARCIMENTO. Non sono però tollerabili, su una questione di questo peso, ambiguità o confusioni. Non si possono ripetere le tragiche esperienze dei “lodi interpretativi”. Se significa che il licenziamento deve comunque apparire motivato e che cambia la graduazione delle sanzioni, lo si deve scrivere con la massima chiarezza. E, per dire, si deve richiamare esplicitamente la responsabilità delle parti sociali nel momento della contrattazione per la definizione del codice disciplinare che dovrà contenere questa nuova sanzione.
 
Si immagina di dare risposta in questi termini al problema, di cui mi sono occupato ampiamente in precedenza, dello “scarso rendimento” e del confine tra una condotta volutamente inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali ed una che, pur oggettivamente non soddisfacente, derivi da condizioni che comunque non discendono dalla volontà del lavoratore? Se così fosse non troverei questa risposta scandalosa, né lesiva di principi generali, pur ritenendo, in una valutazione serena, che possa prestarsi ad obiezioni. Così chiarita, non rappresenterebbe, a mio avviso, un motivo di rottura e non pare lo rappresenti neppure per la CGIL.

IL “VULNUS” INSANABILE, IL DITO NELL'OCCHIO: SI PUO' LICENZIARE PER MOTIVI ECONOMICI, ANCHE SOLO “ADDOTTI”. CHE SENSO HA? BARBARIE SOCIALE, MOSTRO GIURIDICO
Il pasticcio, e il vulnus non sanabile, si sta invece profilando per i licenziamenti per motivi economici, per i quali la formula adottata sarebbe proprio quella, che definivo abusata oltre che vaga, dei “motivi tecnici e organizzativi”. Per questi, sembra che al giudice NON SAREBBE LASCIATA FACOLTA' DI DECIDERE PER UN EVENTUALE OBBLIGO DI REINTEGRO. Ovvero, si deve dedurre, non potrebbe dichiararlo nullo neanche se si trattasse di un LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO MASCHERATO e dovrebbe limitarsi a stabilire un risarcimento (in misura più cospicua, pari al doppio secondo le anticipazioni, rispetto a quella oggi vigente).
Un vulnus – e un pasticcio – che sarebbe motivato solo dall'intento di colpire la CGIL dopo aver ricattato CISL e UIL con la speranza di spaccare finalmente il PD. Di nuovo la guerra come continuazione della politica (di Sacconi e Berlusconi) sulla punta delle armi. Lo chiedono i mercati? Ridicolo e offensivo!
Vediamo la questione più da vicino. In primo luogo non è neppure pensabile (solo Sacconi ha provato a farlo) che la legge possa impedire al giudice di sindacare alcunché. Immaginiamo anche l'inimmaginabile: che si cancelli la seconda parte dell'articolo sui licenziamenti discriminatori, quell'”indipendentemente dal motivo addotto” che obbliga il giudice, senza eccezione possibile, a entrare nel merito. Occhio al verbo, “addurre”, che è molto lontano dal significato del verbo “provare”. Un motivo addotto ma non comprovato non può ovviamente bastare al giudice per avallare un atto discriminatorio. Questa affermazione, che uno studente del primo anno di giurisprudenza definirebbe un “brocardo”, non può essere cancellata. Ovvero, se anche si abrogasse il passaggio nel testo, manterrebbe tutto il suo valore.
                                       
E se si inventasse una formula aggiuntiva del tipo “a meno che il motivo addotto non sia di carattere economico” da un lato si farebbero ridere i polli (se lo ipotizzasse quello stesso studente del primo anno si giocherebbe il fatidico diciotto) e si cadrebbe sotto la scure della Corte Suprema (ma, a mio parere, anche di un qualunque giudice del lavoro che, forte delle sue prerogative, se ne infischierebbe altamente). Dall'altro però sarebbe la prova provata – quasi da “reo confesso” - dell'intento politico sottostante.
Mettiamola così: una norma sui licenziamenti dettata da intento discriminatorio (verso la CGIL, ad es.) sarebbe nulla – o comunque insostenibile e non condivisibile - “indipendentemente dal motivo addotto”. Mercati o non mercati, spread o non spread, checché ne dicano Alfano e Sacconi.
Su questo il PD non può cedere neppure di un millimetro. L'emendamento è semplice. O, meglio, se ne possono immaginare due alternativi. In un primo caso si può fare ricorso alla 223 (ipotesi iniziale della CISL), quindi inquadrare il licenziamento economico nelle procedure (che passano per accordi sindacali) previste per i licenziamenti economici collettivi. Ho espresso le mie riserve al riguardo (rischio di “messa al bando concordata”) ma in ogni caso sarebbero riserve relative e non un'opposizione assoluta in quanto resterebbe a disposizione del lavoratore il passaggio attraverso la sede giurisdizionale, in cui il giudice può sempre sindacare, come si è detto, la sussistenza del motivo addotto, anche quando vi sia un accordo all'origine.
Se poi le parti in sede negoziale mettessero a punto una procedura “garantista”, che oltre a valere per questi casi potrebbe migliorare anche la procedura oggi vigente per i licenziamenti collettivi, si potrebbe davvero fare un passo avanti.

LE ALTERNATIVE: STESSA PROCEDURA DEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI O INTERVENTO DEL GIUDICE. NON SONO CONVINCENTI MA NON LEDONO I PRINCIPI FONDAMENTALI
L'alternativa è quella di mettere i licenziamenti economici direttamente nelle mani del giudice. L'obiezione in questo caso riguarda il carico processuale dei magistrati del lavoro: ci si lamenta della lentezza della giustizia, sarebbe quindi da evitare ogni ulteriore aggravio. In ogni caso non si tratta di un'obiezione di principio, anche qui, né pertanto di un possibile motivo di rottura. Con un corollario, tuttavia. Che, come avviene nel tanto declamato modello tedesco, il giudice dovrebbe avere il diritto di sindacare le ragioni economiche ANCHE IN UN TEMPO SUCCESSIVO, riservandosi dunque la facoltà (oltre che di annullare ovvero avallare) anche di IMPORRE LA RIASSUNZIONE IN UN SECONDO MOMENTO. Ipotesi diversa dal reintegro, e tuttavia da non escludere a priori.

MA NEL NUOVO QUADRO, SE EMENDATO, NON SI GIUSTIFICA LA SOGLIA DEI 15 ADDETTI. VALE PER TUTTI?
Infine, un'ultima considerazione da fare è la seguente. Se si andasse verso una soluzione emendata, del genere che qui ho provato a delineare (e su cui credo potrebbe lavorare proficuamente il PD prima di decidere di staccare la spina a questo governo) la situazione che si configurerebbe NON GIUSTIFICHEREBBE PIU' DA NESSUN PUNTO DI VISTA UNA DISTINZIONE TRA IMPRESE GRANDI E PICCOLE. Con le modifiche al codice disciplinare e quelle ai limiti dimensionali dei licenziamenti per motivi economici (comprovati) il quadro normativo sarebbe totalmente applicabile alle imprese al di sotto dei 15 addetti. Si vuole lasciare un margine minimo, alla tedesca (5 addetti)? Non avrebbe grandi ragioni oggettive ma se dovesse essere il prezzo finale da pagare per un compromesso, per quello che può valere il mio parere, non mi scandalizzerei.

lunedì 19 marzo 2012

Ancora sulla riforma del lavoro. Un pasticcio? O un dito nell'occhio?


[16 marzo – 23 marzo]
Torniamo sulla trattativa attorno alla riforma del mercato del lavoro. Si avvicina la conclusione. Restava da esaminare, dal post precedente, il capitolo degli ammortizzatori sociali. Ma sembra profilarsi un accordo sull'articolo 18. Ripartiamo dunque da questo argomento.
La sostanza della questione è ancora nascosta nella nebbia. Si sente ripetere che nulla cambia per i licenziamenti discriminatori. Sarà vero? Il fatto è che i licenziamenti SENZA giusta causa (cioè non riconducibili a violazioni disciplinari) configurano sempre un comportamento discriminatorio. Lo dice la legge italiana e la direttiva europea sulle discriminazioni. Si può uscire da questa contraddizione affidando la valutazione al giudice?
Questa sembra essere la soluzione proposta dal Governo. Regge? Il giudice non è tenuto a rispettare il principio? E se lo è, non si sta profilando una procedura più complicata, dai tempi più lunghi, con maggiori margini di discrezionalità e meno certezze? E' davvero un passo avanti o non è piuttosto un passo indietro per entrambe le parti?
Infine gli ammortizzatori. Il piatto piange ma si può fare qualche passo nella giusta direzione. Purché non si faccia solo finta.

LA RIFORMA SEMBRA ARRIVATA ALLE BATTUTE FINALI. ACCORDO IN VISTA?
Torniamo sulla trattativa in corso per la “Grande riforma” del mercato del lavoro a pochi giorni dalla scadenza di fine marzo. Rispetto alla settimana scorsa, le scintille e le tensioni tra le parti sembravano aver ceduto il posto a più frequenti momenti di (cauto) ottimismo. Un accordo tuttavia non sembra ancora profilarsi sull'articolo 18, mentre scrivo queste righe. Facciamo dunque di nuovo il punto su questo argomento prima di riprendere il discorso sugli altri capitoli che erano rimasti in sospeso.
 

LO SCONTRO SULL'ARTICOLO 18 CONTINUA. ANCORA NON SI VEDE COME RISOLVERE IL PROBLEMA DEL CONFLITTO TRA DUE DIRITTI “TUTELATI”.
Lo scenario che fa da sfondo alla trattativa sull'articolo 18 non mi pare sia granché cambiato. Scontro di civiltà e di culture, in quanto ognuna delle due parti ritiene di dover difendere un diritto intangibile, non disponibile: per il lavoratore, non subire lesioni della propria dignità in un rapporto di lavoro che stabilisce una subordinazione che è solo di carattere funzionale, tra liberi cittadini uguali; per l'imprenditore, disporre liberamente dei beni dell'impresa per conseguire il risultato economico ottimale.
Il modo in cui nel 1970 il legislatore ha fissato il confine – ovvero, dove la libertà dell'uno debba cedere il posto a quella dell'altro – ha fatto il suo tempo, secondo gli imprenditori. Che tuttavia non si fanno carico di esplicitare le loro ragioni non riuscendo a inquadrarle nell'impianto giuridico della Costituzione (non solo quella italiana ma anche quella europea). Pur avendo tutto l'interesse - e perfino il dovere di farlo, oscilla tra il parlare d'altro e il tacere.

GLI IMPRENDITORI CHIEDONO UN CAMBIAMENTO MA NON SI FANNO CARICO DI COLLOCARE LE LORO RICHIESTE NEL QUADRO DETTATO DALLA COSTITUZIONE. SPETTEREBBE DUNQUE AL GOVERNO ...
Questo comportamento degli imprenditori mi appare singolare. Troverei però non solo incomprensibile ma un puro azzardo, sia politico che giuridico, tale da provocare guai seri, l'ipotesi di un accordo che prenda quel comportamento a modello. Che resti cioè avvolto dalle nebbie o si regga sulla confusione. Quello che trapela dalla trattativa non è tale da tranquillizzare a questo riguardo.
Le anticipazioni riguardano tre punti. Il primo, che resterà in piedi l'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori. In quali casi i licenziamenti, pur essendo privi di una giusta causa, non avrebbero dunque un carattere discriminatorio? Ecco quindi il secondo punto: non lo sarebbero quelli per motivi disciplinari e quelli economici, per i quali la formula adottata sarebbe quella, abusata nonostante sia assai vaga, dei “motivi tecnici e organizzativi”. Infine, terzo punto, quando non si tratti di un licenziamento discriminatorio, spetterebbe al giudice decidere tra un obbligo di reintegro (ovvero, si deve dedurre, una dichiarazione di nullità IN QUANTO SI TRATTEREBBE DI UN LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO MASCHERATO) e un risarcimento (in misura più cospicua, pari al doppio secondo le anticipazioni, rispetto a quella oggi vigente).

FAR RISPETTARE IL PRINCIPIO: NON SI TOCCA L'ARTICOLO 18 PER I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI. SARA' COSI'?
L'importanza del primo punto è evidente: se l'intento dell'articolo 18 è essenzialmente quello di punire i licenziamenti discriminatori imponendo il reintegro nel posto del lavoro (lasciando al solo lavoratore la possibilità di optare in alternativa per un risarcimento) è assolutamente necessario che nessuna delle eventuali modifiche che si vanno a introdurre possa ledere quel diritto. Perché se ciò accadesse, si andrebbe a contraddire la prima dichiarazione di principio. Non solo, ma sarebbe difficile (se non facendo offesa alla ragione) catalogare modifiche di questa natura come un intervento di “manutenzione”. Si tratterebbe infatti di una pura e semplice abrogazione, come si è affrettato a chiarire uno che della vicenda articolo 18 ne sa qualcosa (mi riferisco a Sergio Cofferati).
Questo punto è dunque decisivo. Proverò perciò a chiarirlo al lettore con la massima semplicità possibile, senza cioè addentrarmi in complesse disquisizioni giuridiche, che peraltro non credo siano necessarie quando si ha a che fare con principi fondamentali che il senso comune riconosce come tali.
Partiamo da questo presupposto: il licenziamento per motivi discriminatori è nullo, in base all'art. 3, legge n. 108 del 1990 " indipendentemente dalla motivazione addotta”.
Inoltre, secondo la giurisprudenza dominante, il licenziamento per giusta causa ha sempre natura disciplinare, nel senso che deve sempre avere all'origine una condotta colpevole del lavoratore (e deve essere intimato per questo motivo). In altri termini deve essere fondato sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi che discendono dal rapporto contrattuale, anche nel caso in cui il codice disciplinare applicato nell’azienda non preveda questa sanzione.
                                 
Infine, si deve tenere a mente la definizione di discriminazione quale risulta dalla legge italiana (la n.40/98, art. 41): “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione o, restrizione o preferenza ... [tale da] compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Definizione che trova ampio riscontro nella direttiva europea (2000/78 CE) “per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro” (recepita nel 2003 sotto il governo Berlusconi) che, partendo dal tema delle discriminazioni di genere allarga la visuale su ogni altra manifestazione assimilabile.

LA QUESTIONE DEI LICENZIAMENTI DISCIPLINARI. AMMETTENDO IL RISARCIMENTO IN ALTERNATIVA AL REINTEGRO SI RISCHIA DI CONTRADDIRE IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE
Poste queste premesse, che cosa può significare l'ipotesi di affidare al giudice la decisione tra reintegro e risarcimento nel caso di un licenziamento per motivi disciplinari? A rigor di logica dovrebbe significare che tra le sanzioni che possono essere comminate al lavoratore in caso di violazioni disciplinari da qui in avanti potrà essere contemplato anche il licenziamento CON RISARCIMENTO. Sarebbe infatti singolare che una tale facoltà potesse essere affidata al giudice ma fosse sottratta alla disponibilità della procedura disciplinare. E' di questo che si parla? Significa che il licenziamento dovrebbe comunque apparire motivato ma cambierebbe la graduazione delle sanzioni?
Ebbene, non mi sembra chiara la risposta che si intende dare a questi dubbi. Mi sono soffermato nel post della scorsa settimana sul tema dello “scarso rendimento” e sul confine talvolta labile tra una condotta volutamente inadempiente rispetto agli obblighi contrattuale ed un inadempimento dovuto a condizioni oggettive o che comunque non discendono dalla volontà del lavoratore. Si vuole ricorrere a un espediente per lasciare al giudice una valutazione rispetto a quel confine spesso labile? Mi piacerebbe che la risposta fosse chiara per una valutazione serena. Ma personalmente non trovo risposta a questa domanda.
Dunque, senza farla tanto complicata, deve essere chiaro che se non si trattasse di questo ma della possibilità di risarcire un lavoratore licenziato SENZA MOTIVO, il cambiamento riguarderebbe esattamente I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI e consisterebbe in questo: prima dell'articolo 18, se il giudice imponeva il reintegro, il datore di lavoro era chiamato a procedere entro 3 giorni ma poteva liberamente decidere, in alternativa, di risarcire il lavoratore; con l'articolo 18 invece è solo il lavoratore che può liberamente decidere di richiedere, in alternativa, un risarcimento economico. D'ora in poi, con questa riforma, la scelta non spetterebbe più né al datore di lavoro né al lavoratore ma al giudice.
 
Di questo si tratterebbe. Ogni altra considerazione sarebbe ridondante e servirebbe a confondere le idee. Nel mio post precedente a questo proposito mi ero spinto a dire che concedere al giudice la facoltà di convalidare un licenziamento che la legge stessa definisce nullo, disponendo d'autorità un mero risarcimento economico, non sarebbe neppure pensabile. Continuo a credere (sperare?) che non sia stato pensato, ma aggiungo un'ulteriore considerazione. Non si tratterebbe solo di un'ipotesi socialmente iniqua e lesiva dei principi solennemente sanciti anche nel nostro paese, perfino dal governo Berlusconi, in tema di non discriminazione; ma anche di un'ipotesi ben poco “efficiente” e “liberalizzatrice”, se questa deve essere la formula magica a cui questo governo deve appellarsi in ogni suo atto.

SONO CHIARI A TUTTI I TERMINI REALI DEL PROBLEMA? SONO STATI VALUTATI TUTTI I COSTI, SOCIALI ED ECONOMICI, DI UNA MOSSA SBAGLIATA?
Non credo siano richieste grandi competenze specialistiche per accorgersi che in nome di una vittoria di bandiera per il governo (che potrebbe dire di aver fatto la riforma facendo retrocedere i sindacati da una posizione di arroccamento) e degli imprenditori (che pur proclamando di non voler toccare i licenziamenti discriminatori potrebbero vantarsi di aver “portato a casa” la possibilità, almeno teorica, di risarcire un lavoratore, anche se licenziato proprio per motivi discriminatori, senza doverlo reintegrare) si farebbe un grande passo indietro anche per quello che riguarda la certezza del diritto: certezza che non serve solo al lavoratore parte lesa ma anche al datore di lavoro per poter programmare sulla base di previsioni minimamente solide la sua attività.
In quel caso (ma ribadisco che mi auguro si tratti di un'ipotesi del tutto infondata), si renderebbe quasi superfluo il procedimento disciplinare, concluso il quale, gli atti passerebbero al giudice che, solo e unico protagonista, ricomincerebbe daccapo per formulare infine la sua sentenza. Pur di cancellare il diritto al reintegro si lascerebbe un grande spazio di intervento discrezionale ai magistrati, che vedrebbero così, inevitabilmente, aumentare a dismisura il loro carico processuale, con buona pace di chi spreca sermoni sulla riforma della giustizia per tagliarne i tempi nell'interesse del cittadino.
                     

IL LICENZIAMENTO PER MOTIVI ECONOMICI. UN FALSO PROBLEMA E IL RISCHIO DI UN PASTICCIO. O UN ALTRO “CAVALLO DI TROIA”?
Stabilito che, se davvero si intende tener fermo l'articolo 18 (quindi il reintegro) per i licenziamenti discriminatori, non sta in piedi l'idea di consentire il risarcimento per i licenziamenti disciplinari NON COMPROVATI, passiamo ora al caso dei licenziamenti individuali per motivi economici. Potrebbero estendersi anche a questi, a quanto sembra, i benefici già previsti per i licenziamenti collettivi, senza che sia chiaro se sarebbe parimenti estesa anche la procedura che prevede un negoziato e un accordo sindacale.
Su quest'ultimo punto mi sono dilungato nel post precedente: che un'impresa con più di 15 dipendenti a tempo indeterminato possa aver bisogno di ridurre il personale di una sola unità per sanare i bilanci è un'ipotesi libresca che non meriterebbe una guerra di religione. Estendere la procedura vigente per i licenziamenti collettivi (come sembrerebbe auspicare la CISL) può rivelarsi un rimedio peggiore del male, se si dovessero chiamare i sindacati a controfirmare una sorta di messa al bando. Lasciare al giudice libertà di scelta tra reintegro e risarcimento (come altri vorrebbero) è forse più sensato. Non significherebbe nemmeno abrogare l'articolo 18 come accadrebbe nel caso che abbiamo esaminato, dei licenziamenti per motivi disciplinari “addotti ma non comprovati”. A condizione, tuttavia, che anche i motivi economici risultino comprovati. E' di questo che si tratta?
Sembrerebbe di sì. L'ipotesi solleva tuttavia lo stesso problema a cui ho accennato da ultimo a proposito dei licenziamenti disciplinari. Va in direzione esattamente opposta a quella, che tutti sembrano auspicare, di un accorciamento dei tempi della giustizia in materia di licenziamenti. Da questo punto di vista l'estensione della procedura attualmente vigente per i licenziamenti collettivi si presterebbe a obiezioni ben minori (le controindicazioni sono di tutt'altra natura, come ho detto poco sopra).
Vorrei essere il più chiaro possibile. Non mi sembra proprio che il gioco valga la candela. Sono dell'idea che solo un imprenditore molto temerario si azzarderebbe a licenziare “adducendo” in giudizio una motivazione di carattere economico. Dunque devo dedurre – fino a prova contraria – che anche questo tema, dei licenziamenti per motivi economici, debba essere ricondotto alla strategia della confusione. Pagando per questo obiettivo di principio e di immagine (che immagine!) un prezzo altissimo (ulteriore) in termini di certezza del diritto e di tempi della giustizia. IL CONTRARIO DI QUELLO DI CUI IL PAESE HA BISOGNO: SI REALIZZEREBBE MINORE EQUITA' SOCIALE ANCHE A COSTO DI DEPRIMERE ULTERIORMENTE LA COMPETITIVITA' DELLE NOSTRE AZIENDE.
Mi ripeto, a questo proposito. Sono davvero così mal ridotti, i nostri imprenditori, da non avere alcuna remora nel confessare di non essere all'altezza di quanto è oggi richiesto, nel mondo civile, in materia di gestione del personale? Possibile che la voci che spiegano che non serve abrogare l'articolo 18 debbano apparire isolate, come “in un deserto”?

INSISTO. DARSI IL TEMPO E IL PERCORSO GIUSTO NON SAREBBE UNA PROVA DI DEBOLEZZA MA UNA DIMOSTRAZIONE DI CORAGGIO POLITICO
Insisto. Non ci si venga a raccontare di una riforma, né grande, né moderna, né per la crescita, né per l'occupazione. Sarebbe solo una manifestazione evidente dell'incapacità del sistema politico di assolvere alle funzioni basilari cui è chiamato. E ancora una volta i giudici sarebbero chiamati in soccorso da una politica inconcludente che non mancherà, ci si può scommettere, di lamentarne l'invadenza.
Resto dell'idea che se non si arrivasse a una conclusione da qui alla fine del mese su questo punto non sarebbe un dramma. Anzi, sarebbe perfino un grande passo avanti (una grande riforma?) se si arrivasse a condividere una diagnosi e ad avviare un ampio consulto sui rimedi.
E chissà che i mercati, anziché punire quello che potrebbe apparire come un passo indietro, non potrebbero riconoscere il passo che si farebbe verso la riconquista di un futuro e, mettiamoci anche questo, verso un ripristino di sovranità su una materia (le “relazioni industriali”) che ancora appare saldamente ancorata alla dimensione nazionale. Un passo che può avere al tempo stesso notevoli ripercussioni sulla partita che l'intera Europa sta giocando attorno al suo modello sociale che, adottato formalmente in Costituzione, si contrappone a quelli caratteristici delle due potenze globali, USA e Cina. Darsi tempo non sarebbe pertanto un atto di debolezza ma di coraggio politico. Questo scrivevo la settimana scorsa e di questo resto convinto.

SUGLI ALTRI TEMI IN AGENDA E' POSSIBILE UN ACCORDO. TAGLIA “SMALL”? IL PIATTO PIANGE?
Ancora una volta lo spazio maggiore è stato catturato dalla questione dell'articolo 18. Nonostante rimanga profondamente convinto che ciò rappresenti un grave errore, questo oggi è il tema su cui si concentra l'attenzione del quadro politico e – si dice, ma su questo ho espresso molti dubbi – dei mercati.
In questo clima non si parla più molto di revisione delle tipologie contrattuali, di un loro sfoltimento. Né di come rilanciare un tema di grande importanza come la formazione sul lavoro, in apprendistato e nel corso della vita lavorativa, per mantenersi aggiornati, per accompagnare le innovazioni, per non perdere il passo con il mondo più sviluppato.
Restano infine tutte in piedi le difficoltà e le tensioni che ostacolano un'intesa sugli ammortizzatori sociali. Non sarà affatto facile.
Nel tempo, è stata creata una situazione irta di contraddizioni e perfino di controsensi. Ci sono categorie di imprese (e dunque di lavoratori in carne e ossa) che pagano più di quello che viene redistribuito al loro interno, altre che pagano meno (anche molto meno) fino a quelle che, di deroga in deroga, non pagano affatto. Esistono categorie di imprese a cui viene consentito di attingere alla indennità di disoccupazione per sostenere il reddito dei lavoratori anche nei periodi di sospensione temporanea “in costanza di rapporto di lavoro” ed altre a cui questo non è consentito e che in quelle evenienze devono invece fare ricorso alla Cassa Integrazione che finanziano pagando salati contributi specifici. Esistono lavoratori a cui viene dato un sussidio quando perdono il lavoro ma sono poi abbandonati a se stessi senza alcun aiuto minimamente efficace per trovarne uno nuovo. Invece, ai giovani che, per lo più con i fondi europei, viene offerto un qualche aiuto (formazione, orientamento, esperienze sul campo) nella marcia di avvicinamento al posto di lavoro, non si fornisce il minimo sussidio economico (ci pensi la famiglia!). E si parla, con molta leggerezza, di salario minimo, o addirittura di reddito di cittadinanza, quando non si riescono a trovare risorse (e procedure condivise) neppure per un risultato elementare e minimale come un assegno che accompagni l'impegno attivo nella ricerca del lavoro.
Ovvio che chi paga più di quello che mediamente è destinato a ricevere aspiri a pagare di meno mentre chi può attingere senza dover pagare alzi le barricate di fronte a qualunque proposta perequativa. Per una soluzione che dia a tutti senza che nessuno debba pagare niente più di quello che paga al fisco ci vorrebbero tra i venti e i trenta miliardi (a seconda del livello di sussidio su cui si fa l'equiparazione). Per sostenere il costo dei servizi da fornire a chi cerca lavoro tra i dodici e i quindici (a seconda di quanto ci si vuole avvicinare al famoso “modello danese”, sempre magnificato ma costosissimo). Per il reddito di cittadinanza non sono nemmeno possibili stime attendibili per l'estrema variabilità della platea su cui fare i calcoli al variare delle condizioni di eligibilità (o requisiti di accesso che dir si voglia).

NON E' SOLO QUESTIONE DI RISORSE MA DI UNA MATASSA DIFFICILE DA SBROGLIARE. UN GROVIGLIO DI INTERESSI IN CONTRASTO. LA SOLUZIONE E' NEI PICCOLI PASSI? MA NON CI SI LIMITI ALLA “MOSSA”!
Per questo groviglio di problemi si era decisa una sospensione della trattativa per una verifica delle risorse che possono essere messe in campo. La “paccata” di soldi di cui si è parlato arriva (se Grilli trova la copertura, non ancora assicurata) a due miliardi. Non credo serva commentare la distanza dalle cifre che ho riportato, tanto più se si considerano le incertezze che permangono.
Il testo che è circolato contiene affermazioni di principio condivisibili e si ispira a un impianto che riprende nelle linee essenziali le conclusioni cui era arrivata, una quindicina di anni fa, la Commissione che il Governo Prodi aveva istituito affidandone il coordinamento al prof. Paolo Onofri. Su quelle basi era stato redatto per la prima volta un testo di legge-delega approvato poi nel '99. A distanza di tredici anni si deve prendere atto che i principi hanno incontrato qualche difficoltà a trovare attuazione, tornare ad enunciarli non sembra poter spostare molto la realtà. Vedremo quale misura concreta sarà adottata con le risorse effettivamente disponibili e potremo giudicare.
Ogni passo in avanti verso la perequazione e l'estensione, in base ad una visione “universalistica”, potrà essere salutato come un vero successo. Personalmente non sarei per chiedere la luna. Ma se dovessimo accontentarci dell'ennesimo annuncio la delusione sarebbe davvero grande. Un conto sono i piccoli passi, tutt'altra cosa è invece la “mossa”, che il movimento lo simula soltanto, ovvero lo “promette”. Spero ci venga risparmiata.