venerdì 14 dicembre 2012

MESSAGGI ELETTORALI (3) Tra primarie e votovero


Torniamo sulle primarie del centrosinistra.
Renzi, è stato detto, ha avuto comunque il merito di mettere una pietra sopra al dualismo degli ex (PCI-DC). La maionese era impazzita, l’olio (santo) di qua e il tuorlo d’uovo (rosso) di là. E, come si sa, se la maionese impazzisce si può solo ricominciare daccapo.

 
Non che fosse sbagliata l’idea dell’incontro tra socialdemocrazia e sinistra cristiano-sociale. In Europa la socialdemocrazia ha già da tempo compiuto questa sintesi, senza che la componente cristiano-sociale si sia mai sentita in dovere di metterne in discussione la matrice fondamentale. Così invece è andata in Italia. L’ambizione originaria ne è risultata frustrata, la sintesi non ha convinto gli elettori, che pure, lo si è visto, erano ben disposti in linea di principio.
Con l’esigenza di andare oltre quel tentativo incompiuto si era già misurato il PD all’origine. Veltroni si era proposto di guidarlo verso un approdo nuovo, volgendo lo sguardo al Partito Democratico americano, in cui del resto il filone della dottrina sociale cristiana è fortemente presente (la dimensione religiosa informa la cultura politica USA sia a destra che a sinistra). Quel modello poteva dunque risultare ben accetto a entrambi i contraenti originari, per una sintesi su basi tuttavia diverse da quelle su cui si realizza nelle socialdemocrazie europee.
L’idea di una contaminazione tra la cultura d’oltreoceano, fondata sulla persona, e la tradizione europea delle aggregazioni sociali intermedie come strumento di valorizzazione e di tutela delle persone attraverso il veicolo della socializzazione, poteva essere feconda. Anche per le socialdemocrazie europee che vivevano un momento di difficoltà dopo la caduta del Muro. Nel momento in cui la storia passata dava loro ragione, alla fine del secolo breve che si era aperto con la divisione all’interno dell’internazionale socialista, il nuovo scenario sembrava coglierle impreparate. L’Italia, per molte ragioni di carattere storico, si prestava a fare da laboratorio per un simile tentativo di innovazione politica, che però è finito male, forse è prima ancora di cominciare.

Non so se possa essere riesumato. Mi sembra tuttavia chiaro che  l’esito che Renzi ha configurato non ha molto a che vedere con quello all’origine del PD. D’altronde neanche il PD ha risposto agli interrogativi attorno alla sua missione: quello che esce dalle primarie non è un Partito Socialdemocratico, anche se certamente assomiglia più a quel modello che a quello dei democratici USA. Il pragmatismo bersaniano lo ha modellato come partito europeo di sinistra riformista. Del disegno veltroniano rimane, più che la tensione verso un’innovazione della cultura politica, che appare abbandonata, proprio la cosiddetta “vocazione maggioritaria” che era stata più ferocemente rimproverata a Veltroni fino a portarlo a rinunciare alla segreteria.

E Renzi allora? Il richiamo al Partito Democratico USA non è mancato. Ad Obama, in particolare. Ma è stato, secondo me, ingannevole. Entrambi giovani, sì, contro l’apparato, sì. Ma a ben vedere Obama non si è collocato fuori dagli schemi. Si è voluto caratterizzare piuttosto per la riscoperta dei valori fondanti, non solo del suo partito ma della nazione americana. Il richiamo rivelatore del posizionamento di Renzi è stato piuttosto quello a Blair (e semmai, in ambito Democrats, a Clinton che aveva tentato una strada nuova, più o meno in contemporanea).
Ma qual è stato l’approdo di Blair? Quale modello ha costruito? Difficile dirlo, visto che non sembra avere avuto seguito, né con Gordon Brown né con Milliband.

Dove vuole andare Matteo Renzi
Se dovessi provare a dire in breve quale sembra essere la nuova missione, il nuovo “ubi consistam” della sinistra blairiana-clintoniana credo stia nell’idea (o nell’illusione) di rendere compatibili i fondamenti del pensiero socialdemocratico con il dominio planetario della finanza globale.
Dagli anni Venti del secolo scorso la cultura socialdemocratica era giunta alla conclusione che si dovessero porre vincoli al funzionamento spontaneo del mercato delle merci per correggerne le gravi distorsioni sul piano sociale. C’era poi voluto all’incirca mezzo secolo riuscire a farlo davvero, con grandi difficoltà e attraverso enormi lutti, in base a ricette politiche su scala nazionale, “coordinate” a livello internazionale.
Quell’equilibrio e quelle ricette sono saltate con la globalizzazione e con la libera circolazione dei capitali. Non esistendo una dimensione politica sopranazionale dotata di strumenti neanche solo paragonabili, come efficacia e potenza d’impatto, a quelli di cui la politica nazionale poteva disporre nei confronti del mercato delle merci, il mercato dei capitali ha preso il sopravvento. Con la tendenza all’accumulazione di ricchezza illimitata, sproporzionata, che lo caratterizza, ha determinato distorsioni e sconquassi sociali ben più gravi di quelli provocati in precedenza nell’economia reale.
 
Il tentativo di sposare la finanza globale e di farla andare d’accordo con la coesione e con il principio di uguaglianza si è rivelato una tragica illusione. Su quella sono naufragati sia Blair che Clinton. Le ricette per porre rimedio non sono ancora messe a punto, la sfida per la politica e per la democrazia è enorme e inedita. La sinistra, socialdemocratica e “democrat”, si candida a vincere questa sfida, senza di che avrà perso la sua ragion d’essere. Ma non la vincerà tornando a quei tentativi illusori, che appaiono inservibili, non fanno guardare avanti ma condannano a ripetere esperienze di sconfitta.

Questo è stato, credo, il piombo nelle ali di Renzi. Non “ragazzetto ambizioso” ma apprendista stregone. L’abbraccio del finanziere Serra, l’abbinamento con l’immagine delle Cayman e dei paradisi fiscali, gli sono costati cari perché segnalano una condiscendenza verso l’evasione fiscale e l’illegalità e perché lasciano intendere la tentazione di legittimare l’egoismo e il cinismo del capitale finanziario come forze propulsive della società. Quasi fossero paragonabili alle catene di montaggio della grande manifattura o ai garage dove si sperimentavano le nuove frontiere dell’ICT.
Tuttavia, ancor più caro gli è costato l’aver provocato un riflesso legalitario, che ha segnato l’omega della sua campagna: un moto di ribellione per la “monelleria” dell’invito al “mail bombing” tra primo turno e ballottaggio, episodio istruttivo e rivelatore, più che del “progetto-Renzi” forse del comune sostrato morale della squadra che aveva messo in piedi.
Un autogol, peraltro. Era stato dato per acquisito che nessuno avrebbe usato la lente di ingrandimento, né richiesto l’analisi del sangue, a chi si fosse registrato in ritardo. Presentarsi ai seggi, negli orari stabiliti, firmare un’autocertificazione, appariva un filtro efficace contro inquinamenti e provocazioni. L’abbraccio finale dopo il confronto a due su Rai-Uno suggellava questo appeasement raggiunto anche sulle regole. Ma comprare pagine a pagamento per dire - la sera stessa! - “cerchiamo di fregarli che sennò abbiamo perso” è stato un pugno nello stomaco per molti. Non ha probabilmente fatto perdere voti a Renzi ma ha reso inossidabile e impermeabile la schiera bersaniana portandola a votare in una proporzione altrimenti difficile da raggiungere. Perché ha dato corpo, plasticamente, alla tendenza a travolgere le regole, qualsiasi regola, che è tipica del capitale finanziario globale.

Insomma, l’idea che la parola d’ordine “arricchitevi” possa essere ancora attuale, che possa, anzi, rappresentare oggi un simbolo di modernità e perfino combinarsi felicemente con il pensiero socialdemocratico ... si è rivelata un’idea fallace. La sintesi è illusoria, la tigre non è fatta per essere tenuta in giardino. Almeno, gli elettori di sinistra, in maggioranza hanno dimostrato di non crederlo possibile.

Non solo PD. Ma ...
E gli altri competitor? Ho dedicato grande spazio al PD nelle primarie del centrosinistra partendo dall’affermazione iniziale che il PD le aveva vinte. I sondaggi dei giorni successivi, convergenti senza eccezioni, lo hanno confermato. Ma il ruolo degli altri non è stato certo marginale. In particolare, Vendola ha giocato, anzi, un ruolo che è apparso decisivo.
Il fatto è che nel momento stesso in cui esercitava quel peso metteva a nudo anche una contraddizione che difficilmente appare risolvibile. Ha pesato nella misura in cui si è sommato alle posizioni, largamente sovrapponibili a quelle di SEL, che hanno ampia cittadinanza nel PD. Ma, una volta che ciò sia apparso chiaro, quanto resta comprensibile e sensata l’alterità, la divisione?
La risposta resta in sospeso, ma non potrà essere elusa ancora a lungo, ritengo. E il ragionamento vale altrettanto per un PdCI che non ha espresso un candidato ma ha fatto sentire anch’esso la sua presenza e il suo peso. Staremo a vedere.

E ora, primarie di collegio
Intanto, con un coraggio che rasenta la temerarietà, Bersani ha portato il gruppo dirigente del PD a sposare unanime le primarie per i collegi parlamentari. Una sfida ancora più ambiziosa delle “primarie aperte”, i cui rischi sono nascosti in ogni passaggio di un percorso che per forza di cose dovrà essere compiuto a gran velocità. Di corsa, prendendo esempio dalla marineria delle incursioni veloci, o “corsara”. Il diavolo si anniderà nei dettagli delle regole, dell’organizzazione, ma soprattutto nel segno d’assieme del risultato finale. Non potrà essere “tanto rumore per nulla”, l’esito dovrà apparire quello annunciato. Un cambiamento misurabile a prima vista.

Ancora sulle “primarie”.degli altri 
Diciamolo chiaramente: messe a confronto con quelle del PD, le due vicende parallele, di Berlusconi e Grillo, sono apparse in tutta la loro assurdità oltre che nella profonda somiglianza che le unisce.
Tra il dire “decido io” e il far decidere a un corpo selezionato (32.000 persone, se non ancor meno) entro una rosa appena un po’ superiore agli “eligendi” (1.600 per 950 posti) c’è molta differenza? Uno è spudorato (bugiardo galattico), l’altro ha sprezzo del ridicolo (per deformazione professionale). Ma rischia di essere un po’ come la differenza tra hard core e burlesque. Per non dire dell’imbarazzante analogia che affiora nell’alternarsi di deliri di onnipotenza e stati confusionali (qui lo dico e qui lo nego).
Ma non ci si può fermare alle analogie tra i due primattori. Qualche differenza profonda c’è e deve far riflettere. Una vicenda ci dice dell’implosione (irreversibile per ora) della destra italiana, deragliata con un fragore che si è sentito in tutta Europa e ha fatto colpo anche oltre gli oceani. L’altra invece interroga soprattutto la sinistra, anche se non è lecito definire di sinistra il Movimento 5 Stelle.
Possiamo pensare di consolarci rilevando che raccoglie nel suo seno – alcune biografie lo hanno mostrato chiaramente una volta divenute di pubblico dominio – anche gente che “per bene” non è esattamente. Che ne raccoglie altri che non sono “quelli della porta accanto”, mai contaminati dal morbo della politica attiva, ma personaggi che hanno seguito percorsi ben tracciati, con risultati penosi, anche a sinistra ma in misura forse maggiore in ambiti di destra.

Ma è una ben magra consolazione, perché la maggioranza degli attivisti è comunque fatta di giovani che cercano nuove strade di impegno politico concreto, militante, su temi chiave della nostra vita associata, decisivi per il nostro futuro, in un ottica facilmente sovrapponibile a quella che anima i loro coetanei collocati a sinistra.
Prendiamo atto che si sono dimostrati disposti ad avallare le stramberie, chiamiamole così, dei loro diarchi, il guru e il comico. Lo hanno fatto per non rischiare di perdere un potente strumento di condivisione con tutti quelli come loro che hanno incontrato in questa esperienza, per non ritrovarsi soli, punto e daccapo. Per colpa nostra, dunque. Dovremmo farne motivo di riflessione severa, altro che riderci sopra.