venerdì 14 settembre 2012

Filiera. Territorio. Qualità. 2a parte


Riprendiamo il tema delle prospettiva Arena - Solagrital dal punto in cui lo avevamo lasciato nel post precedente.
Prima merita però un accenno, ancora una volta, la situazione Zuccherificio. Dall'incontro con le rappresentanze sindacali nazionali dello scorso 11 settembre sembra emergere la consapevolezza, da parte di queste ultime, della centralità del tema dei “distaccati” ritornati presso la “old-co.” (ovvero presso lo Zuccherificio del Molise spa). Attraverso questo problema si riescono a inquadrare nel complesso le prospettive dell'intera operazione concordato preventivo–newco–dismissione e si comprende se si stia lavorando a un possibile rilancio della filiera ovvero alla liquidazione, cioè ad un'operazione di carattere finanziario, con altri scopi. Stando al verbale dell'incontro, per quei lavoratori (rimasti attualmente in 28) si dovrà “prevedere il ricorso a tutti gli strumenti utili a gestire la fase di tutela e di piena occupabilità, verificando tutte le condizioni tecniche, organizzative e produttive possibili”. E' un significativo passo in avanti, quanto meno verso la consapevolezza di quale sia la strada da percorrere, che passa per soluzioni “tecniche, organizzative e produttive”. Non si parla, non a caso, di condizioni finanziarie, che per i 28 rimasti alle dipendenze dello Zuccherificio non hanno alcun senso. L'occupabilità implica una produzione in piedi, che trovi riscontro sul mercato. Quello deve rimanere l'orizzonte e i 28 non possono aspirare ad altro che a quello, che significa la salvezza della filiera e di tutti i suoi componenti.
Quanto all'altra filiera minacciata di estinzione, quella del pollo, abbiamo concluso il post precedente segnalando che il cerino è ora nelle mani della Regione.
Vediamo più da vicino che cosa significa.
Il concordato preventivo avviato per Arena Spa poggia tutto sull'accettazione da parte di Solagrital e quindi (posto che il socio minoritario è Arena, che non può non approvarlo ma per evidenti motivi non ha voce in capitolo) da parte del socio di maggioranza, la Regione.
Può rifiutare? Condannerebbe Arena, perdendo così i suoi crediti (quelli vantati da Solagrital e gli affitti). Salverebbe almeno Solagrital? No, perchè disgrega la filiera molisana. A monte, perché perde credibilità nei confronti degli allevatori “soccidari”, che già stanno migrando verso altri lidi (in particolare, per quanto mi consta, verso Aia); a valle perché perde il traino del marchio Arena ed esce quindi dai canali della Grande Distribuzione (o al più vi occupa posizioni del tutto marginali).
Dovrebbe perciò, quasi inevitabilmente, liquidare Solagrital. Lascio ad altri più ferrati di me l'onere di avanzare congetture sulla praticabilità di una soluzione che vedrebbe l'Ente Pubblico Regione portare al fallimento una sua partecipata. Potrebbe avanzare la richiesta di un concordato preventivo con qualche speranza di vederlo accolto dai creditori? Potrebbe sottrarsi, in caso di rifiuto, all'onere di soddisfare integralmente i creditori (non solo quelli privilegiati)? E, trattandosi degli allevatori soccidari, posto che ve ne fossero le condizioni legali, potrebbe sopportarne anche le conseguenze politiche?
Non mi sento di dare una risposta ma esprimo forti dubbi. Credo, in definitiva, che sia una situazione impercorribile a meno di un esborso della Regione che vada a coprire tutte le pendenze che gravano su Solagrital (senza rientrare dei crediti vantati verso Arena se non per le briciole). Per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Il deserto produttivo, lo smantellamento dello stabilimento di Monteverde e l'elemosina degli ammortizzatori sociali per le centinaia di lavoratori che vi operano, l'abbandono degli allevatori del Matese al loro destino, alla ricerca di qualche compratore in regioni distanti, a prezzi in caduta libera.
Non è un film dell'orrore, di pura fantasia. E' la conseguenza ineludibile di un fallimento, politico e sociale prima che economico.

L'alternativa dunque qual'è? Ripianare tutti i debiti con denaro pubblico e permettere alla ruota di continuare a girare?
C'è chi spera ancora che si possa fare. Basterebbe risolvere il (piccolo) problema di reperire quel denaro pubblico. Se qualcuno sa dove trovare un centinaio di milioni (è l'ordine di grandezza, dieci più o dieci meno) per salvare sia Arena che Solagrital con piena soddisfazione dei creditori, sia il benvenuto. Il gioco è fatto.
O forse no. Perché c'è da verificare che la ruota, riprendendo a girare, non continui ad accumulare quei passivi annui che sono stati registrati ultimamente. Se così non fosse, la ruota dovrebbe girare a carico (totale) delle casse della Regione. Ovviamente, nessun privato si farebbe carico di una “macchina” che produce perdite anziché utili.

Nessuna delle due soluzioni estreme è dunque percorribile. In mezzo c'è una strada stretta, che passa per alcuni punti fermi.
Il primo è la ricomposizione della filiera.
Arena e Solagrital sono ai ferri corti. Lo sono i due vertici, ma quello di Arena intende chiaramente farsi da parte non appena in Borsa si presenti un compratore che intraveda una via di rilancio. Quello di Solagrital ha rimesso il mandato, a partire dal rappresentante di Arena. Dunque il campo è libero.
E' qui dunque che la Regione è attesa alla prova. Non può sottrarsi, deve dimostrarsi capace di “reggere il cerino”, senza bruciarsi, perché non c'è nessun altro a cui girarlo. Deve rimettere insieme la filiera.
Le condizioni politiche per riuscire in questa impresa sono pesantissime per la Giunta Iorio. Perché non può più difendere la catena di comando con cui ha finora stretto un patto di ferro. Deve trovare un compratore. Arena è in Borsa, dunque l'operazione deve essere trasparente, i compratori saranno controllati da Consob e piccoli azionisti e dovranno dimostrarsi affidabili per il futuro, oltre a dover offrire condizioni credibili di rilancio. Con questi vincoli, nessun privato accetterà di farsi carico di chi ha alle spalle questa disfatta. Perciò la Giunta Regionale deve rinnegare la sua storia (e i suoi compagni di avventura).
Dubito che possa farlo ed è per questo che dovrebbe avvertire il senso di responsabilità di farsi da parte senza indugio. Il fallimento di Solagrital è il fallimento di questa Giunta. Ma una Giunta non porta libri in Tribunale. Questa, piuttosto, si è presentata in Tribunale per restare in carica e resisterà ancora fino al 16 ottobre. Qualcuno dovrà dunque sostituirsi alla Giunta nel gestire e portare a buon fine questa operazione. Sostituirsi, ribadisco, non dare una mano, che significa scendere a patti. Non ci sono patti percorribili. Non perché si debba essere spietati con gli sconfitti ma perché il mercato è senza cuore, si basa su calcoli, non su sentimenti. E' la politica che deve dare un'anima al mercato, torno a ripeterlo come nel post precedente, ma è a sua volta condizionata dalla sua dura aritmetica. Del dare e dell'avere.
Ricomporre dunque la filiera. Con un management nuovo. Con cui confrontarsi sulle condizioni politiche, che la Regione, parte pubblica e perno di tutta l'operazione, deve porre in termini inderogabili (pur nel rispetto dei vincoli di bilancio).
E veniamo dunque al cuore del problema. La filiera non può che essere ricomposta sul territorio. A chilometri zero, come si usa dire oggi.
Diciamolo con altre parole. Chi compra il marchio Arena non può andare comprando i polli, su cui applicarlo, in giro per il mondo. Né può appiccicarlo su polli che già produce da qualche altra parte. Deve vendere prima di tutto, con quel marchio, i polli prodotti nel Matese. Che significa, allevati nel Matese e macellati a Monteverde di Boiano.
Ne consegue, per un calcolo economico elementare, che deve riacquistare lo stabilimento e stipulare in prima persona i contratti di soccida. E che Solagrital deve essere liquidata e venduta di nuovo ad Arena. Più esattamente, a chi avrà acquisito il controllo del pacchetto azionario di Arena investendo i capitali necessari.

E la storia dal '94 al 2000 che fine fa? Archiviata. Archiviata l'operazione della scissione, la polpa (i segmenti della filiera a maggiore valore aggiunto) al privato, l'osso (quelli a minore valore aggiunto, o privi del tutto di margini) al pubblico. L'astuzia di allora, congegnata per salvare la fetta molisana di Arena dal disastro veronese, ha retto per l'emergenza ma appena è stata trasformata in un meccanismo “a regime” ha mostrato tutta la sua fragilità, aviaria o non aviaria. Non ci può essere un segmento produttivo e uno che perde quattrini. C'è un ciclo di lavorazione che deve essere, nel suo assieme, improntato alla qualità.
Si può fare? Certo. E si deve fare. Nelle mani di chi ha l'esperienza e la competenza per farlo.

Che cosa significa?
Qualità degli allevamenti. Mangimi, la cui produzione del resto dovrebbe rientrare il più possibile nel ciclo “corto” della filiera; condizioni ambientali, interne agli allevamenti e verso l'esterno (emissioni e rifiuti); selezione dei caratteri.
Qualità della lavorazione, in tutte le fasi. Innovazione nei processi (i margini sono ristretti ma ci si deve aggiornare di continuo) e soprattutto nei prodotti, che possono apparire standardizzati ma offrono invece spazi sempre nuovi all'inventiva. Condizioni ambientali (come sopra), tracciabilità, trasparenza.
La strategia commerciale segue il percorso della qualità e ne trae forza. Si sviluppa poi secondo le sue logiche specifiche. I marchi sono più di uno, si può pensare di differenziare gli standard e quindi i target di mercato (e i prezzi) per non lasciare sguarnita nessuna fascia, dalle boutique gastronomiche fino ai discount. E ci si può rivolgere, senza paura di passare per visionari, ad un mercato estero in crescita, di volumi e di prezzi. Purché non si commetta l'errore di spacciare per pollo di qualità quello che si compra a poco sui mercati emergenti, né quello di svendere sotto costo, per pagare cambiali in scadenza, un pollo “dal sapore di una volta”, allevato nel rigoroso rispetto dei più elevati standard di qualità, “sputtanando” un marchio pregiato .

Non essendo un esperto di economia aziendale, so di essermi limitato a considerazioni non troppo originali. Ma avverto il dovere di metterle nero su bianco in una situazione in cui sembra essersi eclissato perfino il banale buon senso. E ne traggo spunto per toccare su un tema che è stato oggetto di considerazioni non banali da parte di analisti di tutto rispetto. Il tema è quello del modello di business su cui aveva impostato sin dall'inizio tutta la sua strategia Dante Di Dario, peraltro con buoni risultati iniziali.
L'idea guida, di fare del territorio d'origine il certificato di qualità del marchio per promuovere il prodotto in una fascia di mercato più alta e perciò più remunerativa era un'idea sballata, una pia illusione? Qualcuno l'ha definita come l'idea del “pollo fashion”, il pollo griffato, per stabilire un parallelo con la strategia commerciale di Tonino Perna all'Itierre. Ma se la definizione è senz'altro brillante, rischia però di svilire quello che merita invece, a mio parere, di essere salvaguardato in quella idea. Perché non è l'idea di una interconnessione tra qualità del prodotto e qualità del territorio che ha portato alla catastrofe, quanto l'incapacità di tener fermo a quella idea a causa dei presupposti su cui era stata costruita la scomposizione della filiera. A causa insomma della scelta di fare delle prime e seconde lavorazioni (se non anche delle terze) un segmento “bad” per riservare tutto l'investimento sulla qualità ai segmenti a valle, alla Newco Arena spa.
Al nesso territorio – qualità, per la filiera ricomposta, si può dunque tornare.
Occorre tagliare? I conti devono tornare, certo. Ma (qui parlo da economista del lavoro) non è alto il costo per ora lavorata (salvo che per qualche segmento in alto) e non deve dunque essere tagliato. Deve anzi tornare a crescere per allinearsi agli standard correnti. E' invece alto il costo per unità di prodotto, ma dipende da altri fattori. Troppe ore lavorate (poca produttività) per unità di prodotto e costi troppo alti delle transazioni intermedie.
Chiunque si sia avvicinato appena un po' a quel mondo sa perfettamente dove si annidano sacche poco produttive. E quali fattori pesano sulle transazioni intermedie. Il primo è un problema che si risolve da solo nel momento in cui si verifica un ricambio del management con acquisizioni dall'esterno (non da Marte, devono semplicemente essere esenti da condizionamenti, anche senza venire da lontano). Il secondo rinvia a quanto detto in precedenza sul rinnovamento di tutti i segmenti della filiera, a monte (allevatori) ma anche a valle (commerciali).
Occorre investire denaro pubblico? Non sto qui a fare i conti che starà all'oste fare una volta che il pranzo sarà stato ben cucinato. Dico però, senza il timore di essere contraddetto, che le risorse che la Regione deve mettere in campo sono soprattutto quelle politiche. Di indirizzo. Di cooperazione tra i soggetti coinvolti, istituzionali e non, collettivi e non (individui). Si devono coinvolgere i coltivatori (mangimi), gli allevatori, i lavoratori dello stabilimento, la “forza vendita”. E' questo che serve per rinnovare i segmenti della filiera e riportare il conto economico in equilibrio espandendo i volumi prodotti. Si deve fare marketing territoriale per attrarre investitori e promozione di immagine, del territorio e non solo del marchio. Compiti che la Regione dovrebbe assolvere in via ordinaria ma hanno assunto il carattere di impegni straordinari.

Infine un accenno agli investitori. Ci sono fondi di investimento (anche esteri, come i fondi pensione). Capitali investiti nel ramo, che sarebbero in grado di valutare le potenzialità della filiera molisana, pur sempre la più meridionale in Italia. Trovo però da riprendere e da non lasciar cadere assolutamente lo spunto che viene offerto da alcuni commentatori a proposito di forme di partecipazione dei lavoratori all'acquisto di quote, anche importanti, della società.
Non mancano le competenze, né le idee, né la passione civile, né la rettitudine. Mancano i capitali necessari? Ecco una sfida che dovrebbe sollecitare le migliori energie in campo finanziario. Non quelle speculative, ma quelle che hanno come ragione sociale il sostegno al capitale di rischio in imprese con buone potenzialità e patrimonio scarso (o nullo). Ci sono esempi anche molisani in questo campo. Potrebbero sentire un richiamo del cuore. Per mettere in moto il freddo calcolo, si intende. Orientandolo, però, anche col cuore.