Il tabù è stato infranto. Da
qualche tempo si può parlare liberamente di uscita dall'Euro. E' il caso di
parlarne, dunque.
Il sogno irrealizzabile della Lega. Agganciarsi a un
Euro-nord sganciato da un Euro-sud
Ne parla la Lega.
Solleva un problema non da poco.
Se si dovesse andare allo “split”, ovvero alla scissione tra Euro-nord
(forte) e Euro-sud, esploderebbe immancabilmente il tema degli squilibri
regionali interni ai paesi deboli. Il più vistoso (non l'unico) essendo quello
italiano, i leghisti si fanno forti del fatto che gli indicatori riguardanti le
regioni del centro-nord sono molto più vicini a quelli degli Stati forti (e
virtuosi) che non a quelli medi dei PIIGS.
Si può obiettare che le
inefficienze di sistema del Paese Italia (per dire: ritardi della giustizia,
arretratezza della P.A., autoreferenzialità del sistema bancario, evasione
fiscale, corruzione) non sono facilmente localizzabili in un'area geografica
piuttosto che in un'altra. Le differenze ci sono semmai all'interno delle
macro-aree e, soprattutto, tagliano trasversalmente il corpo sociale.
Ma è anche la sequenza logica che
non regge. Nel momento in cui l'Italia (Paese) uscisse dall'Euro diverrebbe
impraticabile qualsiasi operazione di aggancio all'Euro-forte per una sua
parte. Classica zappa sui piedi. A maggior ragione se la questione diventasse
(come si sente dire in qualche raduno celtico) quella dell'uscita dall'UE prima
ancora che dall'Euro.
L'ambiguo ricorso al referendum dei “5 stelle”. La parola ai
cittadini: davvero?
Ne parla il Movimento 5 Stelle.
Per rivendicare un referendum che
dia ai cittadini la possibilità di decidere sull'Euro. Con quale opzione?
Nessuna, sembrerebbe, stando alle dichiarazioni “autentiche”, dei guru del
Movimento.
Ritengo siano apprezzabili le
novità che il Movimento sta sperimentando quanto alle nuove forme di
partecipazione, con un uso massiccio e intelligente delle tecnologie della
comunicazione e dei social network. Per loro il veicolo è il contenuto,
verrebbe da dire. Ma, un momento! Davvero il Movimento non ha opzioni di
contenuto? Non dice la sua su ambiente, economia, etica pubblica (tanto per
elencare qualche tema che mostrano di affrontare con più passione)? Se a Parma
il M5S che regge il governo della città dovesse risolversi a chiamare i cittadini
a un referendum sull'inceneritore, lo farebbe senza indicazione di voto, senza
impegnarsi per orientare la scelta in una direzione piuttosto che in un'altra?
Suvvia, non scherziamo!
Il tema dell'Euro è dunque meno
importante? O meno chiaro? O non sarà che si preferisce nascondere la mano che
lancia il sasso?
Non ci vuol molto a immaginare
che raccogliere le firme necessarie sarebbe un gioco da ragazzi. Dunque, se è
vero che l'indizione del referendum sarebbe in sé un successo, come ha
apertamente dichiarato Beppe Grillo, il successo è assicurato. Ma lo stratega
del Movimento sa bene, come sanno anche i bambini, che sarebbe al tempo stesso
un colpo severo alla stabilità dell'Euro.
Lo fa per la democrazia, a quanto
pare. Perché avrebbe dunque il coraggio di affermare che è stato imposto ai
cittadini italiani? Che non hanno avuto modo di esprimersi? Dimentica che uno
dei motivi principali del successo elettorale di Prodi nel '96 fu proprio il
programma di aggancio all'Euro? Dovrebbe ricordare che il massimo della
popolarità di quel governo si ebbe nel '97-'98 (poco prima della sua caduta,
dunque), proprio in coincidenza con i sacrifici lacrime e sangue imposti al
paese per riuscire ad agganciare l'Euro. Quell'Euro da cui – dovrebbe ricordare
anche questo – la grande finanza domiciliata in Germania e Olanda voleva tenere
lontano il nostro Paese. Così come qualche anno dopo ha gridato allo scandalo
per l'aggancio compiuto dalla Grecia, che ora vuole sbattere fuori.
Non sto insinuando che il gioco
di Grillo & co. è a indebolire l'Euro sia un “lavoro per conto terzi”, ma
sarebbe il minimo aspettarsi un esplicitazione dei motivi di questa scelta.
Sarebbe di un atto di onestà politica elementare. Anche per capire dove
cominciano e dove finiscono i pregi della “nuova” politica che intende
impersonare. In mancanza, per affrontare il tema dell'uscita dall'Euro dobbiamo
riferirci agli argomenti portati avanti da chi ne fa un obiettivo esplicito.
Ne parla Berlusconi. Ispirato da solidi argomenti? Piuttosto,
dalle rilevazioni di Eurobarometro
Stavo per dimenticarmene. Ne
parla anche Berlusconi. O, meglio, ne straparla.
Pensando alla cultura politica
che lo muove è facile che dietro, più che una qualunque argomentazione, ci
siano piuttosto le indagini Eurobarometro. Che mostrano, questo sì, una
progressiva disaffezione (a partire, non sarà però un caso, proprio
dall'avvento di Berlusconi al governo) nei confronti dell'Euro oltre che
dell'Europa. Non tale, tuttavia da far preferire l'uscita, anche se sono il
sintomo di un possibile bottino di voti. Che il fenomeno debba preoccupare chi
resta convinto che la prospettiva europea non abbia alternative, se non
catastrofiche non è affare che possa riguardare il Cavaliere.
Sta di fatto che in termini
assoluti non sono una quota rilevante, stando ai sondaggi. E che, senza ombra
di dubbio, si tratta di una quota molto meno numerosa di quella che, nell'area
dei Paesi “forti”, vorrebbe la separazione “per non accollarsi il peso dei
debiti dei paesi spendaccioni”. Ma quale attrattiva può esercitare la
prospettiva dell'uscita in un “paese spendaccione” come il nostro?
Le ragioni della destra anti-euro: stampare
moneta a volontà. In nome della sovranità nazionale.
Dobbiamo qui distinguere il
sentimento “anti-euro” di sinistra da quello di destra.
La variante di destra è questa:
con l’ingresso nell’euro non si può sostenere la domanda nazionale stampando
moneta. Lo fa la FED americana, lo fanno gli inglesi e le altre monete europee
extra-Euro mentre a noi non è concesso. Si noti che in questa versione la
svalutazione, conseguenza inevitabile della creazione di moneta, non è tenuta
in nessun conto.
D'altra parte, la caduta della
domanda interna, nell’impossibilità di una politica di deficit spending,
porta alla recessione. Dunque dall'ingresso nell'euro deriva perdita di
competitività (non si investe) e impoverimento delle famiglie.
Il salto logico, oltre che
nell'ignorare la svalutazione, è nascosto nella premessa, secondo cui la
devoluzione del potere di battere moneta a Francoforte ha come conseguenza
obbligata (priva di alternative) l’impossibilità di una politica di sostegno
alla domanda per via di investimenti pubblici (anche in deficit). Ma non è così
ed è di questo che occorre invece parlare.
Soffia un venticello anti-euro anche a sinistra. Stormir di
fronde.
Intorno all’uscita dall'euro
circolano anche a sinistra, sussurrati, alcuni ragionamenti. Diversi, ma basati
su una premessa non troppo distante: con l’ingresso nell’euro non è più
consentito recuperare competitività svalutando la moneta.
L'attenzione sembra spostarsi
più sulla convenienza che una svalutazione della moneta può presentare sul
piano delle ragioni di scambio nell'export anziché sugli effetti di sostegno
alla domanda interna. Ma la differenza più rilevante sta nella preoccupazione,
che anima la “fronda” di sinistra, che la sola alternativa per recuperare
competitività consista nello svalutare i salari: alternativa sbagliata e
inaccettabile, che porta alla macelleria sociale e non garantisce altro che un
recupero di competitività momentaneo e illusorio.
Resta dunque in fatto: che
l'idea che l’ingresso nell’euro abbia portato macelleria sociale e perdita di
competitività accomuna gli scontenti di destra e di sinistra. Ma è un'idea
fondata?
Ma è davvero inevitabile una svalutazione dei salari se non
si può svalutare la moneta?
Dov'è il salto logico? Il
ragionamento poggia sul presupposto che la svalutazione della moneta non abbia
che un’unica alternativa, ovvero la svalutazione dei salari, che preoccupa
giustamente la sinistra (oltre alla caduta della domanda interna per una
stretta fiscale, che spaventa la destra, su cui però non vado oltre).
Ora, se esistono invece
alternative, che non passano per la svalutazione dei salari e
consentono di sostenere la domanda (di consumo e di investimenti), allora i
costi che i lavoratori stanno sopportando non derivano dall’euro ma dal fatto
che non si perseguono le alternative corrette e si cerca soltanto il recupero
di competitività tagliando sul costo del lavoro, sul salario.
Attenzione al pericolo che si
nasconde dietro l'illogicità. Si fa credere che la scelta da fare consista nel
soppesare pro e contro dell’uscita dall’euro dando per scontato che l’euro
comporti quei costi (perdita di competitività e macelleria sociale). Tutto si
risolve allora in una contabilità di svantaggi e benefici da porre a confronto
con quelli che si avrebbero con l’uscita. Quando, viceversa, l’euro non
comporta quei costi come inevitabili. Anzi. Occorre domandarsi se
svalutando la moneta (una moneta nazionale debole) non si svalutino ancor più i
salari. E se stampando moneta (nazionale, debole) non si sottraggano ancor più
risorse alla destinazione auspicabile, di sostegno alla domanda. La risposta
dovrebbe essere evidente.
Ovvero, ci viene imposto di farlo, senza che
si possa seguire un'altra via?
Ma, si sente argomentare (a
bassa voce) a sinistra, se chi comanda in Europa non ci permette di seguire
strade alternative a quella della compressione dei salari, siamo costretti, per
NON uscire dall'Europa, a uscire dall'Euro. E' l'unico modo per adottare una
soluzione keynesiana avendo riacquistato sovranità monetaria. Mi scuso per la
sintesi un po' rozza ma spero in compenso sia chiaro il tema. Ora, è da
dimostrare che, anche nell'assetto politico dell'Europa attuale, non siano
praticabili, per impedimento politico esterno, politiche di sostegno della
domanda aggregata, pur con un fiscal compact che è tutto il contrario
del deficit spending di classica memoria.
Non è dimostrato che sia così.
Il punto è però, a mio avviso, ancora un altro. Perché la spesa pubblica in
deficit non si traduca in pura inflazione, che colpisce comunque i redditi da
lavoro senza aiutare l'economia a riprendersi, sono necessarie due condizioni.
La prima, banalmente, è che
quella spesa alimenti (direttamente o tramite aumento dei consumi finali)
investimenti capaci di generare aumenti di produttività. Di sistema, non certo
soltanto in termini di valore aggiunto per ora lavorata, ciò che rinvia,
insieme al tema dell'ammodernamento del sistema produttivo, a quello delle
riforme, come si diceva un tempo, strutturali: giustizia,
credito, fisco, pubblica amministrazione, diritto societario, servizi e public
utilities, ecc. ecc.. Insomma, tutto il lungo elenco di fattori su cui le
classifiche internazionali condannano il nostro paese alle retrovie.
La seconda, forse meno scontata
anche se dovrebbe esserlo, è che i frutti della crescita, una volta tornati
nella fase ascendente del ciclo, vadano a ripagare il debito.
Il nostro Paese è mancato a
entrambi gli obblighi.
Non possiamo nascondercelo,
anche se dovrebbe essere del tutto chiaro che non sarà mai un motivo
sufficiente per essere oggi condannati alla recessione e a far pagare il peso
della crisi a chi ne ha meno colpe.
Per il nostro Paese è ora di uscire. Non dall'Euro, ma dalla
storia degli ultimi trenta anni. Finalmente
Il fatto è che, Europa o non
Europa, Euro o non Euro, Euronord o Eurosud, dobbiamo imboccare un'altra strada
rispetto a quella che i rappresentanti politici che il nostro popolo ha eletto
hanno percorso in tutti questi anni. E non parlo solo degli ultimi anni perché
è la storia che si trascina dalla fine degli anni Settanta, quando è stata data
una soluzione autoritaria e classista (contro il lavoro) alla crisi sociale che
si era aperta durante il decennio precedente. Il processo non è stato lineare,
ci sono state fasi in cui una linea “pro-labour” (come si dice nel resto del
mondo) ha fatto capolino e ha portato anche qualche risultato. Sono stati anche
i soli anni in cui l'economia è cresciuta e il debito è calato. Ma il trend di
lungo periodo è stato quello.
Se ancora una volta, intendo
dire in conclusione, la sinistra italiana si lasciasse abbagliare dalle ipotesi
fantasiose prodotte dall'estremismo corporativo di una destra classista,
perdendo di vista i fondamentali della questione, e si facesse irretire da uno
sciagurato incantesimo, quello delle sirene anti-euro, perderebbe ancora una
volta un appuntamento con la storia che il 1989 sembrava averci regalato per
invertire quella tendenza e che è stato invece buttato alle ortiche.
Uscire dall'euro per non essere
capaci di uscire dalla storia degli ultimi trent'anni sarebbe il tragico
coronamento di una fase regressiva. Da cui invece la sinistra (non la destra
moderata, che di quella fase è stata levatrice, né Monti che ne è pur sempre
espressione) ha il compito storico di liberare finalmente il Paese.