venerdì 28 settembre 2012

Euro si, Euro no


Il tabù è stato infranto. Da qualche tempo si può parlare liberamente di uscita dall'Euro. E' il caso di parlarne, dunque.

Il sogno irrealizzabile della Lega. Agganciarsi a un Euro-nord sganciato da un Euro-sud

Ne parla la Lega.
Solleva un problema non da poco. Se si dovesse andare allo “split”, ovvero alla scissione tra Euro-nord (forte) e Euro-sud, esploderebbe immancabilmente il tema degli squilibri regionali interni ai paesi deboli. Il più vistoso (non l'unico) essendo quello italiano, i leghisti si fanno forti del fatto che gli indicatori riguardanti le regioni del centro-nord sono molto più vicini a quelli degli Stati forti (e virtuosi) che non a quelli medi dei PIIGS.
Si può obiettare che le inefficienze di sistema del Paese Italia (per dire: ritardi della giustizia, arretratezza della P.A., autoreferenzialità del sistema bancario, evasione fiscale, corruzione) non sono facilmente localizzabili in un'area geografica piuttosto che in un'altra. Le differenze ci sono semmai all'interno delle macro-aree e, soprattutto, tagliano trasversalmente il corpo sociale.
Ma è anche la sequenza logica che non regge. Nel momento in cui l'Italia (Paese) uscisse dall'Euro diverrebbe impraticabile qualsiasi operazione di aggancio all'Euro-forte per una sua parte. Classica zappa sui piedi. A maggior ragione se la questione diventasse (come si sente dire in qualche raduno celtico) quella dell'uscita dall'UE prima ancora che dall'Euro.

Roberto Maroni vuole un referendum contro l'euro 

L'ambiguo ricorso al referendum dei “5 stelle”. La parola ai cittadini: davvero?
Ne parla il Movimento 5 Stelle.
Per rivendicare un referendum che dia ai cittadini la possibilità di decidere sull'Euro. Con quale opzione? Nessuna, sembrerebbe, stando alle dichiarazioni “autentiche”, dei guru del Movimento.
Ritengo siano apprezzabili le novità che il Movimento sta sperimentando quanto alle nuove forme di partecipazione, con un uso massiccio e intelligente delle tecnologie della comunicazione e dei social network. Per loro il veicolo è il contenuto, verrebbe da dire. Ma, un momento! Davvero il Movimento non ha opzioni di contenuto? Non dice la sua su ambiente, economia, etica pubblica (tanto per elencare qualche tema che mostrano di affrontare con più passione)? Se a Parma il M5S che regge il governo della città dovesse risolversi a chiamare i cittadini a un referendum sull'inceneritore, lo farebbe senza indicazione di voto, senza impegnarsi per orientare la scelta in una direzione piuttosto che in un'altra? Suvvia, non scherziamo!
Il tema dell'Euro è dunque meno importante? O meno chiaro? O non sarà che si preferisce nascondere la mano che lancia il sasso?
Non ci vuol molto a immaginare che raccogliere le firme necessarie sarebbe un gioco da ragazzi. Dunque, se è vero che l'indizione del referendum sarebbe in sé un successo, come ha apertamente dichiarato Beppe Grillo, il successo è assicurato. Ma lo stratega del Movimento sa bene, come sanno anche i bambini, che sarebbe al tempo stesso un colpo severo alla stabilità dell'Euro.
Lo fa per la democrazia, a quanto pare. Perché avrebbe dunque il coraggio di affermare che è stato imposto ai cittadini italiani? Che non hanno avuto modo di esprimersi? Dimentica che uno dei motivi principali del successo elettorale di Prodi nel '96 fu proprio il programma di aggancio all'Euro? Dovrebbe ricordare che il massimo della popolarità di quel governo si ebbe nel '97-'98 (poco prima della sua caduta, dunque), proprio in coincidenza con i sacrifici lacrime e sangue imposti al paese per riuscire ad agganciare l'Euro. Quell'Euro da cui – dovrebbe ricordare anche questo – la grande finanza domiciliata in Germania e Olanda voleva tenere lontano il nostro Paese. Così come qualche anno dopo ha gridato allo scandalo per l'aggancio compiuto dalla Grecia, che ora vuole sbattere fuori.
Non sto insinuando che il gioco di Grillo & co. è a indebolire l'Euro sia un “lavoro per conto terzi”, ma sarebbe il minimo aspettarsi un esplicitazione dei motivi di questa scelta. Sarebbe di un atto di onestà politica elementare. Anche per capire dove cominciano e dove finiscono i pregi della “nuova” politica che intende impersonare. In mancanza, per affrontare il tema dell'uscita dall'Euro dobbiamo riferirci agli argomenti portati avanti da chi ne fa un obiettivo esplicito.

 

Ne parla Berlusconi. Ispirato da solidi argomenti? Piuttosto, dalle rilevazioni di Eurobarometro

Stavo per dimenticarmene. Ne parla anche Berlusconi. O, meglio, ne straparla.
Pensando alla cultura politica che lo muove è facile che dietro, più che una qualunque argomentazione, ci siano piuttosto le indagini Eurobarometro. Che mostrano, questo sì, una progressiva disaffezione (a partire, non sarà però un caso, proprio dall'avvento di Berlusconi al governo) nei confronti dell'Euro oltre che dell'Europa. Non tale, tuttavia da far preferire l'uscita, anche se sono il sintomo di un possibile bottino di voti. Che il fenomeno debba preoccupare chi resta convinto che la prospettiva europea non abbia alternative, se non catastrofiche non è affare che possa riguardare il Cavaliere.
Sta di fatto che in termini assoluti non sono una quota rilevante, stando ai sondaggi. E che, senza ombra di dubbio, si tratta di una quota molto meno numerosa di quella che, nell'area dei Paesi “forti”, vorrebbe la separazione “per non accollarsi il peso dei debiti dei paesi spendaccioni”. Ma quale attrattiva può esercitare la prospettiva dell'uscita in un “paese spendaccione” come il nostro?


Le ragioni della destra anti-euro: stampare moneta a volontà. In nome della sovranità nazionale.
Dobbiamo qui distinguere il sentimento “anti-euro” di sinistra da quello di destra.
La variante di destra è questa: con l’ingresso nell’euro non si può sostenere la domanda nazionale stampando moneta. Lo fa la FED americana, lo fanno gli inglesi e le altre monete europee extra-Euro mentre a noi non è concesso. Si noti che in questa versione la svalutazione, conseguenza inevitabile della creazione di moneta, non è tenuta in nessun conto.
D'altra parte, la caduta della domanda interna, nell’impossibilità di una politica di deficit spending, porta alla recessione. Dunque dall'ingresso nell'euro deriva perdita di competitività (non si investe) e impoverimento delle famiglie.
Il salto logico, oltre che nell'ignorare la svalutazione, è nascosto nella premessa, secondo cui la devoluzione del potere di battere moneta a Francoforte ha come conseguenza obbligata (priva di alternative) l’impossibilità di una politica di sostegno alla domanda per via di investimenti pubblici (anche in deficit). Ma non è così ed è di questo che occorre invece parlare.

Soffia un venticello anti-euro anche a sinistra. Stormir di fronde.
Intorno all’uscita dall'euro circolano anche a sinistra, sussurrati, alcuni ragionamenti. Diversi, ma basati su una premessa non troppo distante: con l’ingresso nell’euro non è più consentito recuperare competitività svalutando la moneta.
L'attenzione sembra spostarsi più sulla convenienza che una svalutazione della moneta può presentare sul piano delle ragioni di scambio nell'export anziché sugli effetti di sostegno alla domanda interna. Ma la differenza più rilevante sta nella preoccupazione, che anima la “fronda” di sinistra, che la sola alternativa per recuperare competitività consista nello svalutare i salari: alternativa sbagliata e inaccettabile, che porta alla macelleria sociale e non garantisce altro che un recupero di competitività momentaneo e illusorio.
Resta dunque in fatto: che l'idea che l’ingresso nell’euro abbia portato macelleria sociale e perdita di competitività accomuna gli scontenti di destra e di sinistra. Ma è un'idea fondata?
Ma è davvero inevitabile una svalutazione dei salari se non si può svalutare la moneta?
Dov'è il salto logico? Il ragionamento poggia sul presupposto che la svalutazione della moneta non abbia che un’unica alternativa, ovvero la svalutazione dei salari, che preoccupa giustamente la sinistra (oltre alla caduta della domanda interna per una stretta fiscale, che spaventa la destra, su cui però non vado oltre).
Ora, se esistono invece alternative, che non passano per la svalutazione dei salari e consentono di sostenere la domanda (di consumo e di investimenti), allora i costi che i lavoratori stanno sopportando non derivano dall’euro ma dal fatto che non si perseguono le alternative corrette e si cerca soltanto il recupero di competitività tagliando sul costo del lavoro, sul salario.
Attenzione al pericolo che si nasconde dietro l'illogicità. Si fa credere che la scelta da fare consista nel soppesare pro e contro dell’uscita dall’euro dando per scontato che l’euro comporti quei costi (perdita di competitività e macelleria sociale). Tutto si risolve allora in una contabilità di svantaggi e benefici da porre a confronto con quelli che si avrebbero con l’uscita. Quando, viceversa, l’euro non comporta quei costi come inevitabili. Anzi. Occorre domandarsi se svalutando la moneta (una moneta nazionale debole) non si svalutino ancor più i salari. E se stampando moneta (nazionale, debole) non si sottraggano ancor più risorse alla destinazione auspicabile, di sostegno alla domanda. La risposta dovrebbe essere evidente.

Ovvero, ci viene imposto di farlo, senza che si possa seguire un'altra via?
Ma, si sente argomentare (a bassa voce) a sinistra, se chi comanda in Europa non ci permette di seguire strade alternative a quella della compressione dei salari, siamo costretti, per NON uscire dall'Europa, a uscire dall'Euro. E' l'unico modo per adottare una soluzione keynesiana avendo riacquistato sovranità monetaria. Mi scuso per la sintesi un po' rozza ma spero in compenso sia chiaro il tema. Ora, è da dimostrare che, anche nell'assetto politico dell'Europa attuale, non siano praticabili, per impedimento politico esterno, politiche di sostegno della domanda aggregata, pur con un fiscal compact che è tutto il contrario del deficit spending di classica memoria.
Non è dimostrato che sia così. Il punto è però, a mio avviso, ancora un altro. Perché la spesa pubblica in deficit non si traduca in pura inflazione, che colpisce comunque i redditi da lavoro senza aiutare l'economia a riprendersi, sono necessarie due condizioni.
La prima, banalmente, è che quella spesa alimenti (direttamente o tramite aumento dei consumi finali) investimenti capaci di generare aumenti di produttività. Di sistema, non certo soltanto in termini di valore aggiunto per ora lavorata, ciò che rinvia, insieme al tema dell'ammodernamento del sistema produttivo, a quello delle riforme, come si diceva un tempo, strutturali: giustizia, credito, fisco, pubblica amministrazione, diritto societario, servizi e public utilities, ecc. ecc.. Insomma, tutto il lungo elenco di fattori su cui le classifiche internazionali condannano il nostro paese alle retrovie.
La seconda, forse meno scontata anche se dovrebbe esserlo, è che i frutti della crescita, una volta tornati nella fase ascendente del ciclo, vadano a ripagare il debito.
Il nostro Paese è mancato a entrambi gli obblighi.
Non possiamo nascondercelo, anche se dovrebbe essere del tutto chiaro che non sarà mai un motivo sufficiente per essere oggi condannati alla recessione e a far pagare il peso della crisi a chi ne ha meno colpe.
Per il nostro Paese è ora di uscire. Non dall'Euro, ma dalla storia degli ultimi trenta anni. Finalmente
Il fatto è che, Europa o non Europa, Euro o non Euro, Euronord o Eurosud, dobbiamo imboccare un'altra strada rispetto a quella che i rappresentanti politici che il nostro popolo ha eletto hanno percorso in tutti questi anni. E non parlo solo degli ultimi anni perché è la storia che si trascina dalla fine degli anni Settanta, quando è stata data una soluzione autoritaria e classista (contro il lavoro) alla crisi sociale che si era aperta durante il decennio precedente. Il processo non è stato lineare, ci sono state fasi in cui una linea “pro-labour” (come si dice nel resto del mondo) ha fatto capolino e ha portato anche qualche risultato. Sono stati anche i soli anni in cui l'economia è cresciuta e il debito è calato. Ma il trend di lungo periodo è stato quello.
Se ancora una volta, intendo dire in conclusione, la sinistra italiana si lasciasse abbagliare dalle ipotesi fantasiose prodotte dall'estremismo corporativo di una destra classista, perdendo di vista i fondamentali della questione, e si facesse irretire da uno sciagurato incantesimo, quello delle sirene anti-euro, perderebbe ancora una volta un appuntamento con la storia che il 1989 sembrava averci regalato per invertire quella tendenza e che è stato invece buttato alle ortiche.
Uscire dall'euro per non essere capaci di uscire dalla storia degli ultimi trent'anni sarebbe il tragico coronamento di una fase regressiva. Da cui invece la sinistra (non la destra moderata, che di quella fase è stata levatrice, né Monti che ne è pur sempre espressione) ha il compito storico di liberare finalmente il Paese.
 

martedì 25 settembre 2012

In ricordo di Nicola Trematerra


Nicola Trematerra ci ha lasciato troppo presto. 
Non ha fatto in tempo a vedere la sua Regione come aveva sempre desiderato vederla. Ma ha portato come pochi altri il suo sassolino perché potesse vederla il suo Raffaele. Lo ha fatto senza esibirsi, con tenacia, con passione, con una dedizione verso gli altri, i più deboli, che dovrebbe essere d'esempio per chiunque abbia questo ideale, di solidarietà e di giustizia.
Lo abbiamo pianto in tanti, domenica scorsa, a Fossalto. E ci siamo stretti intorno a Graziella, che lo porterà nel suo cuore. E a Raffaele, tenerissimo nel suo sgomento.
Che la CGIL non sia riuscita a trattenerlo è un fatto che mi ha sempre rattristato. Ma credo di poter dire, con cognizione di causa, che il suo apporto è stato fondamentale per Italia Lavoro spa, non solo nell'ambito del Molise. E soprattutto credo che molti lavoratori che si sono ritrovati nella posizione più difficile, espulsi dal posto di lavoro, abbiano incontrato in lui chi si faceva carico dei loro problemi. Non solo per promettere o per consolare, ma per costruire una soluzione efficace e percorribile. Con dedizione, con partecipazione sincera, oltre che con bonomia.
Per questo in tanti gli hanno voluto un gran bene. Per questo ha lasciato un vuoto incolmabile.
Per questo non sono riuscito a trattenermi dal dedicare qualche parola a questo grande amico. Anche se, per come l'ho conosciuto, credo che non avrebbe gradito questa pubblicità, questa mancanza di riserbo. Se non sono riuscito a farne a meno, dovunque tu sia, ti chiedo perdono.

venerdì 14 settembre 2012

Filiera. Territorio. Qualità. 2a parte


Riprendiamo il tema delle prospettiva Arena - Solagrital dal punto in cui lo avevamo lasciato nel post precedente.
Prima merita però un accenno, ancora una volta, la situazione Zuccherificio. Dall'incontro con le rappresentanze sindacali nazionali dello scorso 11 settembre sembra emergere la consapevolezza, da parte di queste ultime, della centralità del tema dei “distaccati” ritornati presso la “old-co.” (ovvero presso lo Zuccherificio del Molise spa). Attraverso questo problema si riescono a inquadrare nel complesso le prospettive dell'intera operazione concordato preventivo–newco–dismissione e si comprende se si stia lavorando a un possibile rilancio della filiera ovvero alla liquidazione, cioè ad un'operazione di carattere finanziario, con altri scopi. Stando al verbale dell'incontro, per quei lavoratori (rimasti attualmente in 28) si dovrà “prevedere il ricorso a tutti gli strumenti utili a gestire la fase di tutela e di piena occupabilità, verificando tutte le condizioni tecniche, organizzative e produttive possibili”. E' un significativo passo in avanti, quanto meno verso la consapevolezza di quale sia la strada da percorrere, che passa per soluzioni “tecniche, organizzative e produttive”. Non si parla, non a caso, di condizioni finanziarie, che per i 28 rimasti alle dipendenze dello Zuccherificio non hanno alcun senso. L'occupabilità implica una produzione in piedi, che trovi riscontro sul mercato. Quello deve rimanere l'orizzonte e i 28 non possono aspirare ad altro che a quello, che significa la salvezza della filiera e di tutti i suoi componenti.
Quanto all'altra filiera minacciata di estinzione, quella del pollo, abbiamo concluso il post precedente segnalando che il cerino è ora nelle mani della Regione.
Vediamo più da vicino che cosa significa.
Il concordato preventivo avviato per Arena Spa poggia tutto sull'accettazione da parte di Solagrital e quindi (posto che il socio minoritario è Arena, che non può non approvarlo ma per evidenti motivi non ha voce in capitolo) da parte del socio di maggioranza, la Regione.
Può rifiutare? Condannerebbe Arena, perdendo così i suoi crediti (quelli vantati da Solagrital e gli affitti). Salverebbe almeno Solagrital? No, perchè disgrega la filiera molisana. A monte, perché perde credibilità nei confronti degli allevatori “soccidari”, che già stanno migrando verso altri lidi (in particolare, per quanto mi consta, verso Aia); a valle perché perde il traino del marchio Arena ed esce quindi dai canali della Grande Distribuzione (o al più vi occupa posizioni del tutto marginali).
Dovrebbe perciò, quasi inevitabilmente, liquidare Solagrital. Lascio ad altri più ferrati di me l'onere di avanzare congetture sulla praticabilità di una soluzione che vedrebbe l'Ente Pubblico Regione portare al fallimento una sua partecipata. Potrebbe avanzare la richiesta di un concordato preventivo con qualche speranza di vederlo accolto dai creditori? Potrebbe sottrarsi, in caso di rifiuto, all'onere di soddisfare integralmente i creditori (non solo quelli privilegiati)? E, trattandosi degli allevatori soccidari, posto che ve ne fossero le condizioni legali, potrebbe sopportarne anche le conseguenze politiche?
Non mi sento di dare una risposta ma esprimo forti dubbi. Credo, in definitiva, che sia una situazione impercorribile a meno di un esborso della Regione che vada a coprire tutte le pendenze che gravano su Solagrital (senza rientrare dei crediti vantati verso Arena se non per le briciole). Per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Il deserto produttivo, lo smantellamento dello stabilimento di Monteverde e l'elemosina degli ammortizzatori sociali per le centinaia di lavoratori che vi operano, l'abbandono degli allevatori del Matese al loro destino, alla ricerca di qualche compratore in regioni distanti, a prezzi in caduta libera.
Non è un film dell'orrore, di pura fantasia. E' la conseguenza ineludibile di un fallimento, politico e sociale prima che economico.

L'alternativa dunque qual'è? Ripianare tutti i debiti con denaro pubblico e permettere alla ruota di continuare a girare?
C'è chi spera ancora che si possa fare. Basterebbe risolvere il (piccolo) problema di reperire quel denaro pubblico. Se qualcuno sa dove trovare un centinaio di milioni (è l'ordine di grandezza, dieci più o dieci meno) per salvare sia Arena che Solagrital con piena soddisfazione dei creditori, sia il benvenuto. Il gioco è fatto.
O forse no. Perché c'è da verificare che la ruota, riprendendo a girare, non continui ad accumulare quei passivi annui che sono stati registrati ultimamente. Se così non fosse, la ruota dovrebbe girare a carico (totale) delle casse della Regione. Ovviamente, nessun privato si farebbe carico di una “macchina” che produce perdite anziché utili.

Nessuna delle due soluzioni estreme è dunque percorribile. In mezzo c'è una strada stretta, che passa per alcuni punti fermi.
Il primo è la ricomposizione della filiera.
Arena e Solagrital sono ai ferri corti. Lo sono i due vertici, ma quello di Arena intende chiaramente farsi da parte non appena in Borsa si presenti un compratore che intraveda una via di rilancio. Quello di Solagrital ha rimesso il mandato, a partire dal rappresentante di Arena. Dunque il campo è libero.
E' qui dunque che la Regione è attesa alla prova. Non può sottrarsi, deve dimostrarsi capace di “reggere il cerino”, senza bruciarsi, perché non c'è nessun altro a cui girarlo. Deve rimettere insieme la filiera.
Le condizioni politiche per riuscire in questa impresa sono pesantissime per la Giunta Iorio. Perché non può più difendere la catena di comando con cui ha finora stretto un patto di ferro. Deve trovare un compratore. Arena è in Borsa, dunque l'operazione deve essere trasparente, i compratori saranno controllati da Consob e piccoli azionisti e dovranno dimostrarsi affidabili per il futuro, oltre a dover offrire condizioni credibili di rilancio. Con questi vincoli, nessun privato accetterà di farsi carico di chi ha alle spalle questa disfatta. Perciò la Giunta Regionale deve rinnegare la sua storia (e i suoi compagni di avventura).
Dubito che possa farlo ed è per questo che dovrebbe avvertire il senso di responsabilità di farsi da parte senza indugio. Il fallimento di Solagrital è il fallimento di questa Giunta. Ma una Giunta non porta libri in Tribunale. Questa, piuttosto, si è presentata in Tribunale per restare in carica e resisterà ancora fino al 16 ottobre. Qualcuno dovrà dunque sostituirsi alla Giunta nel gestire e portare a buon fine questa operazione. Sostituirsi, ribadisco, non dare una mano, che significa scendere a patti. Non ci sono patti percorribili. Non perché si debba essere spietati con gli sconfitti ma perché il mercato è senza cuore, si basa su calcoli, non su sentimenti. E' la politica che deve dare un'anima al mercato, torno a ripeterlo come nel post precedente, ma è a sua volta condizionata dalla sua dura aritmetica. Del dare e dell'avere.
Ricomporre dunque la filiera. Con un management nuovo. Con cui confrontarsi sulle condizioni politiche, che la Regione, parte pubblica e perno di tutta l'operazione, deve porre in termini inderogabili (pur nel rispetto dei vincoli di bilancio).
E veniamo dunque al cuore del problema. La filiera non può che essere ricomposta sul territorio. A chilometri zero, come si usa dire oggi.
Diciamolo con altre parole. Chi compra il marchio Arena non può andare comprando i polli, su cui applicarlo, in giro per il mondo. Né può appiccicarlo su polli che già produce da qualche altra parte. Deve vendere prima di tutto, con quel marchio, i polli prodotti nel Matese. Che significa, allevati nel Matese e macellati a Monteverde di Boiano.
Ne consegue, per un calcolo economico elementare, che deve riacquistare lo stabilimento e stipulare in prima persona i contratti di soccida. E che Solagrital deve essere liquidata e venduta di nuovo ad Arena. Più esattamente, a chi avrà acquisito il controllo del pacchetto azionario di Arena investendo i capitali necessari.

E la storia dal '94 al 2000 che fine fa? Archiviata. Archiviata l'operazione della scissione, la polpa (i segmenti della filiera a maggiore valore aggiunto) al privato, l'osso (quelli a minore valore aggiunto, o privi del tutto di margini) al pubblico. L'astuzia di allora, congegnata per salvare la fetta molisana di Arena dal disastro veronese, ha retto per l'emergenza ma appena è stata trasformata in un meccanismo “a regime” ha mostrato tutta la sua fragilità, aviaria o non aviaria. Non ci può essere un segmento produttivo e uno che perde quattrini. C'è un ciclo di lavorazione che deve essere, nel suo assieme, improntato alla qualità.
Si può fare? Certo. E si deve fare. Nelle mani di chi ha l'esperienza e la competenza per farlo.

Che cosa significa?
Qualità degli allevamenti. Mangimi, la cui produzione del resto dovrebbe rientrare il più possibile nel ciclo “corto” della filiera; condizioni ambientali, interne agli allevamenti e verso l'esterno (emissioni e rifiuti); selezione dei caratteri.
Qualità della lavorazione, in tutte le fasi. Innovazione nei processi (i margini sono ristretti ma ci si deve aggiornare di continuo) e soprattutto nei prodotti, che possono apparire standardizzati ma offrono invece spazi sempre nuovi all'inventiva. Condizioni ambientali (come sopra), tracciabilità, trasparenza.
La strategia commerciale segue il percorso della qualità e ne trae forza. Si sviluppa poi secondo le sue logiche specifiche. I marchi sono più di uno, si può pensare di differenziare gli standard e quindi i target di mercato (e i prezzi) per non lasciare sguarnita nessuna fascia, dalle boutique gastronomiche fino ai discount. E ci si può rivolgere, senza paura di passare per visionari, ad un mercato estero in crescita, di volumi e di prezzi. Purché non si commetta l'errore di spacciare per pollo di qualità quello che si compra a poco sui mercati emergenti, né quello di svendere sotto costo, per pagare cambiali in scadenza, un pollo “dal sapore di una volta”, allevato nel rigoroso rispetto dei più elevati standard di qualità, “sputtanando” un marchio pregiato .

Non essendo un esperto di economia aziendale, so di essermi limitato a considerazioni non troppo originali. Ma avverto il dovere di metterle nero su bianco in una situazione in cui sembra essersi eclissato perfino il banale buon senso. E ne traggo spunto per toccare su un tema che è stato oggetto di considerazioni non banali da parte di analisti di tutto rispetto. Il tema è quello del modello di business su cui aveva impostato sin dall'inizio tutta la sua strategia Dante Di Dario, peraltro con buoni risultati iniziali.
L'idea guida, di fare del territorio d'origine il certificato di qualità del marchio per promuovere il prodotto in una fascia di mercato più alta e perciò più remunerativa era un'idea sballata, una pia illusione? Qualcuno l'ha definita come l'idea del “pollo fashion”, il pollo griffato, per stabilire un parallelo con la strategia commerciale di Tonino Perna all'Itierre. Ma se la definizione è senz'altro brillante, rischia però di svilire quello che merita invece, a mio parere, di essere salvaguardato in quella idea. Perché non è l'idea di una interconnessione tra qualità del prodotto e qualità del territorio che ha portato alla catastrofe, quanto l'incapacità di tener fermo a quella idea a causa dei presupposti su cui era stata costruita la scomposizione della filiera. A causa insomma della scelta di fare delle prime e seconde lavorazioni (se non anche delle terze) un segmento “bad” per riservare tutto l'investimento sulla qualità ai segmenti a valle, alla Newco Arena spa.
Al nesso territorio – qualità, per la filiera ricomposta, si può dunque tornare.
Occorre tagliare? I conti devono tornare, certo. Ma (qui parlo da economista del lavoro) non è alto il costo per ora lavorata (salvo che per qualche segmento in alto) e non deve dunque essere tagliato. Deve anzi tornare a crescere per allinearsi agli standard correnti. E' invece alto il costo per unità di prodotto, ma dipende da altri fattori. Troppe ore lavorate (poca produttività) per unità di prodotto e costi troppo alti delle transazioni intermedie.
Chiunque si sia avvicinato appena un po' a quel mondo sa perfettamente dove si annidano sacche poco produttive. E quali fattori pesano sulle transazioni intermedie. Il primo è un problema che si risolve da solo nel momento in cui si verifica un ricambio del management con acquisizioni dall'esterno (non da Marte, devono semplicemente essere esenti da condizionamenti, anche senza venire da lontano). Il secondo rinvia a quanto detto in precedenza sul rinnovamento di tutti i segmenti della filiera, a monte (allevatori) ma anche a valle (commerciali).
Occorre investire denaro pubblico? Non sto qui a fare i conti che starà all'oste fare una volta che il pranzo sarà stato ben cucinato. Dico però, senza il timore di essere contraddetto, che le risorse che la Regione deve mettere in campo sono soprattutto quelle politiche. Di indirizzo. Di cooperazione tra i soggetti coinvolti, istituzionali e non, collettivi e non (individui). Si devono coinvolgere i coltivatori (mangimi), gli allevatori, i lavoratori dello stabilimento, la “forza vendita”. E' questo che serve per rinnovare i segmenti della filiera e riportare il conto economico in equilibrio espandendo i volumi prodotti. Si deve fare marketing territoriale per attrarre investitori e promozione di immagine, del territorio e non solo del marchio. Compiti che la Regione dovrebbe assolvere in via ordinaria ma hanno assunto il carattere di impegni straordinari.

Infine un accenno agli investitori. Ci sono fondi di investimento (anche esteri, come i fondi pensione). Capitali investiti nel ramo, che sarebbero in grado di valutare le potenzialità della filiera molisana, pur sempre la più meridionale in Italia. Trovo però da riprendere e da non lasciar cadere assolutamente lo spunto che viene offerto da alcuni commentatori a proposito di forme di partecipazione dei lavoratori all'acquisto di quote, anche importanti, della società.
Non mancano le competenze, né le idee, né la passione civile, né la rettitudine. Mancano i capitali necessari? Ecco una sfida che dovrebbe sollecitare le migliori energie in campo finanziario. Non quelle speculative, ma quelle che hanno come ragione sociale il sostegno al capitale di rischio in imprese con buone potenzialità e patrimonio scarso (o nullo). Ci sono esempi anche molisani in questo campo. Potrebbero sentire un richiamo del cuore. Per mettere in moto il freddo calcolo, si intende. Orientandolo, però, anche col cuore.

venerdì 7 settembre 2012

SOLAGRITAL: Filiera. Territorio. Qualità.


Sono queste le parole chiave per dare una soluzione al vicolo cieco in cui è finita la Regione Molise. Riprendiamo il dossier Arena - Solagrital per cercare il bandolo di una matassa intricata. Ma è la politica che ha creato il disastro ed è la politica che deve voltare pagina. Prima possibile.

Arena-Solagrital, Zuccherificio. Due storie parallele: istanze di fallimento e procedure concordatarie, posti di lavoro in bilico, management aziendali nella tempesta, decine di milioni di euro dei contribuenti destinati a prendere il volo senza ritorno. Perché insistere su due storie disperate? Perché non allargare lo sguardo?
Ebbene, guardiamoci intorno: alla fine troveremo che in quei due simboli si riassume un intero paesaggio.

L'economia molisana è allo stremo. Ultimo bollettino di guerra, l'indagine Excelsior certifica che è la Regione in cui si registra la maggiore caduta percentuale dell'occupazione tra tutte le regioni d'Italia, per un saldo negativo del 2% tra assunzioni (previste) e uscite, quando la media per il Paese è di -1,1% e perfino il Sud e le Isole fanno meglio (-1,8%).




E' la crisi globale? E' la crisi italiana? Ovvio, ma se l'Italia va peggio di tutti nel mondo, il Molise va peggio di tutti in Italia. E' colpa degli imprenditori molisani, tutti incapaci? Non c'è motivo di pensare che ce ne siano più della media. Inutile girarci intorno, le responsabilità principali sono della politica (e dell'amministrazione, la cui guida spetta, nuovamente, alla politica). Che, quando ha messo le mani direttamente nelle aziende, dettando legge e ponendosi al di sopra delle regole del mercato, le ha condotte al disastro mentre ha abbandonato le altre a se stesse lasciando che fossero stritolate, in un mercato in cui avevano bisogno di essere aiutate per competere adeguatamente.
Non c'è contraddizione tra le due critiche. La politica non solo può ma deve interagire con il mercato per correggere le ingiustizie e le distorsioni che può produrre sul piano sociale. Non può contraddire quelle regole nei suoi fondamenti: detto con la massima banalità, la somma algebrica dei costi e dei ricavi non può non stare in equilibrio. Senonché il mercato non contempla tra le sue regole alcuna finalità esterna, motivo per cui appartiene alla politica il compito di indirizzare la dinamica economica secondo regole diverse da quelle imposte dal mercato (pur senza contraddirle). Verso fini trasparenti, espliciti, e chiari nel loro impatto economico (sui conti del dare e dell'avere). Finalità sociali, quindi, rivolte alla crescita del bene comune e alla sua sostenibilità nel tempo.
La politica molisana non ha assolto a questo compito. E' sotto gli occhi di tutti. Ha fatto tutto il contrario.
Ha sovrapposto alle leggi di mercato finalità private. Di potere: piccoli favori a tanti in funzione della conquista del consenso. Di affari: benefici lucrosissimi per pochi, purché fossero amici o capibastone. In modo non trasparente: per coprire la totale assenza di imparzialità. Stravolgendo le regole del mercato: lasciando che i conti non tornassero. A spese dei contribuenti: rendendo ancora più grave l'ingiustizia nei confronti di chi, oltre a subire il danno, pagandone le spese, veniva privato di un possibile beneficio.
Ecco dunque la centralità di quei due casi eclatanti. Perché è vero che non tutte le crisi riguardano le partecipate (e non tutte le partecipate si chiamano Zuccherificio e Solagrital). Ma anche quelle situazioni in cui si stanno soffrendo le difficoltà della crisi senza che la Regione ci abbia messo mano, in realtà chiamano in causa l'indifferenza o l'incapacità di fornire il supporto indispensabile che la politica è chiamata a dare per reggere la competizione globale.

E vale anche il ragionamento inverso. Solo se una nuova politica saprà dare soluzione ai due casi più corposi e più intricati si dimostrerà credibile anche per le altre crisi “da partecipazione” e sarà in condizione di creare lo spazio di intervento necessario per sostenere davvero il tessuto produttivo, nella sua estensione, con interventi sufficienti e perciò efficaci.

Mi scuserà il lettore questo lungo preambolo, che mi è sembrato necessario per giustificare l'attenzione “privilegiata” che dedico a questi due casi, nel momento in cui torno ad occuparmi di Solagrital, mentre resto in attesa di verificare gli sviluppi della vicenda Zuccherificio.
Su quest'ultimo mi permetto solo di ribadire quanto sostenevo nell'ultimo post a proposito della scelta operata, di tentare soluzioni puramente finanziarie. Quella strada non porta da nessuna parte e condanna a morte tutta la filiera, non solo lo stabilimento, compresa la Newco, se non si fanno tornare i conti. Per questo la vicenda dei “non trasferiti”, ora che è terminato il distacco alla Newco, mette a nudo tutta la debolezza della soluzione congegnata. Per questo la costituzione di un comitato di rappresentanza dei loro specifici interessi va salutata positivamente. Può essere la leva con cui rimettere tutta la questione con i piedi per terra, prima che finiscano tutti (non solo i ventisette) a gambe all'aria. E i primi che dovrebbero far sentire il loro appoggio ai ventisette rimasti appesi sono proprio i sindacati dei lavoratori agricoli e le rappresentanze di categoria dei coltivatori. Se si arroccano, pensandosi in posizione di forza, commettono un errore tremendo (che purtroppo oggi commettono in tanti).



Tornando a Solagrital, vorrei ripartire da dove ero rimasto a febbraio, quando parlavo di un vicolo cieco . Profeta fin troppo facile. Arena spa si è vista costretta a richiedere una procedura di concordato preventivo e per l'8 ottobre il giudice ha fissato l'adunanza dei creditori. Il management di Solagrital si è fatto da parte trasferendo alla Regione, socio di maggioranza, l'onere di una valutazione (disperata) circa le prospettive.

Guardiamo meglio nella situazione partendo da Arena. Trattandosi di una società quotata in Borsa, sotto la lente della Consob, basta far parlare le carte ufficiali. Per capire meglio in quali condizioni affronta il concordato preventivo credo si debba partire dal piano industriale che accompagna il concordato preventivo prendendo le mosse da quello che l'Azienda aveva predisposto appena un anno fa (approvato il 30/4/11 e aggiornato nel mese di ottobre 2011) per tentare il risanamento. Quel Piano (2012-2015), che riproduco in sintesi in uno sforzo, tuttavia, di completezza, prevedeva una serie di accordi e di misure da porre in essere sui diversi aspetti:
-        patrimoniali: conversione in capitale sociale del debito commerciale verso Solagrital (per 15 milioni), di quello finanziario verso JP Morgan (per 17 milioni) e di quello verso Logint (per 10 milioni) entro il 2011; aumento di capitale per almeno 34 milioni di euro entro 2 anni (poi stimati in 40 milioni a ottobre), attraverso un accordo con un fondo di investimento internazionale con sede a New York (GEM Investments America LLC)
-        finanziari: far fronte al deficit di capitale circolante netto (68,4 milioni di euro al 30/9/11), oltre che con le misure patrimoniali, anche attraverso il differimento dei debiti residui (al 30/6/12 quelli verso Logint, per 5 milioni, a fine 2012 quelli verso Solagrital/Regione Molise, per altri 5), la vendita a Solagrital di assets non strategici (1,5 milioni), l'aumento di capitale di Codisal in Solagrital per 1 milione (conversione di crediti), un aumento di capitale destinato al mercato (costituendo a questo fine un consorzio di garanzia)
-        economici, per un incremento del volume di affari ed un ritorno all'utile attraverso: recupero delle quote di mercato; riqualificazione dell'offerta di gamma attraverso il lancio di nuovi prodotti; sviluppo delle lavorazioni a maggior valore aggiunto (elaborati crudi, o terze lavorazioni, e cotti, o quarte lavorazioni); spostamento del mix tra prime lavorazioni (pollo intero) e seconde (parti di pollo) verso l'alta qualità; ribilanciamento dell’offerta all’interno dei canali di vendita tra Grande Distribuzione e dettaglio tradizionale; rilancio dell’immagine di marca, sfruttando il suo elevato potenziale (inespresso) anche attraverso investimenti di marketing; infine, incremento progressivo dei prezzi medi di vendita dei prodotti, fino al recupero di una copertura distributiva nazionale riorganizzando e potenziando la struttura di vendita e manageriale.

Non c'è bisogno di essere particolarmente esperti in economia aziendale per rendersi conto che in fin dei conti tutto il Piano reggeva sul presupposto di un accordo con Solagrital e dunque con il socio di maggioranza, la Regione Molise. Com'è andata è risaputo. Ce lo dicono le cronache e lo mette nero su bianco Arena spa nel momento in cui chiede il concordato preventivo: “soltanto Logint S.r.l. ha dato corso agli impegni assunti; diversamente, Solagrital ha ritenuto di non sottoscrivere l’aumento di capitale. Pertanto, è venuto meno uno dei pilastri del risanamento patrimoniale.” E non è tutto: “contestualmente, i nuovi prezzi di acquisto contemplati nel predetto accordo, che avrebbero consentito l’attuazione del piano industriale, non sono stati praticati, con la conseguenza che si è preferito interrompere le forniture per non aggravare la situazione finanziaria della Società (Comunicato Arena del 20/6/2012).

Di conseguenza, JP Morgan non ha assunto alcun impegno in ordine alla conversione del Prestito Obbligazionario in capitale e, quanto all'accordo con GEM (per il quale Consob aveva rilasciato il nulla osta alla pubblicazione), la Società ha ritenuto di non procedere all'esecuzione dell'aumento di capitale stante la situazione complessiva.
“Il venir meno di parte dell’auspicata ripatrimonializzazione della Società nel corso dell’esercizio - è sempre Arena a dichiararlo nel comunicato riguardante la richiesta di concordato preventivo - ha determinato un progressivo aggravarsi dello stato di crisi … risalente a pregresse gestioni.” Conclusione: “nel mese di dicembre 2011 sono state interrotte le forniture, già ridotte progressivamente nel corso dell’esercizio, al fine di evitare l’ulteriore peggioramento della redditività, anche in considerazione della risoluzione del contratto di somministrazione da parte di Solagrital. Tale situazione ha generato un drastico decremento dei volumi di vendita.”
Sono dunque queste le premesse che hanno portato alla procedura di concordato preventivo, che offre ai creditori una tutela molto ridotta ma, si presume, migliore di quella in cui potrebbero sperare come esito di una procedura fallimentare.
Più in dettaglio, posto che i creditori privilegiati devono essere saldati al 100% (ma vantano poco più di 1 milione di crediti di cui 0,5 già accantonati obbligatoriamente), agli altri creditori (“chirografari”) si propongono tre quote: 5% per la controllata Interfin (per 12,2 M€); 40% per Solagrital e GAM (per 31M€ ca.), in quanto “portatori degli interessi della filiera avicola molisana, nella cui direzione si proiettano gli sviluppi possibili del piano industriale”, pagabile in denaro (dalla sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte del mercato) o in conversione, totale o parziale, in capitale sociale di Arena; 20% per gli altri (JP Morgan e Logint, per 23M€), anche in questo caso in denaro o mediante conversione in capitale sociale.
Si tratta di un concordato preventivo in continuità. Ciò significa che si presuppone il riavvio dell'attività commerciale. Come?
Il nuovo piano (2013-2015) lo dice solo in parte. Le linee del precedente Piano quanto al rilancio della produzione e alla riconquista di spazi sul mercato non sono riprese. Restano sullo sfondo.
Si prospettano solo cessioni di assets non strategici, a valori asseverati da perizie, nonché – attenzione! - dei marchi di proprietà di Arena (cioè Arena Surgelati), oggetto di una proposta irrevocabile di acquisto da parte di un terzo investitore. Si ipotizza poi che, per effetto di quanto previsto nel concordato, la Società raggiunga un assetto patrimoniale sostanzialmente privo di debiti (e un patrimonio netto positivo per ca. 2,5M€), così da permettere di rifinanziare la ripresa delle attività produttive.
Inoltre, la cessione dei marchi di proprietà (valutati 3,65 M€ più IVA) sarebbe accompagnata dall’acquisto dei marchi di proprietà della controllata Arena Alimentari Freschi S.p.A. (“Naturicchi”, “Tu in cucina” e “Garbini”) a 3,17 M€ più IVA.
Ma rispetto al piano del 2011 la novità principale, su cui dovrebbe poggiare la sperata espansione commerciale, consiste nella costituzione di una Newco (vi ricorda qualcosa?) alla quale verrebbe concesso l’uso dei marchi che resteranno di proprietà, dietro pagamento di una royalty annua, ipotizzata al 2% del fatturato netto annuo generato. L’attività preparatoria dovrebbe essere avviata immediatamente, prima della fine del 2012, per poter disporre già al momento dell'avvio, all'inizio del 2013 appena approvato il concordato, di tutti gli elementi necessari per un rilancio sul mercato di Arena. Unico accenno agli aspetti economici, ripreso dal piano precedente, lo sviluppo dei marchi attraverso i canali della Grande Distribuzione, del dettaglio tradizionale dei discount, “intercettando i consumatori di diverse fasce di mercato... avvalendosi dei rapporti e dell'esperienza pluriennale maturata.”
Infine, si procederebbe alla ristrutturazione del Gruppo Arena, valutando l'ipotesi di liquidare le controllate (Arena Alimentari Freschi S.p.A., Codisal s.r.l. e Interfin S.p.A.), considerando che, “ragionevolmente” non ne deriverebbero riflessi negativi sulla realizzabilità del piano.
Torniamo al punto precedente. Non posso che ripetermi: non c'è bisogno di essere particolarmente esperti in economia aziendale per rendersi conto che anche questo Piano regge sul presupposto di un accordo con Solagrital e dunque con il socio di maggioranza, la Regione Molise.
Che ne pensa Solagrital? Ce lo dice il CDA, che ha provveduto a predisporre a sua volta un Piano Industriale 2012-2016, a supporto di un progetto di concordato preventivo che non ha tuttavia ancora deliberato di presentare. Il motivo è presto detto: il fabbisogno minimo è stimato in 22 M€ (di cui circa 10 per estinguere i debiti e il restante per ricostituire il capitale circolante necessario alla continuità aziendale) e, non essendo probabile che il Socio Arena possa sottoscriverne la sua parte, il CDA rimette doverosamente la decisione nelle mani del socio di maggioranza, cioè della Regione. Che, peraltro, per il solo avvio della procedura concordataria dovrebbe metter mano al portafoglio per almeno 6 M€ (prededucibili, si intende!) entro e non oltre – si badi bene! - il 10-09-2012. Senza di che (sembra un destino che quando si tratta di battere cassa alla Regione la scadenza sia sempre “prima di subito”), è inevitabile la liquidazione.
C'è poi un piccolo particolare. Il consigliere delegato, espressione del Gruppo Arena, si è dimesso senza attribuire ad altri le deleghe. La sua sostituzione spetta, in base ai patti parasociali, al Gruppo Arena. Ne consegue che l'intero Consiglio di Amministrazione si è trovato a dover chiedere il commissariamento, unica soluzione per uscire da questo intrico essendo “alquanto improbabile” che con il Gruppo Arena si possano rinegoziare i patti parasociali.  
Fine della fiera. Il cerino è in mano alla Regione. Che fare?
A costo di risultare monotono, risponderei innanzi tutto: fare i conti.
E i conti partono dalla proposta di concordato Arena: Solagrital dovrebbe rinunciare al 60% del suo credito scommettendo per il restante 40% sulla ripresa di Arena. Dunque il fabbisogno per estinguere i debiti salirebbe (tra rinuncia a crediti e aumento di capitale Arena) da (almeno) 10 a (almeno) 40 milioni.
Anche lasciando perdere per un attimo la parte destinata al circolante per la continuità dell'attività di macellazione e lavorazione di Solagrital, questa è la cifra necessaria a evitare la liquidazione di Solagrital e di Arena. Liquidazione che ricadrebbe tutta sulle spalle dei creditori ultimi di Solagrital, ovvero sugli allevatori soccidari, che si dovrebbero accontentare delle briciole, e sui lavoratori che, visti soddisfatti i loro crediti privilegiati al 100%, sarebbero però mandati a casa.
C'è un'altra strada? L'alternativa, 40 milioni o una tragedia sociale, è secca, senza scampo?

Non sta a me dare una risposta a questa domanda. Non intendo però fermarmi qui, a metà del guado. Perché mi sono fatto l'idea, per quelle che sono le mie informazioni e le mie competenze, che si possa fare più e meglio. Che una buona politica potrebbe mettere in campo risorse anche più preziose dei 40 milioni. Che dovrebbe, anzi, farlo. Perché, se tutto resta com'è attualmente, neanche i 40 milioni potrebbero salvare la filiera, e con essa il territorio che ne trae ricchezza.
Sulle possibili soluzioni che, a mio modesto avviso, possono essere prese in considerazione voglio tornare in una seconda puntata. Non solo per non appesantire il lettore, già abbastanza provato, credo, dal percorso seguito fin qui, ma anche per verificare se vi siano in campo altre idee, prima delle mie. Magari migliori, come è probabile. Se qualcuno ha già fatto lo sforzo a cui mi sono esercitato anch'io e ritiene di poterlo rendere di dominio pubblico e sottoporre a condivisione.
Perché questa è una delle pre-condizioni, che intendo enunciare prima di chiudere questa puntata.
E' anzi la prima pre-condizione. Una buona politica deve partire dall'investire sulla sua risorsa fondamentale e più preziosa, la partecipazione, l'apporto dei soggetti a vario titolo interessati, individui e associazioni. Che significa anche condivisione, in un dialogo aperto e trasparente, nell'interesse dei molti e non dei pochi.
Un'altra pre-condizione è la salvaguardia del patrimonio immateriale: conoscenze, competenze, saperi, impersonati da chi ha investito energie in questa impresa, che non è uno stabilimento, o un marchio, o un gruppo, ma una filiera complessa, posizionata su un territorio vivo, da cui ha tratto nutrimento: materiale, ma anche, come è ovvio, immateriale. E il legame con il territorio è dunque duplice, le radici affondano nell'humus culturale non meno che in quello in senso stretto.
Per questo la filiera è una parola chiave e il territorio è il suo complemento ineliminabile. Da lì si deve partire.
Voltando però pagina, è l'ultima pre-condizione che mi sento di enunciare, quanto alla struttura di comando. Non si può mettere di nuovo al timone chi ha fatto fallimento.
Non è un inizio di pars construens, come sembra dare ad intendere Massimo Romano nell'ardore della denuncia, sacrosanta e condivisibile, di sprechi, inefficienze e violazioni di leggi e contratti. E' una pre-condizione, un ostacolo da rimuovere (da destruere) per costruire. Se ci si fermasse lì, se si rinviasse il tutto alla sede giudiziale la soluzione – quand'anche arrivasse – arriverebbe tuttavia, come suol dirsi, “a babbo morto”. Non è questo che può e deve fare la buona politica. Il suo mestiere è un altro, come mi sono sforzato di dire all'inizio. E allora la condizione del voltare pagina comporta anche, inevitabilnente (ma penso che il lettore l'avesse colto da un bel po'), che il Governo della Regione passi anch'esso in altre mani.
Il management Arena, dovendo rispondere al mercato e alla Borsa, è consapevole di dover solo garantire un approdo in un altro porto, in altre mani. Quello Solagrital, volente o meno (non posso saperlo) è stato costretto dall'intreccio delle responsabilità a farsi da parte. Chi ha sulle spalle le responsabilità principali non mostra invece di avere alcuna intenzione di cedere il passo. Ma l'appuntamento con il Consiglio di Stato e, sperabilmente il più presto possibile, con gli elettori potrà segnare il realizzarsi anche di questa pre-condizione.
Per fare che? Parliamone nel prossimo post.