lunedì 27 agosto 2012

L'incursione di Mauro e il pensiero debole della sinistra


L'editoriale del direttore di Repubblica, sulla matrice di destra della protesta anti-sistema, sta suscitando un aspro dibattito, che sfugge però ai temi di fondo che quell'articolo solleva, ai concetti “forti” con cui si rivolge a una sinistra “culturalmente debole e con scarso spirito di battaglia”. Propongo invece al lettore di cogliere l'occasione per prendere di petto quei temi tentando un esercizio di chiarezza, al di là delle forzature e delle semplificazioni.

  
L'onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra... Diversa dal berlusconismo ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca ... facendo di ogni erba un fascio in modo da legittimare il lanciafiamme che redima il sistema… Altro che guerra civile a sinistra. Siamo davanti a una nuova destra che insidia il campo "democratico" per la debolezza culturale e lo scarso spirito di battaglia della sinistra italiana … Finché questo equivoco finirà, e dopo la definitiva uscita di scena di Berlusconi la destra starà finalmente con la destra e la sinistra con la sinistra.”


In questi, che ho qui ripreso, ed in altri passaggi dell'editoriale sulla Repubblica del 24 agosto 2012 Ezio Mauro chiama e interroga la sinistra su concetti “forti”. Da cui si deve ammettere che, da qualche tempo, è prevalso l'uso di tenersi a debita distanza (la “debolezza culturale e lo scarso spirito di battaglia” credo alluda anche a questo).
A partire dalla definizione di sinistra, che Mauro azzarda quasi senza dare a vedere, ragionando “a contrario”, indicando ciò che manca alla destra (sensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza, e dell'emancipazione). Ciò che però dà un senso “forte” al lungo ragionamento è soprattutto l'auspicio conclusivo, che la destra torni a stare con la destra e la sinistra con la sinistra. Senza più quella destra - anti-politica prima che anti-berlusconiana - tracimata nel campo della sinistra. Ma anche senza, sembra di capire, il massimalismo che del riformismo è sempre stato nemico.
In mezzo, di passata, un presa di posizione sull'ontologia professionale di chi ha scelto il suo mestiere. Non deve proporre narrazioni ma dare strumenti per comprendere.

I commenti hanno sorvolato su questi temi “forti”. In genere l'attenzione è rimasta attratta dal dito, la querelle sul ricorso di Napolitano alla Consulta e, al più, salendo appena un po' di livello, il tema–tormentone dei rapporti tra potere politico (esecutivo, ma non solo) e giudiziario. Senza arrivare alla luna. Ed è anche da notare una certa reticenza, se non un silenzio assordante, sul fronte sinistro, che appare in imbarazzo (a parte quelli direttamente chiamati in causa dall'anatema).
Invece, pur non risultando agevole interloquire con un pensiero espresso così in sintesi e con molte ardite semplificazioni, l'occasione non andrebbe buttata via da una sinistra che ha in effetti bisogno di tornare a misurarsi con i grandi temi. Per parte mia tenterei perciò di proporre al lettore un esercizio in questo senso, ispirato soprattutto da un'esigenza di chiarezza, per andare oltre le forzature contenute nell'editoriale di Mauro senza perdere l'occasione per aggredire i nodi di cui tratta.

C'è, nel campo che si oppone alla destra “anomala”, berlusconiana, insieme alla sinistra che lo occupa naturaliter, anche un'area che appartiene, come matrice culturale, alla destra?
Questa tesi, alla base del ragionamento, mi sembra difficilmente confutabile. Se non altro perché nell'area cui si allude si ritrovano personaggi che della loro matrice non hanno mai fatto mistero (ed è per questo che Padellaro dimostra tanta comprensibile ira ma poco acume nel chiedere a Mauro “chi lo autorizza?”). Non mi riferisco solo a Travaglio ma allo stesso Di Pietro (democristiano di destra convinto e mai pentito), a Grillo (“né di destra né di sinistra”, locuzione appartenente al bagaglio tradizionale di un preciso filone della cultura di destra). E che dire del personaggio che meglio riassume quest'area, Scalfaro, i cui ultimi anni di vita sono stati segnati da una contrapposizione senza tentennamenti alla destra berlusconiana (che ne ha fatto un bersaglio-simbolo), dopo che per lungo tempo si era distinto per un conservatorismo collocabile nel lato destro della galassia democristiana?


C'è però un'omissione, tra le tante, nello scritto di Mauro che rende debole la conclusione che viene tratta da questo dato di fatto inconfutabile. Non viene spiegato se alla radice dell'invasione del campo, al di là della convergenza contro il nemico comune, non vi fossero più solide convergenze politico-culturali.
Senza farla troppo complicata, direi che non si è trattato né di una coincidenza né di un travisamento e che possiamo spiegare le ragioni profonde delle convergenze in base a uno schema semplice, classico. L'esercizio delle libertà politiche, poste appena un gradino più in alto di quelle civili, personali, poggia sui capisaldi dello stato di diritto, del consenso informato e del bilanciamento dei poteri. Quando essi sono messi a repentaglio, è negato all'origine l'accesso alla cittadinanza sociale, che è il tema chiave che distingue la sinistra. Ma ne risulta compromessa anche la libertà economica fondamentale per un imprenditore: misurarsi alla pari in un mercato aperto.
Sulla difesa dello stato di diritto e delle altre pre-condizioni della democrazia convergono dunque sia le dottrine politiche che individuano nel mercato il regolatore assoluto (da sottrarre perciò ai condizionamenti della politica), che si possono definire senza alcun dubbio come di destra, sia quelle, di sinistra, che sostengono la necessità di “azioni positive” che modifichino la dinamica spontanea del mercato per assolvere ai fini sociali che non è in grado di assolvere, in quanto ad esso estrinseci.
Se alcuni protagonisti della battaglia per l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (stato di diritto) sono stati reclutati dalla sinistra, o si sono convinti ad impegnarsi al suo fianco, pur dicendosi di destra, non c'è dunque alcuno scandalo, né c'è da pentirsene.
Basterà l'uscita di scena di Berlusconi per porre fine a questa convergenza? La conclusione appare davvero sbrigativa, se è vero che la scarsa considerazione per i principi alla base dello stato di diritto non è stata inoculata da Berlusconi nel corpo elettorale quanto piuttosto “sdoganata” (e solleticata, questo sì), non solo come base di consenso, in un elettorato in cui era assai diffusa, seppur allo stato latente, ma anche come stella polare per l'agire politico.
Dunque le ragioni di una convergenza possono andare oltre la fase contingente. Ma a quali condizioni? E chi deve “dare le carte”, cioè fissarle, come irrinunciabili?
Qui viene la parte più ricca di spunti, a mio parere, dell'editoriale, accompagnata tuttavia da qualche altra importante omissione.
Il tema da non lasciar cadere è quello dell'argine da opporre alla cultura della protesta contro la politica. Perché la sinistra nasce dalla piena affermazione della politica come luogo di risoluzione dei conflitti. Perché il primato della politica non è un'aberrazione tipica dell'armamentario comunista ma un segno distintivo della cultura di sinistra tout court. A quei liberisti che obiettano che per lo stesso marxismo classico è solo sovrastruttura, sottomessa alle regole che presiedono al funzionamento della struttura economico-produttiva che innerva il tessuto sociale, va ricordato che la sinistra moderna nasce proprio dal superamento di questo schema e dall'affermazione del primato della politica, nel momento in cui si prefigge di agire su quella dinamica per indirizzarla al raggiungimento di fini sociali ad essa estrinseci. La sinistra senza il primato della politica scompare e perde di senso.
Qui però si pone un'altra domanda chiave che Mauro elude. Quell'area che si dice “né di destra né di sinistra”, che vagheggia un autogoverno dal basso, di cittadini liberati della mediazione della politica, espressione del “volta per volta”, dell'interesse immediato della maggioranza, merita davvero di essere definita di destra? Perché?
La risposta è al centro dell'attenzione del dibattito politico attuale e chiama in causa la definizione di populismo. Se esiste un populismo di sinistra, in che misura è assimilabile a quello di destra? Non è l'evoluzione stessa della tecnologia che rende possibile una sempre maggiore informazione e quindi capacità di visione strategica dei cittadini? E un interscambio tale da consentire di registrare un pensiero (maggioritario) consapevole e “di vista lunga”, per ciò stesso refrattario alla manipolazione autoritaria?
La sfida, su cui Mauro sorvola pur ospitando nelle pagine interne del quotidiano contributi di grande interesse su questi temi, è questa. E quanto più l'informazione si sintonizza sulla deontologia che proprio Mauro caldeggia tanto più la sfida può rivelarsi alla portata e negare quindi il presupposto di partenza. Il movimentismo, l'assemblearismo, l'antiistituzionalismo, non sarebbero dunque più solo mascherature del populismo, cultura di destra perché fondata sull'autoritarismo, fino al dispotismo, perseguito da chi si appella al popolo senza mediazioni.
Non pretendo di dare una risposta ai dubbi, ma avanzo l'ipotesi che siano legittimi, in favore dei rei, o sospetti tali. Che forse siano perfino fecondi. E che tuttavia la condizione per lasciar spazio al dubbio in loro favore stia nella capacità dei movimenti dal basso di discernere e dunque di interagire con la politica democratica. Quella, per intenderci, che non sia soltanto “di sinistra” nel senso tradizionale (sarebbe un corto circuito logico piuttosto banale) quanto “aperta”. Nel senso della “trasparenza”, quella che preparò la fine della parabola sovietica. Del controllo dal basso, dell'espansione degli spazi di democrazia diretta e, sarei per dire, della concertazione (tema che apre però il complesso capitolo del ruolo, non sempre coerente con i principi di apertura e trasparenza, dei “corpi intermedi”).

Non è un'omissione da poco. E' anzi tale da poter cambiare il segno di tutto il discorso. Ma ce n'è un'altra che non si può tacere.
Se vale questo ammonimento sul fronte del populismo e del radicalismo di sinistra, quali argini devono essere posti nel confronto-dialogo che si instaura con la destra liberale fautrice del mercato?


Non sono certo meno importanti i “paletti” e le condizioni da porre su quel versante. E qui, per concludere, c'è un asino pronto a cascare. Se è vero che dietro le posizioni “né né” si può nascondere il populismo autoritario (di destra) è non meno reale il pericolo che posizioni lontane, e inconciliabili con la sinistra, si possano nascondere dietro l'etichetta del centrismo, che al “né né” si ispira tanto quanto i bersagli contro cui si rivolge Mauro. 
La destra con la destra? Non sono per regalare la destra “pulita” a quella populista e demagogica, ma le basi di un accordo non possono che essere quanto mai chiare. Altrimenti, anche rispetto al centro, la sinistra deve saper stare con la sinistra senza perdere la sua fisionomia, la sua anima, la sua ragion d'essere.

sabato 4 agosto 2012

Sarebbe ora di parlare dei problemi del Molise. E delle soluzioni che offre la politica.

L’informazione “non ci coglie”, sostenevo nel post precedente. Riprendo da lì, dopo la pausa di luglio.

Diminuiscono consiglieri, assessori e prebende.
Lo Zuccherificio del Molise affronta la prova del concordato preventivo.
Il Consiglio Regionale si adegua alle osservazioni del Governo sulla Finanziaria in materia di sanità.

Ma è sempre l’occasione per parlare d’altro. Quando sarebbe il momento giusto per emanciparsi dalla sudditanza verso la politica.
O, meglio, verso i politici, tanto esecrati ma sempre omaggiati!


Riprendo a postare dopo una pausa (forzata) a luglio in cui ho cercato di seguire la politica molisana attraverso i media.
Che fatica!

Stucchevole. Non so come meglio definire la cronaca politica molisana di queste ultime settimane. Fuorviante, anche. Di proposito o per sbaglio?

Non è una situazione normale per il Paese, lo è ancora di meno per il Molise. Si torna a votare, quasi certamente anche in Molise: destra contro sinistra, modelli di governo, schieramenti, proposte politiche e valori alternativi. Gli elettori devono scegliere il loro futuro. Perché parlar d’altro?

L’economia molisana è quella che ha pagato il prezzo più alto (come caduta del pil pro-capite) rispetto a tutte le altre Regioni d’Italia dall’inizio della crisi ad oggi, mentre le aliquote delle imposte sono le più pesanti.
E’ un dato di fatto. Eppure ci si continua a trastullare nell’idea che la politica non c’entri nulla. Si preferisce pensare che c’entri piuttosto la politica della Germania, su cui i cittadini molisani non hanno voce in capitolo. O quella dei paesi emergenti. O che dipenda tutto dalla finanza e dalle banche: viene un po’ da ridere a pensare che per qualche oscuro motivo se la prendano con i molisani più che con chiunque altro al mondo (Grecia esclusa, s’intende).

La situazione è quella che è, lo sappiamo, ne soffriamo. Ma in Molise è peggiore. E però, tutti insieme a far credere che la politica molisana riguardi qualcos’altro. Tutti, dunque, a cincischiare, occupandosi del mondo etereo e dei racconti “fantasy”. Con qualche eccezione? Gli operatori dell’informazione non sono tutti uguali? Ci mancherebbe! Ma a far nomi, su quanti si troverebbe d'accordo più della metà dei miei lettori?

Se si avesse anche solo il sospetto che la politica, per quello che ha fatto e per quello che non ha fatto, nel ruolo di governo o in quello di opposizione, c’entri qualcosa, non pensate che si dovrebbe essere molto attenti, rigorosi nei giudizi, informati?
Già, informati. E per un professionista dell’informazione l’informazione non si raccoglie ma si cerca. Almeno, se chi ha scelto di svolgere questa professione la considera, come altre non meno nobili, una missione, da assolvere al servizio dei cittadini – lettori (che saranno anche elettori). Io non mi considero tale, distinguo nettamente un professionista da un blogger. Ma da lettore che ha avuto a che fare molto da vicino con l’informazione mi permetto queste considerazioni e sono certo di trovare il consenso delle eccezioni di cui sopra.
MAX WEBER. LA POLITICA COME PROFESSIONE

Prendiamo qualche esempio qua e là, tra quelli che mi sono apparsi eclatanti.
La Corte Costituzionale ha bocciato i ricorsi delle Regioni contro la legge che riduce Consiglieri, Assessori e prebende.
Non pensate che questa notizia sia di qualche interesse? Potrebbe essere esaminata da vari punti di vista. Filosofico, perfino: quale filosofia ha ispirato questa misura? La logica dei tagli può andare a detrimento della democrazia, sostengono alcuni. Per altri il problema è restituire la parola ai rappresentati, più che continuare a tenere alto il numero dei rappresentanti. Se ne può discutere, no?
Potrebbe essere una ghiotta occasione per porre qualche domanda ai politici “di peso”: al Presidente della Giunta, al Presidente del Consiglio, al capo dell’opposizione, ovvero al capo dell’opposizione interna all’opposizione. “Deciderà il Consiglio Regionale di adeguare lo Statuto (già osservato dal Governo) alla legge?” “Lei pensa che questo Consiglio non sia legittimato a modificare lo statuto?” “Lei si è convinto fino in fondo che la Sentenza della Corte Costituzionale non lasci spazio e che se non si adegua lo Statuto comunque si eleggono 20 consiglieri?”. Confrontando le risposte (o i silenzi) si farebbe un servizio ai cittadini che chiedono di essere informati.
Con un po’ di mestiere, gratta gratta, magari potrebbe anche venir fuori che si stanno ancora cercando alibi o si stanno immaginando nuove “furbate”.

Ovvero, si potrebbe aiutare chi non l’avesse letta, o chi trovasse il diritto poco digeribile, a capirne meglio il senso. Perché la sentenza respinge le censure di molte Regioni che avevano invocato, niente meno che, l’art. 117 della Costituzione. La Corte invece argomenta che la legge “fissa un limite al numero dei consiglieri e degli assessori, rapportato agli abitanti, lasciando alle Regioni l’esatta definizione della composizione dei Consigli e delle Giunte regionali … per garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il diritto di essere egualmente rappresentati”. Un principio fissato dalla Costituzione (art. 51) a cui gli statuti regionali devono necessariamente attenersi (art. 123 della Costituzione) perché il valore del voto degli elettori non risulti eccessivamente diverso da Regione a Regione.

Tema poco interessante? O tema troppo ingombrante? Scelga il lettore.
Per quello che mi riguarda, una convinzione ce l’ho. Buona la seconda.
Poco generosa con i politici molisani ma, soprattutto, molto preoccupante per quello che riguarda l’informazione. Perché sarebbe arduo sostenere che il tema della riduzione dei costi della politica non sia interessante. Che non abbia alcun rilievo la novità per cui il ruolo di consigliere non sarà più un “pro forma” per giustificare un regalino graziosamente offerto in cambio dei voti portati a chi governerà.
Dovranno lavorare, gli eletti. Impegnarsi a studiare i dossier, le leggi nazionali e la Costituzione, l’economia, il diritto, le “scienze della comunicazione” … Governare in quattro e legiferare in dieci (ovvero fare un’opposizione in sette) non è propriamente una passeggiata.
E poi, non basterà avere un’attività con un buon giro di clienti e distribuire pacche sulle spalle a destra e a manca per conquistare la simpatia e la riconoscenza degli elettori. Continueranno ad essere in tanti quelli convinti che votando un politico di professione non otterrebbero risultati migliori di quelli che può garantire “un amicone”, ma su una ventina di posti scarsi è probabile che i voti degli amici (o dei clienti) non bastino più. Positivo o negativo?

C’è anche un altro aspetto della sentenza che dovrebbe interessare i molisani. Alcune Regioni avevano obiettato che “il termine può essere rispettato solo laddove le modifiche non richiedano una revisione statutaria, per la quale è previsto un iter di approvazione suscettibile di richiedere tempi più lunghi”.
Vi ricorda qualcosa? Se ne potrebbe parlare, ad esempio, con quei consiglieri che hanno provato a portare all’approvazione una legge per restare in carica anche oltre lo scioglimento motivandola con la necessità di avere tutto il tempo per adeguare lo statuto alle nuove norme. Si potrebbe chiedere loro se per caso non pensino di aver fatto una figuraccia nazionale, visto che la Corte ha un po’ maltrattato questo argomento. Sei mesi bastano e avanzano, e se non bastano la legge è comunque imperativa.
E pensare che dietro quei Consiglieri - che sulla leggina che doveva rendere la poltrona, come si dice, “ultrattiva” e lo stipendiuccio “ultroneo” ci hanno anche messo la faccia - si erano mossi nell’ombra, tentando anche “inciuci”, fior di esponenti di Giunta, che non volevano sembrare complici ma soffrivano all’idea di dover lasciare l’amato scranno e le prebende connesse!

Il tema invece è rimasto confinato a qualche dichiarazione (due o tre) riportata quasi senza commento. Molto meglio cercare di scoprire chi pensa, alla luce della novità, di tirare lo sgambetto a chi; o quali piani coltiva il tale o il talaltro, in genere personaggi di secondo piano visto che quelli di primo piano  preferiscono resistere alla tentazione della “dichiarazione ossessivo-compulsiva”.

Un altro esempio. Si deve salvare lo Zuccherificio dal fallimento. Quando “si portano le carte in Tribunale”, come si usa dire, molti segreti vengono svelati, le “magagne” vengono alla luce e ci si fa un giudizio sul modo di operare della politica, di quelli che dobbiamo decidere se meritino di essere votati o meno.
E’ stato presentato un Piano Industriale, redatto da un Amministratore Delegato di cui è stata magnificata una grande esperienza in tema di dismissioni (è stato a fianco di Bondi in Parmalat) mentre un tecnico indipendente (un professore dell’Università della Calabria) ha dovuto “asseverare” (cioè garantire sulla propria parola di esperto competente) la bontà del Piano e la credibilità della richiesta di Concordato Preventivo, che fior di avvocati dovranno sostenere davanti al Tribunale di Larino e poi al cospetto dei creditori a cui dovranno proporre di rinunciare a parte di quanto legittimamente atteso.

Avete letto qualcosa al riguardo? Qualche analisi del contenuto? Capisco che l’economia aziendale e il diritto fallimentare non sono materie alla portata di tutti, ma un buon giornalista dovrebbe “addentare” l’osso e non mollarlo, facendosi aiutare da chi ne sa di più, chiedendo pareri, mettendo a confronto opinioni anche diverse. Stavolta poi c’è un politico (Frattura) che dovrebbe aver facilitato il compito intervenendo diffusamente nel merito, mettendo in evidenza nei particolari lacune di analisi, ambiguità di scelte e, quel che dovrebbe interessare maggiormente, inadempienze (non aver assicurato una prospettiva a tutti i lavoratori). Centotre lavoratori rischiano il posto di lavoro. Si meritano che il caso venga affrontato a dovere, o no? Nossignori. Non se ne parla. E’ più divertente, meno faticoso e in definitiva molto meno rischioso andare a caccia del “colore locale”, della dichiarazione roboante che si tiene alla larga dal concreto dei problemi. E per il merito? Affidarsi al classico giudizio dell’oste sul suo vino.
Da ultimo. Nei giorni scorsi il Consiglio Regionale ha discusso di Finanziaria. E’ un Consiglio “ultroneo”, come già detto. E’ stato tenuto in piedi grazie ad una legge ad hoc del 2002 (che preveggenza, Tommaso Di Domenico!) per garantire l’espletamento di atti obbligati, come il “recepimento” delle osservazioni del Governo alla Legge Finanziaria (cioè, mettersi in regola). Proprio il caso di oggi, dopo dieci anni!
E’ pur vero che una Regione senza Finanziaria è peggio di un’anatra zoppa, ha le mani legate e i rubinetti regolati col contagocce. Il Governo aveva bocciato alcune norme sulla sanità, ci si doveva adeguare e, in più, c’era da “ottemperare” all’obbligo assunto di sottoporre il Piano industriale dello Zuccherificio al Consiglio.
Dello Zuccherificio si è detto. Silenzio tombale. Avete avuto qualche riscontro sulla sanità? Che cosa non andava per il Governo. Quali conseguenze comportano le modifiche? E, già che ci siamo, perché i Consiglieri non hanno approfondito la situazione della sanità, tanto per dar conto ai cittadini dello stato delle cose e per aggiornare il dibattito sul da farsi, visto che in cima all’agenda della futura Giunta nella pienezza dei poteri ci sarà proprio questo tema?
Non interessa.
Si dirà: sono temi che non fanno vendere copie. Ma poi se si va a vedere quante copie vendono le testate molisane viene da ridere. Se pubblicassero la Divina Commedia a puntate, o l’opera omnia di Nietzsche, venderebbero di più.
No, non è quello il motivo.
E’ la politica che l’informazione la vuole così, diranno altri. Focherello. Ma gli editori indipendenti, le testate libere, i corsari dell’on-line? Perché subiscono, perché seguono la corrente?
Sostiene qualcuno che sarebbe una notizia molto più saporita se il centro-destra e il centro-sinistra regalassero la sorpresa di non riproporre la sfida tra Iorio e Frattura. Perché non ricamarci sopra? Potrei essere d’accordo, se fosse una notizia: peccato che non lo sia. Per farla diventare una notizia si deve lavorare molto di fantasia. Che non è propriamente il mestiere di un professionista dell’informazione.
Certo, non si deve fare molta fatica per trovare qualche politico che abbia bisogno di avallare come notizia quello che non lo è, per i suoi fini (manco tanto reconditi, il più delle volte). Fa il suo mestiere, niente da obiettare. Lui, il politico. Ma un professionista dell’informazione non dovrebbe limitarsi a registrare un comunicato. Non dovrebbe intervistare senza fare domande, offrendo solo l’assist necessario alle risposte preordinate.
Oppure, fa più notizia l’eventualità di una presenza di altri contendenti? A me non pare. E’ proprio il cane che morde l’uomo, sanno tutti che ce ne saranno certamente, a partire da qualcuno del Movimento 5 stelle: si sente fare il nome di Antonio Federico, mi sembra più che plausibile (senza che si tratti di una novità), anche se in quel campo, per le modalità che adottano nella scelta, non è consigliabile arrischiarsi oltre il giusto. Qualche centrista? Qualche scontento da una parte o dall’altra? Non avrei il minimo dubbio che ci possano essere. E’ questa la notizia di maggiore interesse?
Forse, tra la caccia alla dichiarazione del presunto candidato (di qua, di là o né qua né là) e l’inchiesta approfondita, anche cattiva, sulle idee che hanno i due principali contendenti, sulle emergenze da affrontare e sul programma dei primi cento giorni, confesso che mi sembrerebbe un po’ più interessante la seconda.
Invece si preferisce intasare la cronaca politica con gli aspri duelli. Con le dichiarazioni di fuoco di chi riteneva fosse meglio per l’opposizione votare contro la Finanziaria contenente il ripristino dei vitalizi, su cui tutta l’opposizione ha votato contro, unita (questa, sì, una notizia!) piuttosto che uscire dall’aula per segnare l’illegittimità dell’emendamento sui vitalizi, introdotto furbescamente fuori sacco e contro la legge del 2002, senza invalidare l’insieme del provvedimento che modifica le altre norme. Un dilemma di squisita natura politica che scuote le coscienze dei cittadini che capiscono che su questo tema si gioca la prospettiva di una sinistra di governo per il prossimo quinquennio. Una risata dovrebbe sommergere queste dichiarazioni, e invece no …
Oppure, si rincorrono estenuanti botta e risposta sulle nomine. Tra chi ritiene più efficace un comportamento “come se” si fosse già votato e si fosse al governo e chi ritiene che sia saggio dissociarsi in sede politica da chi si adegua e pensa di trarre vantaggio dalle norme attuali (e dal quadro politico) ma poco saggio rompere con il voto l’unità della coalizione non potendo peraltro impedire che l’atto si compia. Discussione interessante in punta di teoria, sui rapporti tra politica e etica, ma quanto mai oziosa se spacciata per dilemma nuovo e mai affrontato o, peggio, se presa a pretesto per giochi di schieramento che pochi capiscono e ancor meno tollerano.

Sbaglio? Agli amici del mondo dell’informazione che non pensano che stia prendendo una cantonata vorrei chiedere di battere un colpo. Se poi le loro vendite, o i loro contatti unici, crolleranno, ci vedremo in qualche convento per un ritiro spirituale di meditazione. Altrimenti saranno un cuneo nel potere malato che sta decadendo lentamente in questa regione.