L'editoriale
del direttore di Repubblica, sulla matrice di destra della protesta
anti-sistema, sta suscitando un aspro dibattito, che sfugge però ai
temi di fondo che quell'articolo solleva, ai concetti “forti” con
cui si rivolge a una sinistra “culturalmente debole e con scarso
spirito di battaglia”. Propongo invece al lettore di cogliere
l'occasione per prendere di petto quei temi tentando un esercizio di
chiarezza, al di là delle forzature e delle semplificazioni.
“L'onda
anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che
noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni
che sono oggettivamente di destra... Diversa dal berlusconismo ma
sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale
sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità
sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e
dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per
la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una
cosa sporca ... facendo di ogni erba un fascio in modo da legittimare
il lanciafiamme che redima il sistema… Altro che guerra civile a
sinistra. Siamo davanti a una nuova destra che insidia il campo
"democratico" per la debolezza culturale e lo scarso
spirito di battaglia della sinistra italiana … Finché questo
equivoco finirà, e dopo la definitiva uscita di scena di Berlusconi
la destra starà finalmente con la destra e la sinistra con la
sinistra.”
In
questi, che ho qui ripreso, ed in altri passaggi dell'editoriale
sulla Repubblica del 24 agosto 2012 Ezio Mauro chiama e interroga la
sinistra su concetti “forti”. Da cui si deve ammettere che, da
qualche tempo, è prevalso l'uso di tenersi a debita distanza (la
“debolezza
culturale e lo scarso spirito di battaglia” credo
alluda anche a questo).
A
partire dalla definizione di sinistra, che Mauro azzarda quasi senza dare
a vedere, ragionando “a
contrario”,
indicando ciò che manca alla destra (sensibilità
sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza, e
dell'emancipazione). Ciò che però dà un senso “forte” al lungo
ragionamento è soprattutto l'auspicio conclusivo, che la destra
torni a stare con la destra e la sinistra con la sinistra. Senza più
quella destra - anti-politica prima che anti-berlusconiana -
tracimata nel campo della sinistra. Ma anche senza, sembra di capire,
il massimalismo che del riformismo è sempre stato nemico.
In
mezzo, di passata, un presa di posizione sull'ontologia professionale
di chi ha scelto il suo mestiere. Non deve proporre narrazioni ma
dare strumenti per comprendere.
I
commenti hanno sorvolato su questi temi “forti”. In genere
l'attenzione è rimasta attratta dal dito, la querelle sul ricorso di
Napolitano alla Consulta e, al più, salendo appena un po' di
livello, il tema–tormentone dei rapporti tra potere politico
(esecutivo, ma non solo) e giudiziario. Senza arrivare alla luna. Ed è anche da notare una certa reticenza, se non un silenzio assordante, sul fronte sinistro, che appare in imbarazzo (a parte quelli
direttamente chiamati in causa dall'anatema).
Invece,
pur non risultando agevole interloquire con un pensiero espresso così
in sintesi e con molte ardite semplificazioni, l'occasione non
andrebbe buttata via da una sinistra che ha in effetti bisogno di
tornare a misurarsi con i grandi temi. Per parte mia tenterei perciò
di proporre al lettore un esercizio in questo senso, ispirato
soprattutto da un'esigenza di chiarezza, per andare oltre le
forzature contenute nell'editoriale di Mauro senza perdere
l'occasione per aggredire i nodi di cui tratta.
C'è,
nel campo che si oppone alla destra “anomala”, berlusconiana,
insieme alla sinistra che lo occupa naturaliter,
anche un'area che appartiene, come matrice culturale, alla destra?
Questa
tesi, alla base del ragionamento, mi sembra difficilmente
confutabile. Se non altro perché nell'area cui si allude si
ritrovano personaggi che della loro matrice non hanno mai fatto
mistero (ed è per questo che Padellaro dimostra tanta comprensibile
ira ma poco acume nel chiedere a Mauro “chi lo autorizza?”). Non
mi riferisco solo a Travaglio ma allo stesso Di Pietro (democristiano
di destra convinto e mai pentito), a Grillo (“né di destra né di
sinistra”, locuzione appartenente al bagaglio tradizionale di un
preciso filone della cultura di destra). E che dire del personaggio
che meglio riassume quest'area, Scalfaro, i cui ultimi anni di vita
sono stati segnati da una contrapposizione senza tentennamenti alla
destra berlusconiana (che ne ha fatto un bersaglio-simbolo), dopo che
per lungo tempo si era distinto per un conservatorismo collocabile
nel lato destro della galassia democristiana?
C'è
però un'omissione, tra le tante, nello scritto di Mauro che rende
debole la conclusione che viene tratta da questo dato di fatto
inconfutabile. Non viene spiegato se alla radice dell'invasione del
campo, al di là della convergenza contro il nemico comune, non vi
fossero più solide convergenze politico-culturali.
Senza
farla troppo complicata, direi che non si è trattato né di una
coincidenza né di un travisamento e che possiamo spiegare le ragioni
profonde delle convergenze in base a uno schema semplice, classico.
L'esercizio delle libertà politiche, poste appena un gradino più in
alto di quelle civili, personali, poggia sui capisaldi dello stato di
diritto, del consenso informato e del bilanciamento dei poteri.
Quando essi sono messi a repentaglio, è negato all'origine l'accesso
alla cittadinanza sociale, che è il tema chiave che distingue la
sinistra. Ma ne risulta compromessa anche la libertà economica
fondamentale per un imprenditore: misurarsi alla pari in un mercato
aperto.
Sulla
difesa dello stato di diritto e delle altre pre-condizioni della
democrazia convergono dunque sia le dottrine politiche che
individuano nel mercato il regolatore assoluto (da sottrarre perciò
ai condizionamenti della politica), che si possono definire senza
alcun dubbio come di destra, sia quelle, di sinistra, che sostengono
la necessità di “azioni positive” che modifichino la dinamica
spontanea del mercato per assolvere ai fini sociali che non è in
grado di assolvere, in quanto ad esso estrinseci.
Se
alcuni protagonisti della battaglia per l'eguaglianza dei cittadini
di fronte alla legge (stato di diritto) sono stati reclutati dalla
sinistra, o si sono convinti ad impegnarsi al suo fianco, pur
dicendosi di destra, non c'è dunque alcuno scandalo, né c'è da pentirsene.
Basterà
l'uscita di scena di Berlusconi per porre fine a questa convergenza?
La conclusione appare davvero sbrigativa, se è vero che la scarsa
considerazione per i principi alla base dello stato di diritto non è stata inoculata da Berlusconi nel corpo elettorale quanto
piuttosto “sdoganata” (e solleticata, questo sì), non solo come
base di consenso, in un elettorato in cui era assai diffusa, seppur
allo stato latente, ma anche come stella polare per l'agire politico.
Dunque
le ragioni di una convergenza possono andare oltre la fase
contingente. Ma a quali condizioni? E chi deve “dare le carte”,
cioè fissarle, come irrinunciabili?
Qui
viene la parte più ricca di spunti, a mio parere, dell'editoriale,
accompagnata tuttavia da qualche altra importante omissione.
Il
tema da non lasciar cadere è quello dell'argine da opporre alla
cultura della protesta contro la politica. Perché la sinistra
nasce dalla piena affermazione della politica come luogo di
risoluzione dei conflitti. Perché il primato della politica
non è un'aberrazione tipica dell'armamentario comunista ma un segno
distintivo della cultura di sinistra tout court. A quei liberisti che
obiettano che per lo stesso marxismo classico è solo sovrastruttura,
sottomessa alle regole che presiedono al funzionamento della
struttura economico-produttiva che innerva il tessuto sociale, va
ricordato che la sinistra moderna nasce proprio dal superamento di
questo schema e dall'affermazione del primato della politica, nel
momento in cui si prefigge di agire su quella dinamica per
indirizzarla al raggiungimento di fini sociali ad essa estrinseci. La
sinistra senza il primato della politica scompare e perde di senso.
Qui
però si pone un'altra domanda chiave che Mauro elude. Quell'area che
si dice “né di destra né di sinistra”, che vagheggia un
autogoverno dal basso, di cittadini liberati della mediazione della
politica, espressione del “volta per volta”, dell'interesse
immediato della maggioranza, merita davvero di essere definita di
destra? Perché?
La
risposta è al centro dell'attenzione del dibattito politico attuale
e chiama in causa la definizione di populismo. Se esiste un populismo
di sinistra, in che misura è assimilabile a quello di destra? Non è
l'evoluzione stessa della tecnologia che rende possibile una sempre
maggiore informazione e quindi capacità di visione strategica dei
cittadini? E un interscambio tale da consentire di registrare
un pensiero (maggioritario) consapevole e “di vista lunga”, per ciò stesso refrattario alla manipolazione autoritaria?
La
sfida, su cui Mauro sorvola pur ospitando nelle pagine interne del
quotidiano contributi di grande interesse su questi temi, è questa.
E quanto più l'informazione si sintonizza sulla deontologia che
proprio Mauro caldeggia tanto più la sfida può rivelarsi alla
portata e negare quindi il presupposto di partenza. Il movimentismo,
l'assemblearismo, l'antiistituzionalismo, non sarebbero dunque più
solo mascherature del populismo, cultura di destra perché fondata
sull'autoritarismo, fino al dispotismo, perseguito da chi si appella
al popolo senza mediazioni.
Non
pretendo di dare una risposta ai dubbi, ma avanzo l'ipotesi che siano
legittimi, in favore dei rei, o sospetti tali. Che forse siano perfino fecondi. E che
tuttavia la condizione per lasciar spazio al dubbio in loro favore stia nella
capacità dei movimenti dal basso di discernere e dunque di
interagire con la politica democratica. Quella, per intenderci, che non sia soltanto “di sinistra” nel senso tradizionale (sarebbe un corto
circuito logico piuttosto banale) quanto “aperta”. Nel
senso della “trasparenza”, quella che preparò la fine della
parabola sovietica. Del controllo dal basso, dell'espansione degli
spazi di democrazia diretta e, sarei per dire, della concertazione
(tema che apre però il complesso capitolo del ruolo, non sempre
coerente con i principi di apertura e trasparenza, dei “corpi
intermedi”).
Non
è un'omissione da poco. E' anzi tale da poter cambiare il segno di
tutto il discorso. Ma ce n'è un'altra che non si può tacere.
Se
vale questo ammonimento sul fronte del populismo e del radicalismo di
sinistra, quali argini devono essere posti nel confronto-dialogo che
si instaura con la destra liberale fautrice del mercato?
Non sono certo meno importanti i “paletti” e le condizioni da porre su quel versante. E qui, per concludere, c'è un asino pronto a cascare. Se è vero che dietro le posizioni “né né” si può nascondere il populismo autoritario (di destra) è non meno reale il pericolo che posizioni lontane, e inconciliabili con la sinistra, si possano nascondere dietro l'etichetta del centrismo, che al “né né” si ispira tanto quanto i bersagli contro cui si rivolge Mauro.
La destra con la destra? Non sono per regalare la destra “pulita” a quella populista e demagogica, ma le basi di un accordo non possono che essere quanto mai chiare. Altrimenti, anche rispetto al centro, la sinistra deve saper stare con la sinistra senza perdere la sua fisionomia, la sua anima, la sua ragion d'essere.