Come reagire alla caduta dei redditi
di lavoratori e pensionati.
Occorre andare all’origine di questo
fenomeno drammatico in cui si riassume il declino del nostro paese: come è
potuto succedere?
Nella I parte si sono passate in
rassegna le risposte correnti a questa domanda.
La globalizzazione. Lo strapotere
della finanza. L’estrema destra al governo. L’opposizione debole e divisa. L’egoismo
degli imprenditori.
In questa seconda parte tentiamo di
andare oltre quelle risposte, facili e qualche volta di comodo. Proviamo a
domandarci se i sindacati potevano fare di più.
Rappresentanza. Unità. Partiamo da questo binomio, posto al
centro dell’articolo 39 della Costituzione. Questo articolo non è mai stato attuato. Sono ancora attuali le
ragioni che hanno portato a questa scelta? Quali prezzi ha comportato e comporta tuttora?
I REDDITI DEI LAVORATORI SCENDONO
INESORABILMENTE. CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?
Riprendiamo
in questa seconda parte il discorso sulla perdita progressiva di potere di
acquisto dei redditi dei lavoratori e
dei pensionati. Andiamo avanti ad interrogarci su come sia potuto
succedere.
Nella
prima parte abbiamo passato in rassegna le spiegazioni che vengono date
comunemente.
-
La
globalizzazione, invocata da due punti di vista: 1) per un deficit di democrazia
e di sovranità popolare indotto dalla capacità dei grandi poteri finanziari di
sfuggire ai vincoli della politica nazionale e di agire su scala globale 2) per
una sorta di teoria dei vasi comunicanti secondo cui cadute le frontiere tra i
mercati dei lavoro è in atto una sorta di livellamento che porta i redditi dei
paesi più ricchi ad avvicinarsi in discesa verso quelli, in crescita, dei paesi
emergenti.
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La politica
nazionale, che ha visto emergere, e prevalere negli ultimi venti anni, una
destra radicale che ha adottato una politica classista contro i lavoratori per
caricare sulle loro spalle il peso della competizione globale.
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La debolezza
dell’opposizione che non ha saputo attrezzare una risposta efficace e credibile
a questa strategia.
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La scelta corporativa
ed egoistica delle rappresentanze imprenditoriali che hanno promosso e
sostenuto la svolta autoritaria e classista emarginando e mettendo a tacere
quella parte, rivelatasi minoritaria, che si era attrezzata per affrontare la
competizione puntando sulla qualità dei prodotti e dei processi anziché sulla
compressione dei salari: una scelta miope che ha via via impoverito il ceto
medio, allargando la quota di meno abbienti, con l’effetto, oltre che di
aumentare le disuguaglianze e rendere sempre più intollerabile l’ingiustizia
sul piano sociale, di deprimere la domanda interna, condannando così il paese,
sul piano economico, a una lunga fase di recessione da cui non si vede ancora
una via d’uscita.
PARLIAMO DEI SINDACATI. POTEVANO FARE DI PIU’
PER DIFENDERE I REDDITI DEI LAVORATORI?
Ci
siamo infine chiesti se un giudizio analogo a quello dato per l’opposizione
politica, che non è riuscita ad attrezzare un’alternativa credibile alla destra
classista, non debba valere anche per i sindacati che non hanno impedito che la
deriva corporativa ed egoistica prendesse il sopravvento tra gli imprenditori.
Perché,
questo è ciò che dà da pensare, di fronte alla triste realtà che viene posta
sotto i nostri occhi, ogni giorno che passa, implacabilmente, della progressiva
caduta del reddito dei lavoratori, ci si dovrebbe aspettare che qualche leader
sindacale si ponga questa domanda e con severità e rigore si ponga questo
problema. Che non si accontenti di spiegare, di nuovo, chi è il colpevole ma si
sforzi di far capire che cosa farà da domattina, anzi dal minuto successivo,
per combattere con energia e con efficacia questa situazione.
Il
discorso potrebbe farsi lungo. Perché, come sempre, non esiste una soluzione
semplice per un problema così complesso. Perché non mancano le diagnosi, anche
lucide ed approfondite, del malessere del sindacato, ma sarebbe ingenuo
aspettarsi che se ne possa far discendere qualche terapia efficace allo stesso
modo, stringente e univoco, con cui – date certe condizioni - si risolve
un’equazione matematica.
Ricordiamo
in ogni caso le questioni più dibattute, oltre che più spinose. Credo siano
due, che ci riportano entrambe, strettamente connesse, alla Costituzione.
Il
tema della rappresentanza e quello dell’unità.
Perché
il dettato costituzionale è rimasto lettera morta. Attualmente, chiunque, una
volta costituitosi come sindacato, può stipulare accordi con le controparti a
prescindere dal suo peso organizzato e dalla sua rappresentatività. Invece, la
Costituzione richiedeva (art. 39) che “fossero rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti”
come condizione perché i contratti collettivi di lavoro da loro stipulati
avessero “efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle
quali il contratto si riferisce.”
La storia della mancata applicazione di questo
articolo della Costituzione (senza che fosse mai abrogato) occupa interi
scaffali nelle biblioteche. Le divergenze tra le confederazioni sono ancora
oggi profonde, anche se le ragioni che le hanno determinate, nel primissimo
dopoguerra, si sono dissolte più di venti anni fa con la caduta del Muro. Non è
la sede per affrontarle ma sta di fatto che nel nostro ordinamento non c’è uno
strumento chiaro ed efficace né per contrastare il sorgere di sindacati di
comodo né per garantire a tutti i lavoratori (“obbligatoriamente”) il minimo
salariale contattuale.
Il tema dell’unità, a sua volta, è strettamente
legato a quello precedente, fin dal passaggio della Costituzione appena citato,
che unisce in modo plastico i due termini (“rappresentati unitariamente”).
Certo, l’unità non si impone, neanche la Costituzione ha questo potere. Ma
all’inizio degli anni Settanta, benché il mondo fosse in piena guerra fredda,
sull’onda della più grande mobilitazione operaia della storia italiana l’unità
era stata posta all’ordine del giorno e inquadrata in un percorso con tappe e scadenze
precise. Anche sulle ragioni che hanno portato a congelare quel percorso esiste
una letteratura sconfinata. Meno indagate sono invece le ragioni che hanno
portato, in un tempo assai più vicino, da una situazione congelata nella
formula dell’unità d’azione (una formula, si badi, che aveva retto perfino
all’onda d’urto della vicenda scala mobile) ad una rottura aperta. Ed è solo
negli ultimi mesi, con l’avvento di Monti, che si riesce a cogliere qualche
timido segnale di riavvicinamento.
I SINDACATI E IL RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI E
CON LE FORZE POLITICHE.
Troppo viva la vicenda, ancora aperta la ferita,
per una esame di carattere storico. Ma un dato è difficilmente contestabile: le
ragioni della rottura riguardano l’interpretazione del ruolo del sindacato nei
rapporti con le istituzioni e con le forze politiche. Allora, una
considerazione si impone: il tema della rottura dovrebbe essere confinato nel
campo della tattica e come tale dovrebbe essere trattato, in una comune cornice
di riferimento rappresentata dal fine strategico, la tutela degli interessi dei
lavoratori. Perché se il tema della rottura assume, come sembra avere assunto,
un profilo strategico, addirittura dirimente, allora occorre chiedersi se le
confederazioni non abbiano mutato natura.
Non
solo. Se la “ragione sociale” alla base dell’esistenza di un sindacato è la
tutela degli interessi dei suoi rappresentati, nessuno può dubitare del fatto
che nessuna furbizia tattica, nessun disegno astuto e lungimirante, può mai
avere un’efficacia anche solo paragonabile a quella garantita dall’unità.
Marciare
divisi per colpire uniti? Ridicolo anche solo pensare di applicare questa
massima al sindacato. In ogni caso non è di questo che si tratta. Tutto il
contrario: perfino quando sembrano marciare uniti, sono pronti a dividersi nel
momento cruciale, quello in cui sono chiamati a colpire.
UN ESEMPIO ELOQUENTE. COME DIFENDERE I REDDITI E
LE PROSPETTIVE DI VITA DEI LAVORATORI PRECARI.
Non
vado oltre, sul tema generale. Anche perché per un “ex” suscita inevitabilmente
qualche imbarazzo. Ma c’è un aspetto, che può apparire circoscritto, che vorrei
tuttavia approfondire. Perché è comunemente assunto come tema centrale ma anche
perché, a mio parere, vi si può ritrovare un bandolo della matassa
aggrovigliata di cui stiamo parlando. Quasi un riassunto, un concentrato in cui
si specchia la situazione nel suo assieme. Parlo della difesa dei lavoratori precari.
So
bene che appena si accenna a qualcosa che assomigli al tema della divisione tra
“insider” e “outsider”, ovvero tra protetti e non, si drizzano le antenne. E’
vero che da questo fenomeno (che è tale: è un dato della realtà, non un
espediente dialettico) si è preso spunto per formulare proposte che suscitano
molte perplessità (uso volutamente un eufemismo). Non penso in alcun modo, per
essere chiari, che per tutelare meglio gli indifesi si debba abbassare la
guardia nella tutela dei più forti. Ma sono tuttavia convinto che se i più
forti non assumono con grande decisione la causa dei non tutelati e non si
rimboccano le maniche per dar loro tutto il sostegno di cui hanno bisogno, la
loro debolezza, crescendo, minerà alla radice anche le posizioni che oggi appaiono
più forti.
E’
una vecchia regola elementare che qualunque lavoratore apprende al momento in
cui assume il primo impegno sindacale: devi lottare per chi sta fuori e non
solo per chi sta dentro altrimenti la pressione di chi sta fuori ti taglierà le
gambe. Il vecchio Marx aveva spiegato la funzione dell’”esercito salariale di
riserva” e da allora non è che le leggi dell’economia (e della dinamica
sociale) siano cambiate granché. Ma, diciamo la verità, è una regola
dimenticata e disattesa nella pratica di ogni giorno.
Per
non abusare della pazienza del lettore mi fermo qui, per entrare nel merito con
qualche esempio concreto nella terza (ed ultima) puntata che seguirà a breve.