lunedì 7 maggio 2012

1 Maggio. Non è stata una festa. III parte


Come reagire alla caduta dei redditi di lavoratori e pensionati.
Per andare all’origine di questo fenomeno drammatico in cui si riassume il declino del nostro paese: come è potuto succedere?
Nelle due puntate precedenti si sono passate in rassegna le risposte correnti a questa domanda ma ci si è anche chiesti se i sindacati potevano fare di più. Se non aver attuato la Costituzione (art. 39) su rappresentanza e unità non abbia comportato un prezzo troppo alto. E se la rottura odierna attorno al rapporto con la politica non abbia contribuito a deprimere il potere contrattuale.
In questa ultima puntata si passa a un terreno concreto. Quello della difesa dei lavoratori precari. Per esaminare le ragioni di una iniziativa del tutto inconcludente.
E per immaginare un’alternativa. Possibile.

I REDDITI DEI LAVORATORI SCENDONO INESORABILMENTE. CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?

Concludiamo con questa terza puntata il discorso sulla perdita progressiva di potere di acquisto dei redditi dei lavoratori e dei pensionati.

Nelle precedenti puntate ho lamentato che non ci si domandi – almeno, non quanto sarebbe necessario di fronte a una tragedia sociale di questa portata - come sia potuto succedere ed ho passato in rassegna le spiegazioni che vengono date comunemente: la globalizzazione (lo squilibrio tra il potere della grande finanza, globale, e le politiche nazionali ovvero, secondo altri, il livellamento dei redditi da lavoro - per una sorta di legge dei vasi comunicanti nel mercato globale - tra paesi ricchi e paesi emergenti); la destra radicale al governo su scala nazionale (e europea) e la sua politica classista contro i lavoratori per caricare sulle loro spalle il peso della competizione globale; la debolezza dell’opposizione; l’egoismo corporativo delle rappresentanze imprenditoriali.
Ho poi sostenuto che non ci si può accontentare di queste risposte senza chiedersi anche se i sindacati abbiano fatto tutto il possibile per impedire questa deriva (se non altro, per portare gli imprenditori a giocare un altro ruolo).
Ho quindi affrontato, nella seconda puntata, il tema della perdita di potere contrattuale dei sindacati in relazione alla mancata attuazione della Costituzione (articolo 39) quanto a regolazione della rappresentanza e unità, con la conseguente assenza nel nostro ordinamento di un riconoscimento formale della validità erga omnes dei contratti. Cosicché attualmente chiunque, una volta costituitosi come sindacato, può stipulare accordi con le controparti a prescindere dal suo peso organizzato e dalla sua rappresentatività, laddove la Costituzione richiedeva che “fossero rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti” come condizione perché i contratti collettivi di lavoro da loro stipulati avessero “efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
In particolare, essendo assai complessa la storia della mancata attuazione di questo articolo della Costituzione, mi sono limitato a ricordare come, in un tempo più recente, sia stata accantonata perfino la soluzione con cui si erano congelati i rapporti tra i sindacati, riassunta nella formula dell’unità d’azione, che pure aveva retto all’onda d’urto della vicenda scala mobile, passando ad una rottura aperta (con qualche timido segnale di riavvicinamento solo negli ultimi mesi, contro il governo Monti).
Ho infine rimarcato che le ragioni della rottura riguardano l’interpretazione del ruolo del sindacato nei rapporti con le istituzioni e con le forze politiche. Dunque, un tema che dovrebbe appartenere alla tattica, mentre ha avuto il sopravvento sul fine strategico, la tutela degli interessi dei lavoratori. Non a caso, anziché marciare divisi per colpire uniti (come potrebbe avvenire se si trattasse di una rottura tattica), perfino quando sembrano marciare uniti, sono pronti a dividersi nel momento cruciale, quello in cui sono chiamati a colpire.

LA DIFESA DEI LAVORATORI PRECARI. TEMA CENTRALE, INIZIATIVA INCONCLUDENTE

In questa parte conclusiva mi sono ripromesso di approfondire un tema specifico per tentare di calare il ragionamento svolto fin qui in un contesto più concreto: la difesa dei lavoratori precari. Non solo perché è comunemente assunto come tema centrale ma anche perché, a mio parere, vi si può ritrovare un bandolo della matassa aggrovigliata di cui stiamo parlando. Quasi un riassunto, un concentrato in cui si specchia la situazione nel suo assieme.  
Parto dal presupposto, già enunciato nel post precedente, che non si debba commettere l’errore di pensare che la strada della difesa dei più deboli passi per una minore tutela dei più forti. Viceversa i più forti devono assumere con grande decisione la causa dei non tutelati e rimboccarsi le maniche per dar loro tutto il sostegno di cui hanno bisogno, altrimenti la loro debolezza, crescendo, minerà alla radice anche le loro posizioni attuali, come di fatto sta avvenendo.

E’ diffusa, nella cultura e nella pratica sindacale, questa convinzione? E’ ben radicata? Direi di no. Nella mia (alquanto lunghetta) esperienza sindacale mi sono trovato fin troppe volte a dover vincere una resistenza tenace, a cui corrispondeva un pregiudizio culturale molto tenace, su questo tema.
Non parlo della necessità di organizzare i disoccupati, difficili da intercettare. Certo, guardando le serie storiche del tesseramento ci si rende conto però di quanto debole sia lo sforzo in questa direzione. A questo riguardo, tuttavia, quella che colpisce è l’assenza assoluta di esempi di iniziativa generale, ampia, convinta, propositiva, dopo la stagione del Patto per il Lavoro con cui Di Vittorio inaugurò il nuovo corso del sindacalismo CGIL dopo la guerra.
Ma al di là del tema, più impegnativo, dei disoccupati, qui mi riferisco alle resistenze che ho incontrato ogni qualvolta si trattava di organizzare i precari, quelli impegnati all’interno stesso del posto di lavoro. C’è stata spesso da vincere una battaglia. Non potete immaginare quante volte mi sono sentito dire: “Non è il caso di dar loro la tessera, ‘ché potrebbero considerarla come una sorta di impegno per l’assunzione”. Paradossale, no?
Ebbene, credo proprio di poter dire che verso questa cultura, questa diffidenza, c’è stata come minimo condiscendenza da parte delle strutture sindacali di base ma anche disattenzione delle confederazioni, territoriali e nazionali.
Parlo, per esperienza diretta, della CGIL (ma le altre sigle hanno di che interrogarsi sugli errori commessi). Potrei portare un gran numero di esempi ma mi limito a citare solo il terremoto che ha sconquassato il mondo della sanità dall’inizio degli anni Novanta. Allora, quando doveva crescere negli ospedali l’offerta sia di servizi qualificati da parte di personale infermieristico sia di servizi “alberghieri”, senza far lievitare i costi, si è by-passato il vincolo contrattuale, relativamente oneroso, con un’invasione di cooperative sociali, il cui personale era sottopagato e soggetto al ricatto dei licenziamenti (con un tasso di sindacalizzazione, inevitabilmente, molto più basso). Ma non ne hanno pagato le conseguenze anche i dipendenti pubblici?

UN CASO CONCRETO. UN’ASSOCIAZIONE DI LAVORATORI PRECARI.

Le cose non sono cambiate negli ultimi anni. E’ stata forse adottata un’altra politica da quando la precarietà è diventata il centro di ogni discorso sul lavoro? Non credo. Per andare ancor più su un terreno concreto porto un esempio molto recente. Riguarda la vicenda della riforma del lavoro.
Prendo spunto dall’attività di un’associazione - si chiama “XX maggio-flessibilità sicura” - che si è costituita dal 2007 all’interno del Forum Lavoro del PD, con l’obiettivo di combattere la precarietà e di affermare una civiltà delle condizioni di lavoro anche nei contesti più flessibili.
Ha un sito Internet, promuove iniziative varie (convegni, manifestazioni, pubblicazioni) è presieduta da un “sindacalista di lungo corso” CGIL, oggi Consigliere presso il CNEL (Aldo Amoretti, già segretario generale dei tessili, del commercio) e annovera tra gli animatori più attivi un altro sindacalista, attivo presso il Dipartimento economico del Centro confederale (Davide Imola).
Per il tramite del Forum Lavoro questa Associazione ha indirizzato al Gruppo PD in Commissione Lavoro del Senato (che ha il compito di esaminare gli emendamenti) una serie di proposte di modifica del testo del Governo. Riguardano, in sintesi, l’introduzione di vincoli di qualifica (escludere tutte le mansioni esecutive) e di minimi salariali, cioè della contrattazione collettiva.
Vi è previsto un meccanismo di garanzia per ottenere questo risultato in modo certo e stabile: l’aumento delle aliquote contributive già previsto dalla riforma (buona idea, a condizione che il maggiore onere non si scarichi sui compensi) scatta solo dopo che un accordo collettivo avrà fissato i minimi salariali, con un tempo limite per raggiungerlo, passato il quale interviene il potere sostitutivo del Ministero del Lavoro.
Altri emendamenti riguardano l’estensione anche a questa categoria dei nuovi ammortizzatori sociali (Aspi) e dell’indennità di disoccupazione, l’allargamento della platea interessata, l’apprendistato, il trattamento di maternità per parasubordinati e autonomi, la mutualità integrativa per gli autonomi.
Che fine faranno questi emendamenti? Non so dirlo, non credo avranno vita facile. Ma quale mobilitazione fornirà il sostegno necessario? Quella di partito ha le caratteristiche (e i limiti) che sappiamo, l’Associazione potrà mettercela tutta ma sarà pur sempre una campagna di opinione. E i sindacati?

La CGIL, basta aprire la home page del sito per verificarlo, pone al centro in questi giorni proprio la preparazione della giornata nazionale di lotta contro la precarietà. Ottimo. Dunque si potrebbe immaginare che le strutture CGIL si stiano attrezzando per affrontare nei luoghi di lavoro una giornata di mobilitazione e di apertura di vertenze.
La mobilitazione dovrebbe servire per sostenere le modifiche al DDL sul lavoro. Se la si porta nei luoghi di lavoro si può intrecciare con un’iniziativa diretta, sul campo, per puntare a raggiungere accordi sul trattamento salariale dei parasubordinati. Tanto più dove questi sono impegnati a fianco dei lavoratori dipendenti e magari sono anche tesserati CGIL (vi sono posti di lavoro dove si sono fatti passi avanti rispetto alle chiusure che ho ricordato sopra).
Ma è così che sta andando? L’agenda delle iniziative preparatorie, fitta (se ne contano in questo momento un centinaio) prevede volantinaggi, presidi, assemblee comunali, qualche sciopero di zona (su vertenze territoriali generali). Le assemblee di luogo di lavoro sono una mezza dozzina, in due casi con sciopero (si può immaginare che la vertenza riguardi il lavoro precario). E’ anche questa, dunque, prevalentemente una campagna di opinione. Serve a sostenere una proposta politica. Ha lo stesso carattere della mobilitazione che può mettere in piedi l’Associazione XX maggio, sia pure con l’estensione e la capacità organizzativa di cui è capace una grande Confederazione sindacale.

Non è il solo limite. C’è un altro (piccolo?) particolare. La campagna non sostiene alcuna proposta specifica, concreta. Contiene solo una critica, radicale, dura, inflessibile, a tutto ciò che non va del DDL lavoro.
Direte, va bene lo stesso, anche se non serve a supportare una campagna su proposte precise e concrete, va nella stessa direzione. Però … c’è anche qui un però. Prendete allora il testo del documento CGIL di critica al DDL lavoro e esaminate le parti dedicate al lavoro precario, alla parasubordinazione. Le sei righe dedicate all’argomento definiscono l’obiettivo del DDL Fornero “lodevole” in quanto segna un’”inversione di tendenza apprezzabile” e tuttavia considera le misure previste “insufficienti”. E si porta come esempio proprio il fatto che “manca un vincolo ad un livello di reddito al di sotto del quale sia impossibile attivare le collaborazioni”. Si badi bene: non si indica l’esigenza di un minimo contrattato ma si richiede un minimo legale, per evitare “il rischio che l'aumento contributivo, giusto, si scarichi sui compensi dei collaboratori”. Conclusione, la critica dura (ad esempio sugli esodati) si ammorbidisce molto su questo tema.
Ho dato un quadro parziale? Chi fosse interessato può provare ad allargare lo sguardo ad altre iniziative in ambito CGIL. Visitare il sito di Nidil, che è l’organizzazione di categoria degli “atipici”, che raccoglie gli interinali e i parasubordinati. O quello dei Giovani CGIL organizzati attorno alla campagna “NON + DISPOSTI A TUTTO” e in particolare la loro piattaforma contro la precarietà. Una campagna dello scorso anno che non ha però avuto seguito. La sola traccia recente lasciata dai Giovani CGIL è il documento a loro firma “tutte le bugie sulla riforma del lavoro” completato da una guida alla riforma. Il quadro insomma non cambia.

TROPPO DIFFICILE TUTELARE IL LAVORO FRANTUMATO E INDIVIDUALIZZATO? UN ALIBI TROPPO COMODO

Spero che risulti chiaro il senso di questa parte conclusiva dedicata al sindacato (alla CGIL, con più precisione). Se a fatica si sta facendo qualche passo avanti per organizzare anche il lavoro precario, non si dà tuttavia un seguito allo sforzo organizzativo. Non sul piano dell’attivazione di vertenze strettamente sindacali per tutelare redditi e condizioni di lavoro nelle situazioni specifiche, concrete. Ma neanche su quello della individuazione di obiettivi politici, che richiederebbero quindi percorsi e strategie rivolte verso le istituzioni.
Anzi, si tengono rigorosamente le distanze da chi tiene rapporti all’interno dell’ambito istituzionale. Anche quando si tratta, come nel caso dell’Associazione XX maggio, di volti appartenenti all’album di famiglia. Non troverete una sola citazione di quell’Associazione in tutto il portale della CGIL.
Autonomia del sindacato dai partiti? Non scherziamo.

Non è facile, sento dire a discolpa. Il sindacato è per sua natura organizzazione di massa, non può farsi portatore che degli interessi comuni ai grandi numeri. Se il lavoro si frantuma e si individualizza, entra in difficoltà.
Non è anche questa una risposta facile? Che fa da alibi per non ricercare soluzioni difficili ma possibili?
Si provi a pensare questo: i grandi numeri premono per contratti collettivi da grandi numeri, quindi standardizzati, quindi regolati all’interno del quadro grande (“macro”) dell’economia. Per intenderci, per i grandi numeri ci vuole un accordo interconfederale (come quello con Ciampi nel ’93) che però, questo il suo difetto, finisce per essere, oltre che necessario, sufficiente. Fatto quello, quale altro compito spetta al sindacato? Il contratto nazionale si fa con la calcolatrice da tavolo applicando formule matematiche. Il conflitto distributivo finisce lì, il resto è, per dirla un po’ brutalmente, sceneggiata.
Paradossalmente, il sindacato si è salvato proprio grazie all’individualizzazione. Non fa più contratti collettivi, su quel piano fa solo grandi accordi di concertazione, però serve ai lavoratori e ai pensionati. Serve in quanto dà loro servizi. Individuali. Supplisce all’inefficienza dei front-office di Agenzia delle Entrate e INPS. Caso unico al mondo.
Siamo sicuri che lo sforzo organizzativo che serve per dare risposte agli individui precari, che non sono grandi numeri, sia davvero maggiore di quello messo in piedi per allestire Patronati e CAF? Serve però pensiero strategico.
Infine. Alla rinuncia a rappresentare i precari perché dispersi e frantumati fa riscontro (già da molto più tempo) quella a rappresentare le professioni (quelle con rapporto di subordinazione, intendo), le competenze elevate, gli specialisti. E poi le particolarità territoriali. E poi il merito.
Pensate davvero che l’idea di un contratto nazionale sia stata meno rivoluzionaria nel tempo in cui le paghe (settimanali) venivano considerate un compenso “ad personam” perfino nello stesso stabilimento, negozio, ufficio?

Fermiamoci qui. In definitiva, se ai partiti non può spettare il ruolo di farsi portatori di interessi particolari e di organizzare i soggetti che li esprimono, perché a loro spetta quello della sintesi e della mediazione. Se tuttavia proprio sul terreno della tutela degli interessi il sindacato ha ceduto spazi enormi andando ad occupare – impropriamente – quello della mobilitazione su temi generali. E se questa mobilitazione si dimostra inconcludente, proprio perché disconnessa – volutamente – dai soggetti politici, cui istituzionalmente spetta anche, in una democrazia ordinata, la “finalizzazione”, il fare gol, portando all’approvazione leggi di portata generale. Se tutto ciò si verifica, che conclusione dobbiamo trarne?
Che quegli interessi non riescono a trovare tutela, non hanno risposte.
Né dai partiti, perché mancano loro le gambe, né dai sindacati, portatori degli interessi specifici, perché manca loro la testa, non avendo cittadinanza nelle istituzioni. Mentre hanno rinunciato a usare le gambe, che sono robuste e potrebbero sferrare qualche calcione. Non al vento. Al bersaglio.
Interessi privi di tutela. Di questo parla, a me sembra, anche l’apologo che ho raccontato e da cui ho preso spunto come esempio. Vedremo come andrà a finire con la vicenda riforma-lavoro. Personalmente vedo un finale già scritto, già visto. Con qualche novità positiva ma con tante aspettative deluse.

UN ALTRO PRIMO MAGGIO?

E se il primo maggio, anziché festeggiare a casa di uno dei tre leader confederali (per chi si fosse domandato come mai la scelta di celebrarlo a Rieti, è da lì che viene Angeletti: a Chieti o a Milano l’anno prossimo?) lo avessimo invece scelto come data proprio per indire la giornata nazionale di lotta (unitaria) alla precarietà? Magari, avremmo potuto usarla per portare in ogni casa una piattaforma concreta di modifiche al DDL lavoro (quattro o cinque, non mille, ma pesanti!). E, se non è fantascienza, per lanciare una vertenza nazionale, da riprodurre in ogni luogo di lavoro dove convivano dipendenti e atipici, per l’estensione del salario minimo contrattuale agli atipici.
Non avremmo forse portato un granellino a favore di una crescita, piccola forse ma di grande significato per il futuro, dei redditi da lavoro in un Paese angosciato dalla povertà di chi lavora?
Può darsi che stia prospettando cose fuori dal mondo. Sarei felice se me lo si spiegasse. E’ un commento che chiedo, ai miei trenta lettori.