mercoledì 30 maggio 2012

C'è un futuro per lo Zuccherificio. Quale?




Le elezioni sono di nuovo alle porte. La campagna elettorale non sarà la stessa dello scorso anno. Servirà a presentare i provvedimenti in cantiere per risolvere i grandi problemi, le emergenze di una regione che deve ripartire.
Torniamo sul tema dello Zuccherificio. Per un aggiornamento ma anche per esaminare più da vicino, oltre agli errori e alle difficoltà, le possibili vie di uscita, la strada da seguire.

Torno a parlare di elezioni in Molise.
Il tempo stringe.
Perché è probabile che si voti in autunno.
Perché in questa situazione la Giunta, che aveva già brillato per inerzia, insensibile alla gravità dei problemi, abbasserà del tutto la saracinesca. Almeno, non potrà lasciare il classico avviso “Torno subito”. Non torneranno.


La campagna elettorale sarà molto diversa da quella del 2011.
Gli eletti non dovranno accreditarsi, sono stati visti all’opera e misurati. Starà ai nuovi farsi conoscere e agli sconfitti aggiustare il tiro per la rivincita.
Il centro-sinistra non dovrà farsi apprezzare per il programma. Non può essere cambiato (almeno nelle linee fondamentali e nelle priorità) in pochi mesi.
Piuttosto, a partire dal candidato presidente Di Laura Frattura, dovrà dimostrare di essere andato oltre il programma e di avere utilizzato questi mesi per affrontare i problemi ed esaminare i dossier, partendo dai più urgenti e spinosi, per tracciare le linee dei provvedimenti da varare nell’immediato dopo-elezioni. Insomma, meno affermazioni di principio, molta concretezza. Questo chiedono i cittadini molisani.

Con “spirito di servizio”, come si dice in questi casi, per portare anch’io il mio sassolino, riprendo un tema, di quelli scottanti e urgenti, cui ho dedicato un pezzo alcune settimane fa. Il “disastro” dello Zuccherificio del Molise.

Senza spacciarmi per esperto di economia aziendale, senza avere specifiche conoscenze sul settore bieticolo-saccarifero, in base a quel tanto di nozioni di economia applicata che ho appreso negli anni, a qualche esperienza di “tavoli” di salvataggio industriale e, soprattutto, pretendendo di saper fare di conto, vorrei fornire al lettore interessato qualche aggiornamento sul tema già affrontato (http://molise11.blogspot.it/2012/02/zuccherificio-una-storia-da-raccontare.html) con un approfondimento relativo al da farsi. Anche stavolta chiederò che si armi di santa pazienza (una calcolatrice non guasterà).

Per cominciare, credo si debba biasimare, senza mezzi termini, la supponenza e l’insensibilità dei governanti (fin qui) della Regione in una materia di questa delicatezza e di questa drammaticità.
Incombono istanze di fallimento, i conti sono in profondo rosso, a spese dei contribuenti molisani, le prospettive produttive quanto mai incerte, i pagamenti bloccati. Ma Michele Iorio ritiene di poter dichiarare (il 2/3/2012) che “il gruppo di lavoro sulla continuità aziendale (costituito a seguito della mozione PD nel Consiglio che si era tenuto un mese prima sull’argomento) raggiungerà nella prossima settimana conclusioni … che consentiranno la rapida attuazione delle decisioni attinenti la ricapitalizzazione e il rilancio produttivo dello Zuccherificio”. Effettivamente per la ricapitalizzazione è bastata una riunione di Giunta, avvenuta due settimane dopo per attuare quanto deliberato dal Consiglio. Ma il rilancio produttivo?
Appena qualche giorno dopo (6/3/2012), risponde così a un’interrogazione di Francesco Totaro: “non c'è, da parte nostra, nessun ritardo colpevole, anzi c'è l'attenzione necessaria per salvaguardare questa struttura. Esprimo personale ottimismo sulla soluzione finale della questione“ Tralascio di commentare l'autodifesa sul “ritardo colpevole” alla luce di quello che la Giunta Iorio doveva fare e non ha fatto (e di quello che non doveva fare e ha fatto) negli ultimi cinque anni. Quanto all’’ottimismo. non credo fosse motivato da altro che dall’esito dell’incontro di due settimane prima tra gli assessori molisani competenti () e il Ministro Catania, che aveva garantito lo sblocco dei fondi CIPE (annualità 2009) per il bieticolo-saccarifero, lungamente e vanamente sollecitati in precedenza al Ministro Galan, per 35 milioni (cui se ne devono aggiungere 30 per il 2010). Mentre, in contemporanea, dall’AGEA arrivava la “positiva notizia” del “pronto utilizzo” dei 19 milioni dovuti.




Ora, potrei dire che la disponibilità di fondi non è di per sé una buona notizia se i destinatari non sanno utilizzarli che per tappare le falle da loro stessi create e per dilapidarne altri, in nome della logica che li ha sempre guidati, la ricerca del consenso immediato, senza futuro, fine a se stesso. Ma per non inasprire i toni polemici mi limito a riportare un comunicato emesso, tre mesi dopo l’incontro (23/5/2012), dai sindacati nazionali dell’agro-alimentare che congiuntamente, prendendo a cuore le sorti di Termoli, lamentano il fatto che tutti gli operatori bieticolo – saccariferi attendono ancora l’erogazione degli aiuti riferiti alle campagne 2009 e 2010 in attuazione degli impegni a suo tempo assunti e più volte confermati dal Governo”. Ottimismo?
E, guardando alla parte opposta dello schieramento politico, davvero Paolo Di Laura Frattura è un visionario, o un “gufo della sinistra”, come si auto-definisce ironicamente, quando parla (8/4/2012) di una “ennesima pagina buia” e di “triste cronaca di una morte annunciata per crisi" a proposito delle notizie di stampa sul fatto che “la produzione potrebbe saltare per la mancanza di materia prima”?

Veniamo allora ai fatti e alle cifre che possono dare al lettore un’idea più precisa della consistenza dei problemi. Potremo così ragionare sulle strade che si dovranno percorrere, se alla guida finalmente ci sarà un governo animato dalla volontà di operare per il bene dei cittadini, a partire dai più deboli.
Partiamo proprio dalle notizie di stampa a cui si riferisce Frattura. La fonte non è l’ultimo arrivato. E’ Alberto Alfieri, il nuovo manager chiamato in soccorso dalla Giunta per tentare di porre rimedio al disastro, che dichiara di non aver mai visto un'azienda in condizioni così disastrate … uno stabilimento trasandato, con macchinari vecchi, in una situazione niente affatto compatibile con gli ingenti investimenti - circa 60 milioni di euro, tra versamenti di capitale e finanziamenti - effettuati negli ultimi due anni dalla Regione".

E’ difficile immaginare che sia prevenuto, o ostile verso chi gli ha conferito tanto incarico. Ma per maggiore tranquillità, in ossequio a un rigoroso principio di obiettività, farò parlare l’Assessore Scasserra citando le cifre che fornisce in occasione della discussione della mozione Totaro a cui abbiamo già fatto riferimento. Ecco quanto dichiara, stando alla trascrizione ufficiale, riportata testualmente: “Oggi c'è l'emergenza dettata dalla necessità di addivenire ad un numero consistente di ettari a semina primaverile, perlomeno speriamo altri 4 mila. Se dovessimo raggiungere i 4 mila più i 5 mila che sono stati già seminati, ciò consentirebbe di fare una campagna dignitosa, ma non ottimale.

La prosa trascritta non rende giustizia all’eloquio di Scasserra ma le cifre sono chiare. Facciamo dunque qualche conto prendendo per buona l’ipotesi “speriamo che me la cavo” di 9mila ettari messi a coltura.
A questa ipotesi dovrebbe corrispondere, stando al resoconto di stampa del consiglio di amministrazione e dell'assemblea dei soci che si sono tenute l’11/5/2012, una quota produttiva, posta come obiettivo da raggiungere nel 2012, di trentamila tonnellate, per assicurare un conto in pareggio. Questi sono infatti i conti esposti in quella occasione dall'assessore Vitagliano, solitario componente dell’assemblea dei soci, ridotta a “organo monocratico della Regione”, che ha voluto anche far sapere di aver “conferito mandato pieno ad Alfieri sia per avviare la campagna bieticola 2012, sia per cominciare il percorso di ristrutturazione dell'azienda, di cui a breve dovrà portare a conoscenza tutti sul nuovo piano industriale.
Perdoniamo anche in questo caso la trascrizione e passiamo a fare qualche conto. Nella campagna 2010 (l’ultima che possiamo definire “normale) gli ettari coltivati erano stati 13.500 (l’obiettivo 2012 si ferma dunque esattamente a due terzi) e la resa era stata di 128,3 kg. di zucchero per ettaro. Mettendo insieme le dichiarazioni dei due assessori scopriamo dunque che, se la resa attesa è la stessa del 2010, ci si aspetta che la campagna non superi i 5.300 ettari, con buona pace della speranza espressa da Scasserra che se ne aggiungessero 4.000. Perché se invece fossero coltivati 9.000 ettari avremmo un calo della resa impressionante: ancora peggio!

Eppure Gianfranco Vitagliano nello scomodo ruolo solitario di “dominus” dello Zuccherificio ci dice che i conti saranno in pareggio.
I conti non sono stati in pareggio con ben più del doppio di ettari coltivati: si sono anzi accumulate perdite assai significative. Oggi poi lo stabilimento è perfino più “trasandato” di allora. Se non altro per il susseguirsi di furti (cavi, recinzioni, per cifre a sei zeri). Non può pretendere di essere creduto.

Ma non finisce qui. Andiamo avanti con i conti perché dobbiamo prendere in considerazione anche il prezzo. Era stato stabilito, nell’agosto del 2010, per il triennio 2011-2013, con grande soddisfazione dei bieticoltori, in 45,5 €/t. La tabella per la stagione in corso - che, si badi bene, era stata contrattata nell'agosto del 2011 partendo dall’ipotesi di una superficie effettiva coltivata di 14.000 ettari, per una produzione di 100.000 tonnellate di saccarosio, che non ci si sogna più di raggiungere – arrivava e prevedere un costo a carico della società, quindi al netto dei contributi europei (art. 68 reg. CE) destinati ai produttori (per € 7,5/t) di 47,5 €/t riservato ai produttori delle province di Campobasso, di Foggia e della valle dell’Ofanto (un po’ meno per quelli più distanti, considerando il costo aggiuntivo del trasporto). Il ricavo per il produttore, con l’aiuto previsto dal Regolamento comunitario, sale a 55 €/t.


Ora, al lettore potrebbe interessare qualche confronto. Sapere, ad esempio, che lo Zuccherificio Eridania di S. Quirico (PR) e quello Co.Pro.B. di Pontelongo (PD), che rappresentano oltre i 4/5 della lavorazione di barbabietole da zucchero in Italia, sopportano un onere (in base al prezzo concordato in sede di accordo interprofessionale) di 29,29 €/t.
Eppure si parte per tutti dal prezzo base fissato a livello europeo di 26,29 €/t.

Da dove proviene una simile differenza di prezzo? Possono stare in piedi i conti di uno stabilimento che paga la materia il 50% (abbondante) in più dei concorrenti? Dove intervenire, dove correggere?

Il lettore di buon senso, quello che non si nutre di anti-politica e mantiene una salda fiducia nelle istituzioni e nei rappresentanti eletti, sarà convinto che queste domande se le stiano ponendo i componenti del tavolo tecnico, che stanno “stressando” (che belli gli anglicismi che sostituiscono il latinorum per gettare fumo negli occhi!!) il piano industriale (quale versione? di quale annata?). Penserà che siano l'assillo costante delle notti degli assessori competenti (). Avrei voluto esserne convinto anch’io ma non ho trovato il minimo indizio che ciò stia accadendo.
Mi sono dunque dovuto rassegnare a fare da solo e provo a mettervi a parte delle risposte.

1) La differenza di prezzo. Deriva dal fatto che le associazioni dei produttori di barbabietole delle regioni del nord “hanno individuato la via della trasformazione delle polpe surpressate di spettanza dei coltivatori in biogas per la produzione di energia elettrica, programmando la realizzazione di una serie di impianti nei comprensori vicini agli zuccherifici, riversando gli utili ricavati sul prezzo delle bietole”. Ce lo spiegano M. Guidi, Presidente di Confagricoltura e di A. N. B. e A. Mincone, Presidente di C. N. B. (le due associazioni nazionali dei bieticoltori).
Di quanto parliamo? Parliamo di 5,9 €/t. Al contrario in Molise è la Regione (nella veste di Zuccherificio spa) che si accolla 2,5 €/t per valorizzazione energetica delle polpe (che non valorizza) e 1,6 €/t per rinuncia dei produttori alle polpe stesse (che nessuno, dunque, valorizza ma la Regione “ricompensa”). Aggiungiamo poi che gli Zuccherifici del Nord-Est si accollano 3 euro di integrazione sul prezzo europeo (che infatti sale da 26,29 a 29,29) mentre in Molise l’extra a carico della regione raggiunge la ragguardevole cifra di 17,11 €/t (di cui 9,01 come integrazione, mentre altri 8,1 appaiono a titolo di “incentivo” ai produttori).
2) Possono stare in piedi i conti? Sarebbe un miracolo se la produttività nella fase di lavorazione riuscisse a compensare un simile handicap. Ma è tutto il contrario. Le bietole lavorate giornalmente in fabbrica sono un po’ meno della metà rispetto ai concorrenti (dato 2011): anche se i giorni di lavorazione industriale sono invece tra il 15% e il 50% in più, la produzione vendibile per ettaro resta nettamente al di sotto in termini di valore: 2.130 € contro i 2.460 € di San Quirico e i 2.660 € di Pontelongo. Per ogni ettaro coltivato, a parità di resa in barbabietole, si paga dunque di più e si ricava di meno. Non può stare in piedi.
3) Prima di ragionare sugli interventi da fare bisogna dare una risposta chiara alla domanda preliminare: c’è una alternativa alla resa incondizionata? La risposta è affermativa, e l’esempio del nord lo dimostra. Ma la strada è radicalmente diversa da quella seguita fin qui. E non è un caso che gli stabilimenti concorrenti siano in mano, l’uno all’unico produttore privato, con una dimensione internazionale, rimasto in circolazione (Maccaferri, Eridania), gli altri due ai produttori consorziati e perciò direttamente motivati al successo economico non solo nella fase industriale ma fin da quella agricola.
E’ da lì dunque che deve partire l’intervento. Produrre barbabietole in Italia può ancora essere conveniente e remunerativo. “Bietola. Finalmente un’annata ok” titola G. Gnudi su “Terra e Vita” n. 41/2011. Ottime rese, ottima qualità, remunerazioni del tutto soddisfacenti per i produttori. Piange solo l’azionista unico dello Zuccherificio del Molise (e più ancora i suoi fornitori e salariati).
Occorre dunque, per prima cosa, coinvolgere i produttori (molisani e pugliesi innanzi tutto). Stabilire una collaborazione stretta, in un clima possibilmente di sintonia anche politica su ideali e obiettivi condivisi, con la Regione Puglia e con le realtà associative dei produttori delle due regioni. La qualità della barbabietola “appulo-molisana”, quanto a “polarizzazione”, è migliore di quella delle regioni padane. La resa per ettaro può e deve migliorare.
In secondo luogo, la valorizzazione energetica delle polpe “surpressate” non può restare lettera morta. Se non se ne fanno carico i produttori, come avviene nel nord-est (scontando il prezzo relativo) dovrà attrezzarsi il lato industriale (a questa previsione economico-finanziaria deve dare risposta il sospirato piano industriale) in proprio o attraverso un terzo soggetto. Il risultato non deve essere però al di sotto di quello che è stato ottenuto al nord.
Infine gli investimenti sullo stabilimento. Nel nostro Paese c’è un livello di competenza ingegneristica nel campo dei macchinari industriali che non ha eguali al mondo. Abbiamo superato la Germania sui mercati più ricchi e su quelli più in crescita. Avanti tutta, quindi, per le soluzioni più avanzate.
Muovendo questi tre tasti lo stabilimento di trasformazione può di nuovo essere vendibile. Per continuare a produrre, non per consentire all’ennesimo “furbetto” di lucrare perpetrando ancora un furto con destrezza ai danni del contribuente.
C'è una priorità banche e fornitori? Ovvio, ma solo nel senso che si deve scongiurare il fallimento e la chiusura dei rubinetti nell'immediato. Si può fare se ci si presenta con un'idea credibile, un progetto convincente costruito su scadenze precise da rispettare ad ogni passo. A queste condizioni il problema può scalare nell'ordine delle priorità e diventare il passo n. 4, a suggello dei tre già indicati. E andare a coincidere con la messa sul mercato a condizioni accettabili.

L’alternativa insomma è possibile. Guida prudente, con mano sicura, su una rotta ben tracciata. Appena i tempi saranno maturi. Prima possibile.

giovedì 17 maggio 2012

Una pagina nuova. Finalmente!


Ho cambiato il titolo del mio blog.
Oggi, 17 maggio, non abbiamo solo preso atto di una sentenza del Tar. Abbiamo assistito a una scena madre.
Per il Molise si apre una pagina tutta nuova. Ora gli elettori sanno con certezza che l'era dell'impunità è finita. Che il potere è nudo e non fa più paura. Se lo si ama lo si vota, se lo si condivide lo si vota. Se no, si è LIBERI di scegliere.
Il centro destra potrà tornare alle urne e vincere ancora una volta. Ma potrà contare solo sulle ragioni della politica, quelle ragioni che ha calpestato e svillaneggiato quando tentava di usarle l'opposizione, che non ne aveva altre.
Era bello vincere facile. E si è pure fatto strada tra gli avversari l'opportunismo, figlio della rassegnazione e padre di nuove sconfitte. Ma il 16 ottobre si era capito che l'aria era cambiata. Ben prima della sentenza, prima ancora della proclamazione del risultato, il cambiamento era stato testimoniato dalle luci spente anzitempo nel quartiere generale dell'ex Governatore (ora, ex a tutti gli effetti). Dalle sezioni era arrivato un risultato chiaro.
Ci sono voluti altri sette mesi di agonia. Può darsi che siano serviti a qualcosa. A prendere le misure degli eletti. A toccare con mano la drammaticità della situazione. A entrare nei meandri dei dossier più spinosi, quelli dove la mala gestione ha provocato più danni. Ma la situazione della gente, dei molisani, non poteva che peggiorare. E le responsabilità si fanno più pesanti. Ma la passione intanto è cresciuta, con la sicurezza nei propri mezzi e con il consenso tra i cittadini.
C'è chi fa gli scongiuri perché deve ancora pronunciarsi il Consiglio di Stato. Ma il TAR non ha lasciato molti margini. L'importante è che si faccia presto.
Storia maestra di vita. A questo sono serviti i sette mesi appena passati.
Si ricomincia daccapo. Ma in realtà comincia una nuova storia.
Ero partito un anno fa con l'idea che il 2011 avrebbe portato al Molise un domani migliore. Siamo nel 2012, il domani è qui, ora non si scappa. Dobbiamo viverlo. E vincere.

lunedì 7 maggio 2012

1 Maggio. Non è stata una festa. III parte


Come reagire alla caduta dei redditi di lavoratori e pensionati.
Per andare all’origine di questo fenomeno drammatico in cui si riassume il declino del nostro paese: come è potuto succedere?
Nelle due puntate precedenti si sono passate in rassegna le risposte correnti a questa domanda ma ci si è anche chiesti se i sindacati potevano fare di più. Se non aver attuato la Costituzione (art. 39) su rappresentanza e unità non abbia comportato un prezzo troppo alto. E se la rottura odierna attorno al rapporto con la politica non abbia contribuito a deprimere il potere contrattuale.
In questa ultima puntata si passa a un terreno concreto. Quello della difesa dei lavoratori precari. Per esaminare le ragioni di una iniziativa del tutto inconcludente.
E per immaginare un’alternativa. Possibile.

I REDDITI DEI LAVORATORI SCENDONO INESORABILMENTE. CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?

Concludiamo con questa terza puntata il discorso sulla perdita progressiva di potere di acquisto dei redditi dei lavoratori e dei pensionati.

Nelle precedenti puntate ho lamentato che non ci si domandi – almeno, non quanto sarebbe necessario di fronte a una tragedia sociale di questa portata - come sia potuto succedere ed ho passato in rassegna le spiegazioni che vengono date comunemente: la globalizzazione (lo squilibrio tra il potere della grande finanza, globale, e le politiche nazionali ovvero, secondo altri, il livellamento dei redditi da lavoro - per una sorta di legge dei vasi comunicanti nel mercato globale - tra paesi ricchi e paesi emergenti); la destra radicale al governo su scala nazionale (e europea) e la sua politica classista contro i lavoratori per caricare sulle loro spalle il peso della competizione globale; la debolezza dell’opposizione; l’egoismo corporativo delle rappresentanze imprenditoriali.
Ho poi sostenuto che non ci si può accontentare di queste risposte senza chiedersi anche se i sindacati abbiano fatto tutto il possibile per impedire questa deriva (se non altro, per portare gli imprenditori a giocare un altro ruolo).
Ho quindi affrontato, nella seconda puntata, il tema della perdita di potere contrattuale dei sindacati in relazione alla mancata attuazione della Costituzione (articolo 39) quanto a regolazione della rappresentanza e unità, con la conseguente assenza nel nostro ordinamento di un riconoscimento formale della validità erga omnes dei contratti. Cosicché attualmente chiunque, una volta costituitosi come sindacato, può stipulare accordi con le controparti a prescindere dal suo peso organizzato e dalla sua rappresentatività, laddove la Costituzione richiedeva che “fossero rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti” come condizione perché i contratti collettivi di lavoro da loro stipulati avessero “efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
In particolare, essendo assai complessa la storia della mancata attuazione di questo articolo della Costituzione, mi sono limitato a ricordare come, in un tempo più recente, sia stata accantonata perfino la soluzione con cui si erano congelati i rapporti tra i sindacati, riassunta nella formula dell’unità d’azione, che pure aveva retto all’onda d’urto della vicenda scala mobile, passando ad una rottura aperta (con qualche timido segnale di riavvicinamento solo negli ultimi mesi, contro il governo Monti).
Ho infine rimarcato che le ragioni della rottura riguardano l’interpretazione del ruolo del sindacato nei rapporti con le istituzioni e con le forze politiche. Dunque, un tema che dovrebbe appartenere alla tattica, mentre ha avuto il sopravvento sul fine strategico, la tutela degli interessi dei lavoratori. Non a caso, anziché marciare divisi per colpire uniti (come potrebbe avvenire se si trattasse di una rottura tattica), perfino quando sembrano marciare uniti, sono pronti a dividersi nel momento cruciale, quello in cui sono chiamati a colpire.

LA DIFESA DEI LAVORATORI PRECARI. TEMA CENTRALE, INIZIATIVA INCONCLUDENTE

In questa parte conclusiva mi sono ripromesso di approfondire un tema specifico per tentare di calare il ragionamento svolto fin qui in un contesto più concreto: la difesa dei lavoratori precari. Non solo perché è comunemente assunto come tema centrale ma anche perché, a mio parere, vi si può ritrovare un bandolo della matassa aggrovigliata di cui stiamo parlando. Quasi un riassunto, un concentrato in cui si specchia la situazione nel suo assieme.  
Parto dal presupposto, già enunciato nel post precedente, che non si debba commettere l’errore di pensare che la strada della difesa dei più deboli passi per una minore tutela dei più forti. Viceversa i più forti devono assumere con grande decisione la causa dei non tutelati e rimboccarsi le maniche per dar loro tutto il sostegno di cui hanno bisogno, altrimenti la loro debolezza, crescendo, minerà alla radice anche le loro posizioni attuali, come di fatto sta avvenendo.

E’ diffusa, nella cultura e nella pratica sindacale, questa convinzione? E’ ben radicata? Direi di no. Nella mia (alquanto lunghetta) esperienza sindacale mi sono trovato fin troppe volte a dover vincere una resistenza tenace, a cui corrispondeva un pregiudizio culturale molto tenace, su questo tema.
Non parlo della necessità di organizzare i disoccupati, difficili da intercettare. Certo, guardando le serie storiche del tesseramento ci si rende conto però di quanto debole sia lo sforzo in questa direzione. A questo riguardo, tuttavia, quella che colpisce è l’assenza assoluta di esempi di iniziativa generale, ampia, convinta, propositiva, dopo la stagione del Patto per il Lavoro con cui Di Vittorio inaugurò il nuovo corso del sindacalismo CGIL dopo la guerra.
Ma al di là del tema, più impegnativo, dei disoccupati, qui mi riferisco alle resistenze che ho incontrato ogni qualvolta si trattava di organizzare i precari, quelli impegnati all’interno stesso del posto di lavoro. C’è stata spesso da vincere una battaglia. Non potete immaginare quante volte mi sono sentito dire: “Non è il caso di dar loro la tessera, ‘ché potrebbero considerarla come una sorta di impegno per l’assunzione”. Paradossale, no?
Ebbene, credo proprio di poter dire che verso questa cultura, questa diffidenza, c’è stata come minimo condiscendenza da parte delle strutture sindacali di base ma anche disattenzione delle confederazioni, territoriali e nazionali.
Parlo, per esperienza diretta, della CGIL (ma le altre sigle hanno di che interrogarsi sugli errori commessi). Potrei portare un gran numero di esempi ma mi limito a citare solo il terremoto che ha sconquassato il mondo della sanità dall’inizio degli anni Novanta. Allora, quando doveva crescere negli ospedali l’offerta sia di servizi qualificati da parte di personale infermieristico sia di servizi “alberghieri”, senza far lievitare i costi, si è by-passato il vincolo contrattuale, relativamente oneroso, con un’invasione di cooperative sociali, il cui personale era sottopagato e soggetto al ricatto dei licenziamenti (con un tasso di sindacalizzazione, inevitabilmente, molto più basso). Ma non ne hanno pagato le conseguenze anche i dipendenti pubblici?

UN CASO CONCRETO. UN’ASSOCIAZIONE DI LAVORATORI PRECARI.

Le cose non sono cambiate negli ultimi anni. E’ stata forse adottata un’altra politica da quando la precarietà è diventata il centro di ogni discorso sul lavoro? Non credo. Per andare ancor più su un terreno concreto porto un esempio molto recente. Riguarda la vicenda della riforma del lavoro.
Prendo spunto dall’attività di un’associazione - si chiama “XX maggio-flessibilità sicura” - che si è costituita dal 2007 all’interno del Forum Lavoro del PD, con l’obiettivo di combattere la precarietà e di affermare una civiltà delle condizioni di lavoro anche nei contesti più flessibili.
Ha un sito Internet, promuove iniziative varie (convegni, manifestazioni, pubblicazioni) è presieduta da un “sindacalista di lungo corso” CGIL, oggi Consigliere presso il CNEL (Aldo Amoretti, già segretario generale dei tessili, del commercio) e annovera tra gli animatori più attivi un altro sindacalista, attivo presso il Dipartimento economico del Centro confederale (Davide Imola).
Per il tramite del Forum Lavoro questa Associazione ha indirizzato al Gruppo PD in Commissione Lavoro del Senato (che ha il compito di esaminare gli emendamenti) una serie di proposte di modifica del testo del Governo. Riguardano, in sintesi, l’introduzione di vincoli di qualifica (escludere tutte le mansioni esecutive) e di minimi salariali, cioè della contrattazione collettiva.
Vi è previsto un meccanismo di garanzia per ottenere questo risultato in modo certo e stabile: l’aumento delle aliquote contributive già previsto dalla riforma (buona idea, a condizione che il maggiore onere non si scarichi sui compensi) scatta solo dopo che un accordo collettivo avrà fissato i minimi salariali, con un tempo limite per raggiungerlo, passato il quale interviene il potere sostitutivo del Ministero del Lavoro.
Altri emendamenti riguardano l’estensione anche a questa categoria dei nuovi ammortizzatori sociali (Aspi) e dell’indennità di disoccupazione, l’allargamento della platea interessata, l’apprendistato, il trattamento di maternità per parasubordinati e autonomi, la mutualità integrativa per gli autonomi.
Che fine faranno questi emendamenti? Non so dirlo, non credo avranno vita facile. Ma quale mobilitazione fornirà il sostegno necessario? Quella di partito ha le caratteristiche (e i limiti) che sappiamo, l’Associazione potrà mettercela tutta ma sarà pur sempre una campagna di opinione. E i sindacati?

La CGIL, basta aprire la home page del sito per verificarlo, pone al centro in questi giorni proprio la preparazione della giornata nazionale di lotta contro la precarietà. Ottimo. Dunque si potrebbe immaginare che le strutture CGIL si stiano attrezzando per affrontare nei luoghi di lavoro una giornata di mobilitazione e di apertura di vertenze.
La mobilitazione dovrebbe servire per sostenere le modifiche al DDL sul lavoro. Se la si porta nei luoghi di lavoro si può intrecciare con un’iniziativa diretta, sul campo, per puntare a raggiungere accordi sul trattamento salariale dei parasubordinati. Tanto più dove questi sono impegnati a fianco dei lavoratori dipendenti e magari sono anche tesserati CGIL (vi sono posti di lavoro dove si sono fatti passi avanti rispetto alle chiusure che ho ricordato sopra).
Ma è così che sta andando? L’agenda delle iniziative preparatorie, fitta (se ne contano in questo momento un centinaio) prevede volantinaggi, presidi, assemblee comunali, qualche sciopero di zona (su vertenze territoriali generali). Le assemblee di luogo di lavoro sono una mezza dozzina, in due casi con sciopero (si può immaginare che la vertenza riguardi il lavoro precario). E’ anche questa, dunque, prevalentemente una campagna di opinione. Serve a sostenere una proposta politica. Ha lo stesso carattere della mobilitazione che può mettere in piedi l’Associazione XX maggio, sia pure con l’estensione e la capacità organizzativa di cui è capace una grande Confederazione sindacale.

Non è il solo limite. C’è un altro (piccolo?) particolare. La campagna non sostiene alcuna proposta specifica, concreta. Contiene solo una critica, radicale, dura, inflessibile, a tutto ciò che non va del DDL lavoro.
Direte, va bene lo stesso, anche se non serve a supportare una campagna su proposte precise e concrete, va nella stessa direzione. Però … c’è anche qui un però. Prendete allora il testo del documento CGIL di critica al DDL lavoro e esaminate le parti dedicate al lavoro precario, alla parasubordinazione. Le sei righe dedicate all’argomento definiscono l’obiettivo del DDL Fornero “lodevole” in quanto segna un’”inversione di tendenza apprezzabile” e tuttavia considera le misure previste “insufficienti”. E si porta come esempio proprio il fatto che “manca un vincolo ad un livello di reddito al di sotto del quale sia impossibile attivare le collaborazioni”. Si badi bene: non si indica l’esigenza di un minimo contrattato ma si richiede un minimo legale, per evitare “il rischio che l'aumento contributivo, giusto, si scarichi sui compensi dei collaboratori”. Conclusione, la critica dura (ad esempio sugli esodati) si ammorbidisce molto su questo tema.
Ho dato un quadro parziale? Chi fosse interessato può provare ad allargare lo sguardo ad altre iniziative in ambito CGIL. Visitare il sito di Nidil, che è l’organizzazione di categoria degli “atipici”, che raccoglie gli interinali e i parasubordinati. O quello dei Giovani CGIL organizzati attorno alla campagna “NON + DISPOSTI A TUTTO” e in particolare la loro piattaforma contro la precarietà. Una campagna dello scorso anno che non ha però avuto seguito. La sola traccia recente lasciata dai Giovani CGIL è il documento a loro firma “tutte le bugie sulla riforma del lavoro” completato da una guida alla riforma. Il quadro insomma non cambia.

TROPPO DIFFICILE TUTELARE IL LAVORO FRANTUMATO E INDIVIDUALIZZATO? UN ALIBI TROPPO COMODO

Spero che risulti chiaro il senso di questa parte conclusiva dedicata al sindacato (alla CGIL, con più precisione). Se a fatica si sta facendo qualche passo avanti per organizzare anche il lavoro precario, non si dà tuttavia un seguito allo sforzo organizzativo. Non sul piano dell’attivazione di vertenze strettamente sindacali per tutelare redditi e condizioni di lavoro nelle situazioni specifiche, concrete. Ma neanche su quello della individuazione di obiettivi politici, che richiederebbero quindi percorsi e strategie rivolte verso le istituzioni.
Anzi, si tengono rigorosamente le distanze da chi tiene rapporti all’interno dell’ambito istituzionale. Anche quando si tratta, come nel caso dell’Associazione XX maggio, di volti appartenenti all’album di famiglia. Non troverete una sola citazione di quell’Associazione in tutto il portale della CGIL.
Autonomia del sindacato dai partiti? Non scherziamo.

Non è facile, sento dire a discolpa. Il sindacato è per sua natura organizzazione di massa, non può farsi portatore che degli interessi comuni ai grandi numeri. Se il lavoro si frantuma e si individualizza, entra in difficoltà.
Non è anche questa una risposta facile? Che fa da alibi per non ricercare soluzioni difficili ma possibili?
Si provi a pensare questo: i grandi numeri premono per contratti collettivi da grandi numeri, quindi standardizzati, quindi regolati all’interno del quadro grande (“macro”) dell’economia. Per intenderci, per i grandi numeri ci vuole un accordo interconfederale (come quello con Ciampi nel ’93) che però, questo il suo difetto, finisce per essere, oltre che necessario, sufficiente. Fatto quello, quale altro compito spetta al sindacato? Il contratto nazionale si fa con la calcolatrice da tavolo applicando formule matematiche. Il conflitto distributivo finisce lì, il resto è, per dirla un po’ brutalmente, sceneggiata.
Paradossalmente, il sindacato si è salvato proprio grazie all’individualizzazione. Non fa più contratti collettivi, su quel piano fa solo grandi accordi di concertazione, però serve ai lavoratori e ai pensionati. Serve in quanto dà loro servizi. Individuali. Supplisce all’inefficienza dei front-office di Agenzia delle Entrate e INPS. Caso unico al mondo.
Siamo sicuri che lo sforzo organizzativo che serve per dare risposte agli individui precari, che non sono grandi numeri, sia davvero maggiore di quello messo in piedi per allestire Patronati e CAF? Serve però pensiero strategico.
Infine. Alla rinuncia a rappresentare i precari perché dispersi e frantumati fa riscontro (già da molto più tempo) quella a rappresentare le professioni (quelle con rapporto di subordinazione, intendo), le competenze elevate, gli specialisti. E poi le particolarità territoriali. E poi il merito.
Pensate davvero che l’idea di un contratto nazionale sia stata meno rivoluzionaria nel tempo in cui le paghe (settimanali) venivano considerate un compenso “ad personam” perfino nello stesso stabilimento, negozio, ufficio?

Fermiamoci qui. In definitiva, se ai partiti non può spettare il ruolo di farsi portatori di interessi particolari e di organizzare i soggetti che li esprimono, perché a loro spetta quello della sintesi e della mediazione. Se tuttavia proprio sul terreno della tutela degli interessi il sindacato ha ceduto spazi enormi andando ad occupare – impropriamente – quello della mobilitazione su temi generali. E se questa mobilitazione si dimostra inconcludente, proprio perché disconnessa – volutamente – dai soggetti politici, cui istituzionalmente spetta anche, in una democrazia ordinata, la “finalizzazione”, il fare gol, portando all’approvazione leggi di portata generale. Se tutto ciò si verifica, che conclusione dobbiamo trarne?
Che quegli interessi non riescono a trovare tutela, non hanno risposte.
Né dai partiti, perché mancano loro le gambe, né dai sindacati, portatori degli interessi specifici, perché manca loro la testa, non avendo cittadinanza nelle istituzioni. Mentre hanno rinunciato a usare le gambe, che sono robuste e potrebbero sferrare qualche calcione. Non al vento. Al bersaglio.
Interessi privi di tutela. Di questo parla, a me sembra, anche l’apologo che ho raccontato e da cui ho preso spunto come esempio. Vedremo come andrà a finire con la vicenda riforma-lavoro. Personalmente vedo un finale già scritto, già visto. Con qualche novità positiva ma con tante aspettative deluse.

UN ALTRO PRIMO MAGGIO?

E se il primo maggio, anziché festeggiare a casa di uno dei tre leader confederali (per chi si fosse domandato come mai la scelta di celebrarlo a Rieti, è da lì che viene Angeletti: a Chieti o a Milano l’anno prossimo?) lo avessimo invece scelto come data proprio per indire la giornata nazionale di lotta (unitaria) alla precarietà? Magari, avremmo potuto usarla per portare in ogni casa una piattaforma concreta di modifiche al DDL lavoro (quattro o cinque, non mille, ma pesanti!). E, se non è fantascienza, per lanciare una vertenza nazionale, da riprodurre in ogni luogo di lavoro dove convivano dipendenti e atipici, per l’estensione del salario minimo contrattuale agli atipici.
Non avremmo forse portato un granellino a favore di una crescita, piccola forse ma di grande significato per il futuro, dei redditi da lavoro in un Paese angosciato dalla povertà di chi lavora?
Può darsi che stia prospettando cose fuori dal mondo. Sarei felice se me lo si spiegasse. E’ un commento che chiedo, ai miei trenta lettori.

mercoledì 2 maggio 2012

1 Maggio. Per il lavoro non è stata una festa (2)


Come reagire alla caduta dei redditi di lavoratori e pensionati.
Occorre andare all’origine di questo fenomeno drammatico in cui si riassume il declino del nostro paese: come è potuto succedere?
Nella I parte si sono passate in rassegna le risposte correnti a questa domanda.
La globalizzazione. Lo strapotere della finanza. L’estrema destra al governo. L’opposizione debole e divisa. L’egoismo degli imprenditori.

In questa seconda parte tentiamo di andare oltre quelle risposte, facili e qualche volta di comodo. Proviamo a domandarci se i sindacati potevano fare di più.
Rappresentanza. Unità. Partiamo da questo binomio, posto al centro dell’articolo 39 della Costituzione. Questo articolo non è mai stato attuato. Sono ancora attuali le ragioni che hanno portato a questa scelta? Quali prezzi ha comportato e comporta tuttora?

I REDDITI DEI LAVORATORI SCENDONO INESORABILMENTE. CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?

Riprendiamo in questa seconda parte il discorso sulla perdita progressiva di potere di acquisto dei redditi dei lavoratori e dei pensionati. Andiamo avanti ad interrogarci su come sia potuto succedere.

Nella prima parte abbiamo passato in rassegna le spiegazioni che vengono date comunemente.
-         La globalizzazione, invocata da due punti di vista: 1) per un deficit di democrazia e di sovranità popolare indotto dalla capacità dei grandi poteri finanziari di sfuggire ai vincoli della politica nazionale e di agire su scala globale 2) per una sorta di teoria dei vasi comunicanti secondo cui cadute le frontiere tra i mercati dei lavoro è in atto una sorta di livellamento che porta i redditi dei paesi più ricchi ad avvicinarsi in discesa verso quelli, in crescita, dei paesi emergenti.
-         La politica nazionale, che ha visto emergere, e prevalere negli ultimi venti anni, una destra radicale che ha adottato una politica classista contro i lavoratori per caricare sulle loro spalle il peso della competizione globale.
-         La debolezza dell’opposizione che non ha saputo attrezzare una risposta efficace e credibile a questa strategia.
-         La scelta corporativa ed egoistica delle rappresentanze imprenditoriali che hanno promosso e sostenuto la svolta autoritaria e classista emarginando e mettendo a tacere quella parte, rivelatasi minoritaria, che si era attrezzata per affrontare la competizione puntando sulla qualità dei prodotti e dei processi anziché sulla compressione dei salari: una scelta miope che ha via via impoverito il ceto medio, allargando la quota di meno abbienti, con l’effetto, oltre che di aumentare le disuguaglianze e rendere sempre più intollerabile l’ingiustizia sul piano sociale, di deprimere la domanda interna, condannando così il paese, sul piano economico, a una lunga fase di recessione da cui non si vede ancora una via d’uscita.

PARLIAMO DEI SINDACATI. POTEVANO FARE DI PIU’ PER DIFENDERE I REDDITI DEI LAVORATORI?

Ci siamo infine chiesti se un giudizio analogo a quello dato per l’opposizione politica, che non è riuscita ad attrezzare un’alternativa credibile alla destra classista, non debba valere anche per i sindacati che non hanno impedito che la deriva corporativa ed egoistica prendesse il sopravvento tra gli imprenditori.
Perché, questo è ciò che dà da pensare, di fronte alla triste realtà che viene posta sotto i nostri occhi, ogni giorno che passa, implacabilmente, della progressiva caduta del reddito dei lavoratori, ci si dovrebbe aspettare che qualche leader sindacale si ponga questa domanda e con severità e rigore si ponga questo problema. Che non si accontenti di spiegare, di nuovo, chi è il colpevole ma si sforzi di far capire che cosa farà da domattina, anzi dal minuto successivo, per combattere con energia e con efficacia questa situazione.

Il discorso potrebbe farsi lungo. Perché, come sempre, non esiste una soluzione semplice per un problema così complesso. Perché non mancano le diagnosi, anche lucide ed approfondite, del malessere del sindacato, ma sarebbe ingenuo aspettarsi che se ne possa far discendere qualche terapia efficace allo stesso modo, stringente e univoco, con cui – date certe condizioni - si risolve un’equazione matematica.
Ricordiamo in ogni caso le questioni più dibattute, oltre che più spinose. Credo siano due, che ci riportano entrambe, strettamente connesse, alla Costituzione.
Il tema della rappresentanza e quello dell’unità.

Perché il dettato costituzionale è rimasto lettera morta. Attualmente, chiunque, una volta costituitosi come sindacato, può stipulare accordi con le controparti a prescindere dal suo peso organizzato e dalla sua rappresentatività. Invece, la Costituzione richiedeva (art. 39) che “fossero rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti” come condizione perché i contratti collettivi di lavoro da loro stipulati avessero “efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
La storia della mancata applicazione di questo articolo della Costituzione (senza che fosse mai abrogato) occupa interi scaffali nelle biblioteche. Le divergenze tra le confederazioni sono ancora oggi profonde, anche se le ragioni che le hanno determinate, nel primissimo dopoguerra, si sono dissolte più di venti anni fa con la caduta del Muro. Non è la sede per affrontarle ma sta di fatto che nel nostro ordinamento non c’è uno strumento chiaro ed efficace né per contrastare il sorgere di sindacati di comodo né per garantire a tutti i lavoratori (“obbligatoriamente”) il minimo salariale contattuale.
Il tema dell’unità, a sua volta, è strettamente legato a quello precedente, fin dal passaggio della Costituzione appena citato, che unisce in modo plastico i due termini (“rappresentati unitariamente”). Certo, l’unità non si impone, neanche la Costituzione ha questo potere. Ma all’inizio degli anni Settanta, benché il mondo fosse in piena guerra fredda, sull’onda della più grande mobilitazione operaia della storia italiana l’unità era stata posta all’ordine del giorno e inquadrata in un percorso con tappe e scadenze precise. Anche sulle ragioni che hanno portato a congelare quel percorso esiste una letteratura sconfinata. Meno indagate sono invece le ragioni che hanno portato, in un tempo assai più vicino, da una situazione congelata nella formula dell’unità d’azione (una formula, si badi, che aveva retto perfino all’onda d’urto della vicenda scala mobile) ad una rottura aperta. Ed è solo negli ultimi mesi, con l’avvento di Monti, che si riesce a cogliere qualche timido segnale di riavvicinamento.

I SINDACATI E IL RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI E CON LE FORZE POLITICHE.

Troppo viva la vicenda, ancora aperta la ferita, per una esame di carattere storico. Ma un dato è difficilmente contestabile: le ragioni della rottura riguardano l’interpretazione del ruolo del sindacato nei rapporti con le istituzioni e con le forze politiche. Allora, una considerazione si impone: il tema della rottura dovrebbe essere confinato nel campo della tattica e come tale dovrebbe essere trattato, in una comune cornice di riferimento rappresentata dal fine strategico, la tutela degli interessi dei lavoratori. Perché se il tema della rottura assume, come sembra avere assunto, un profilo strategico, addirittura dirimente, allora occorre chiedersi se le confederazioni non abbiano mutato natura.
Non solo. Se la “ragione sociale” alla base dell’esistenza di un sindacato è la tutela degli interessi dei suoi rappresentati, nessuno può dubitare del fatto che nessuna furbizia tattica, nessun disegno astuto e lungimirante, può mai avere un’efficacia anche solo paragonabile a quella garantita dall’unità.
Marciare divisi per colpire uniti? Ridicolo anche solo pensare di applicare questa massima al sindacato. In ogni caso non è di questo che si tratta. Tutto il contrario: perfino quando sembrano marciare uniti, sono pronti a dividersi nel momento cruciale, quello in cui sono chiamati a colpire.

UN ESEMPIO ELOQUENTE. COME DIFENDERE I REDDITI E LE PROSPETTIVE DI VITA DEI LAVORATORI PRECARI.

Non vado oltre, sul tema generale. Anche perché per un “ex” suscita inevitabilmente qualche imbarazzo. Ma c’è un aspetto, che può apparire circoscritto, che vorrei tuttavia approfondire. Perché è comunemente assunto come tema centrale ma anche perché, a mio parere, vi si può ritrovare un bandolo della matassa aggrovigliata di cui stiamo parlando. Quasi un riassunto, un concentrato in cui si specchia la situazione nel suo assieme.  Parlo della difesa dei lavoratori precari.

So bene che appena si accenna a qualcosa che assomigli al tema della divisione tra “insider” e “outsider”, ovvero tra protetti e non, si drizzano le antenne. E’ vero che da questo fenomeno (che è tale: è un dato della realtà, non un espediente dialettico) si è preso spunto per formulare proposte che suscitano molte perplessità (uso volutamente un eufemismo). Non penso in alcun modo, per essere chiari, che per tutelare meglio gli indifesi si debba abbassare la guardia nella tutela dei più forti. Ma sono tuttavia convinto che se i più forti non assumono con grande decisione la causa dei non tutelati e non si rimboccano le maniche per dar loro tutto il sostegno di cui hanno bisogno, la loro debolezza, crescendo, minerà alla radice anche le posizioni che oggi appaiono più forti.
E’ una vecchia regola elementare che qualunque lavoratore apprende al momento in cui assume il primo impegno sindacale: devi lottare per chi sta fuori e non solo per chi sta dentro altrimenti la pressione di chi sta fuori ti taglierà le gambe. Il vecchio Marx aveva spiegato la funzione dell’”esercito salariale di riserva” e da allora non è che le leggi dell’economia (e della dinamica sociale) siano cambiate granché. Ma, diciamo la verità, è una regola dimenticata e disattesa nella pratica di ogni giorno.

Per non abusare della pazienza del lettore mi fermo qui, per entrare nel merito con qualche esempio concreto nella terza (ed ultima) puntata che seguirà a breve.