Giorno
dopo giorno si susseguono i dati drammatici sulla caduta dei redditi
di lavoratori e pensionati.
Di
chi è la colpa? Della globalizzazione? Dello strapotere della
finanza? Di Berlusconi? Dell’opposizione troppo debole e divisa?
Dell’egoismo degli imprenditori?
Non
accontentiamoci di risposte facili e qualche volta di comodo.
Preferisco
proporre un’analisi impietosa. La campagna contro la precarietà è
inconcludente. Ai partiti mancano le gambe per sostenerla, non sono
in grado di organizzare gli interessi colpiti. Alle rappresentanze di
interessi (parlo della CGIL per non allontanarmi dall’ambito di
esperienza personale) manca la testa, la capacità di rapportarsi
positivamente con i luoghi istituzionali. E per di più stanno
abdicando alla funzione di usare le gambe. Che sono robuste e
potrebbero mollare qualche calcione. Non al vento, ma al bersaglio.
I
parte
CHE
C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?
Non
piove, grandina.
Sul bagnato? Di più. Su un’alluvione.
Non
passa giorno senza che ci venga snocciolato un nuovo rosario di
notizie, dati statistici, confronti temporali e paragoni
internazionali, per dire un’unica drammatica verità. I
redditi dei lavoratori e dei pensionati sono al collasso.
Stiamo percorrendo senza sosta una strada a ritroso, dal benessere
(modesto, ma rispettabile) verso la povertà. Indietro di trent’anni.
In
questo clima, che c’è da festeggiare il Primo Maggio?
E’
tutto il Paese che retrocede? No, ma anche si.
No,
perché c’è chi non smette di arricchirsi: lo fa solo con più
discrezione, con meno ostentazione. No, perché crescono le
disuguaglianze, la fetta di torta destinata ai più ricchi si
ingrossa, mentre quella destinata alla maggioranza, ai grandi numeri,
si fa sempre più piccola.
Ma
anche si, perché è il Paese che si impoverisce, che perde
dinamismo, che rinuncia al futuro, se le masse si impoveriscono.
Viceversa, oltre un certo livello le grandi ricchezze si spogliano
della nazionalità e si fanno globali, mondiali. I ricchi italiani
hanno ancora il passaporto ma non hanno più patria.
CADONO
I SALARI. DI CHI LA COLPA?
Come
è potuto succedere?
Se
ci pensiamo bene, non siamo in molti a porci questa domanda. Al più
ci si accontenta di qualche spiegazione “precotta”, che resta
alla superficie e guarda da lontano. Come quella che dà la colpa
alla globalizzazione.
La
versione “bicchiere mezzo vuoto”, quella “noir”, vede lo
strapotere della finanza,
l’economia sopranazionale che detta legge alle politiche nazionali,
le banche che si arricchiscono con le bolle speculative e quando le
bolle scoppiano si rimettono in sesto a spese degli Stati, cioè dei
contribuenti impotenti e indifesi. Ma c’è anche quella “bicchiere
mezzo pieno”, che vede le cose più “en rose”: cadono le
frontiere tra i mercati e di conseguenza cadono, sia pure con un
processo più lento, le barriere che separano i mercati nazionali del
lavoro. Secondo questa teoria - una sorta di “legge dei vasi
comunicanti” - il calo
dei redditi riguarda in generale i lavoratori dei paesi ricchi come
conseguenza del movimento verso l’alto dei redditi dei paesi poveri
e poverissimi.
L’una
e l’altra teoria, non lo nego affatto, descrivono fenomeni in atto
e colgono quindi qualche parte del problema. Ma non ci danno una
risposta convincente alla domanda. Non ci spiegano, tanto per dire,
come mai i redditi da lavoro si vadano differenziando fortemente
all’interno del gruppo dei paesi sviluppati. Come mai l’Italia
stia perdendo posizioni su posizioni tra i paesi OCSE. La grande
finanza ce l’ha in particolare con il nostro Paese? O il
vaso-Italia comunica più degli altri vasi OCSE con quelli dei paesi
emergenti? Non sta in piedi. C’è dell’altro. Che tocca da vicino
il nostro Paese, evidentemente.
L’attenzione
va immediatamente alla sfera politica. Abbiamo avuto, per quasi
vent’anni, la scena dominata da Berlusconi,
dal suo sistema di potere.
Affaristi, all’insegna della speculazione, protetti dalla politica,
in connubio con le grandi organizzazioni mafiose. Corruzione e
evasione. Crisi dello stato di diritto. Protezione assicurata agli
evasori, sostegno agli sfruttatori. Il lavoro impoverito e
precarizzato per effetto di questa politica. Politica classista, in
favore di una classe rapace, eversiva, insofferente delle regole.
Dobbiamo
però considerare che questo ritratto, se lo si considera realistico,
tiene fuori qualche parte importante del paesaggio.
L’opposizione:
come mai non è riuscita a rappresentare un’alternativa valida agli
occhi della maggioranza degli elettori? Come mai gli anni in cui è
stata al governo sono sembrati poco più che una parentesi?
Ma
l’immagine stessa del popolo
italiano, dell’identità
nazionale, ne esce sfregiata: imbonitore televisivo, d’accordo,
comunicatore impareggiabile, sarà anche vero. Ma intanto si devono
andare a cercare radici storiche lontane, dalla Controriforma al
dominio straniero, dal familismo amorale alla fragilità della
costruzione unitaria e via spiegando e interpretando.
LE
COLPE DELLE RAPPRESENTANZE, CHE HANNO DATO VOCE ALLA PARTE PEGGIORE
DELL’IMPRENDITORIA...
E
poi: siamo o no il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la
Germania? Dov’è dunque la nostra borghesia
imprenditrice? Tanto più
che siamo il paese della manifattura diffusa. Piangeremo pure per la
progressiva scomparsa della grande industria, ma ci prendono a
modello da ogni latitudine per la vitalità e la modernità della
nostra piccola e piccolissima impresa. Perciò, dei tanti,
tantissimi, piccoli imprenditori. Tutti squali berlusconiani? Tutti
alleati della finanza speculativa e predatoria? Certo che no.
Allora
quel paesaggio nasconde anche la realtà della classe
imprenditoriale, che è variegata ed è fatta di tanti imprenditori
che investono. Anche sul lavoro. Mentre altri, accanto a quelli,
invece profittano e si giocano tutto sulla compressione dei salari.
Ci si deve allora spiegare non tanto come si è mossa in questo
quadro la classe imprenditoriale, che come tale non ha una identità
definita, ma quale ruolo hanno giocato i suoi rappresentanti,
quelli che sono stati chiamati a darle voce e identità nella
dinamica sociale.
Ecco
allora che cominciamo ad avvicinarci a un quadro più completo e più
dettagliato. E per questa via ci avviciniamo anche alla risposta alla
domanda di partenza. Perché dobbiamo prendere atto del fatto che le
rappresentanze imprenditoriali sono state egemonizzate dalla parte
peggiore. Quella che faceva affari con la politica. Quella che
delocalizzava in cerca esclusivamente del risparmio sui costi. Quella
che non cercava la qualità: né dei prodotti, né dei processi, né
tanto meno del lavoro impegnato in quei processi. Quella che si
incuneava nei processi di outsourcing (esternalizzazione di segmenti
di attività) offrendo servizi a basso costo basati sul ricatto di
lavoratori senza tutele.
E
quando dico rappresentanze non dico Confindustria. Ossia, non solo
Confindustria: perché gli altri si sono accodati. Ora hanno messo in
piedi Reteitalia per fare da contrappeso in termini numerici, ma non
sembrano ancora voler recitare un’altra parte. E dobbiamo ancora
verificare se l’aria stia cambiando in Confindustria. E’ lecito
dubitare, non basta un distinguo sull’articolo 18.
E’
stato proprio un ex direttore di Confindustria (Innocenzo Cipolletta)
a dirlo chiaro e tondo di recente sull’Espresso: sarebbe ora che i
rappresentanti degli interessi degli industriali comprendessero che
la loro missione è quella di inquadrare gli interessi particolari (o
particolaristici) nell’interesse generale. Perché oggi così non
avviene.
...E
QUELLE DEI SINDACATI. UNA STORIA. UN’ASSOCIAZIONE CONTRO LA
PRECARIETA’
Ma
non ci possiamo fermare qui.
Se
quest’anno sarà un 1 maggio di penitenza più che di festa, a
questo sentimento dovrebbero ispirarsi anche i protagonisti della
giornata, i sindacati.
Se
è vero che dare la colpa alla politica berlusconiana non può che
tradursi in un atto d’accusa anche per l’opposizione, così
prendersela con i cattivi imprenditori significa immediatamente
portare i sindacati sul banco degli imputati. Che avete fatto per
renderli più “buoni”?
Ogni
giorno che passa, all’annuncio implacabile di qualche nuovo dato
che ci ricorda come sia in discesa libera il reddito dei lavoratori,
resto in trepida attesa di una dichiarazione di qualche leader
sindacale che non dica, di nuovo, chi è il colpevole ma spieghi, con
chiarezza, che cosa farà da domattina, anzi dal minuto successivo,
per combattere con energia e con efficacia questa situazione.
Per
parafrasare uno slogan felice (credo, di Bob Kennedy) non chiederti
cosa gli altri hanno fatto di male ai lavoratori ma chiediti
piuttosto che cosa avresti potuto fare di bene e non hai fatto.
Per
chi ha vissuto la maggior parte della sua vita lavorativa nel
sindacato questa massima brucia sulla pelle. E poiché la mia casa è
stata la CGIL, è della CGIL che intendo parlare nella seconda parte
di questa nota, che seguirà a breve. Dopo aver celebrato il Primo
Maggio.