lunedì 30 aprile 2012

1 Maggio. Per il lavoro non sarà una festa (1)


Giorno dopo giorno si susseguono i dati drammatici sulla caduta dei redditi di lavoratori e pensionati.
Di chi è la colpa? Della globalizzazione? Dello strapotere della finanza? Di Berlusconi? Dell’opposizione troppo debole e divisa? Dell’egoismo degli imprenditori?

Non accontentiamoci di risposte facili e qualche volta di comodo.
Preferisco proporre un’analisi impietosa. La campagna contro la precarietà è inconcludente. Ai partiti mancano le gambe per sostenerla, non sono in grado di organizzare gli interessi colpiti. Alle rappresentanze di interessi (parlo della CGIL per non allontanarmi dall’ambito di esperienza personale) manca la testa, la capacità di rapportarsi positivamente con i luoghi istituzionali. E per di più stanno abdicando alla funzione di usare le gambe. Che sono robuste e potrebbero mollare qualche calcione. Non al vento, ma al bersaglio.

I parte

CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?

Non piove, grandina. Sul bagnato? Di più. Su un’alluvione.
Non passa giorno senza che ci venga snocciolato un nuovo rosario di notizie, dati statistici, confronti temporali e paragoni internazionali, per dire un’unica drammatica verità. I redditi dei lavoratori e dei pensionati sono al collasso. Stiamo percorrendo senza sosta una strada a ritroso, dal benessere (modesto, ma rispettabile) verso la povertà. Indietro di trent’anni.
In questo clima, che c’è da festeggiare il Primo Maggio?

E’ tutto il Paese che retrocede? No, ma anche si.
No, perché c’è chi non smette di arricchirsi: lo fa solo con più discrezione, con meno ostentazione. No, perché crescono le disuguaglianze, la fetta di torta destinata ai più ricchi si ingrossa, mentre quella destinata alla maggioranza, ai grandi numeri, si fa sempre più piccola.
Ma anche si, perché è il Paese che si impoverisce, che perde dinamismo, che rinuncia al futuro, se le masse si impoveriscono. Viceversa, oltre un certo livello le grandi ricchezze si spogliano della nazionalità e si fanno globali, mondiali. I ricchi italiani hanno ancora il passaporto ma non hanno più patria.

CADONO I SALARI. DI CHI LA COLPA?

Come è potuto succedere?
Se ci pensiamo bene, non siamo in molti a porci questa domanda. Al più ci si accontenta di qualche spiegazione “precotta”, che resta alla superficie e guarda da lontano. Come quella che dà la colpa alla globalizzazione.
La versione “bicchiere mezzo vuoto”, quella “noir”, vede lo strapotere della finanza, l’economia sopranazionale che detta legge alle politiche nazionali, le banche che si arricchiscono con le bolle speculative e quando le bolle scoppiano si rimettono in sesto a spese degli Stati, cioè dei contribuenti impotenti e indifesi. Ma c’è anche quella “bicchiere mezzo pieno”, che vede le cose più “en rose”: cadono le frontiere tra i mercati e di conseguenza cadono, sia pure con un processo più lento, le barriere che separano i mercati nazionali del lavoro. Secondo questa teoria - una sorta di “legge dei vasi comunicanti” - il calo dei redditi riguarda in generale i lavoratori dei paesi ricchi come conseguenza del movimento verso l’alto dei redditi dei paesi poveri e poverissimi.
L’una e l’altra teoria, non lo nego affatto, descrivono fenomeni in atto e colgono quindi qualche parte del problema. Ma non ci danno una risposta convincente alla domanda. Non ci spiegano, tanto per dire, come mai i redditi da lavoro si vadano differenziando fortemente all’interno del gruppo dei paesi sviluppati. Come mai l’Italia stia perdendo posizioni su posizioni tra i paesi OCSE. La grande finanza ce l’ha in particolare con il nostro Paese? O il vaso-Italia comunica più degli altri vasi OCSE con quelli dei paesi emergenti? Non sta in piedi. C’è dell’altro. Che tocca da vicino il nostro Paese, evidentemente.

L’attenzione va immediatamente alla sfera politica. Abbiamo avuto, per quasi vent’anni, la scena dominata da Berlusconi, dal suo sistema di potere. Affaristi, all’insegna della speculazione, protetti dalla politica, in connubio con le grandi organizzazioni mafiose. Corruzione e evasione. Crisi dello stato di diritto. Protezione assicurata agli evasori, sostegno agli sfruttatori. Il lavoro impoverito e precarizzato per effetto di questa politica. Politica classista, in favore di una classe rapace, eversiva, insofferente delle regole.
Dobbiamo però considerare che questo ritratto, se lo si considera realistico, tiene fuori qualche parte importante del paesaggio.

L’opposizione: come mai non è riuscita a rappresentare un’alternativa valida agli occhi della maggioranza degli elettori? Come mai gli anni in cui è stata al governo sono sembrati poco più che una parentesi?
Ma l’immagine stessa del popolo italiano, dell’identità nazionale, ne esce sfregiata: imbonitore televisivo, d’accordo, comunicatore impareggiabile, sarà anche vero. Ma intanto si devono andare a cercare radici storiche lontane, dalla Controriforma al dominio straniero, dal familismo amorale alla fragilità della costruzione unitaria e via spiegando e interpretando.

LE COLPE DELLE RAPPRESENTANZE, CHE HANNO DATO VOCE ALLA PARTE PEGGIORE DELL’IMPRENDITORIA...

E poi: siamo o no il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania? Dov’è dunque la nostra borghesia imprenditrice? Tanto più che siamo il paese della manifattura diffusa. Piangeremo pure per la progressiva scomparsa della grande industria, ma ci prendono a modello da ogni latitudine per la vitalità e la modernità della nostra piccola e piccolissima impresa. Perciò, dei tanti, tantissimi, piccoli imprenditori. Tutti squali berlusconiani? Tutti alleati della finanza speculativa e predatoria? Certo che no.
Allora quel paesaggio nasconde anche la realtà della classe imprenditoriale, che è variegata ed è fatta di tanti imprenditori che investono. Anche sul lavoro. Mentre altri, accanto a quelli, invece profittano e si giocano tutto sulla compressione dei salari. Ci si deve allora spiegare non tanto come si è mossa in questo quadro la classe imprenditoriale, che come tale non ha una identità definita, ma quale ruolo hanno giocato i suoi rappresentanti, quelli che sono stati chiamati a darle voce e identità nella dinamica sociale.

Ecco allora che cominciamo ad avvicinarci a un quadro più completo e più dettagliato. E per questa via ci avviciniamo anche alla risposta alla domanda di partenza. Perché dobbiamo prendere atto del fatto che le rappresentanze imprenditoriali sono state egemonizzate dalla parte peggiore. Quella che faceva affari con la politica. Quella che delocalizzava in cerca esclusivamente del risparmio sui costi. Quella che non cercava la qualità: né dei prodotti, né dei processi, né tanto meno del lavoro impegnato in quei processi. Quella che si incuneava nei processi di outsourcing (esternalizzazione di segmenti di attività) offrendo servizi a basso costo basati sul ricatto di lavoratori senza tutele.
E quando dico rappresentanze non dico Confindustria. Ossia, non solo Confindustria: perché gli altri si sono accodati. Ora hanno messo in piedi Reteitalia per fare da contrappeso in termini numerici, ma non sembrano ancora voler recitare un’altra parte. E dobbiamo ancora verificare se l’aria stia cambiando in Confindustria. E’ lecito dubitare, non basta un distinguo sull’articolo 18.
E’ stato proprio un ex direttore di Confindustria (Innocenzo Cipolletta) a dirlo chiaro e tondo di recente sull’Espresso: sarebbe ora che i rappresentanti degli interessi degli industriali comprendessero che la loro missione è quella di inquadrare gli interessi particolari (o particolaristici) nell’interesse generale. Perché oggi così non avviene.

...E QUELLE DEI SINDACATI. UNA STORIA. UN’ASSOCIAZIONE CONTRO LA PRECARIETA’

Ma non ci possiamo fermare qui.
Se quest’anno sarà un 1 maggio di penitenza più che di festa, a questo sentimento dovrebbero ispirarsi anche i protagonisti della giornata, i sindacati.
Se è vero che dare la colpa alla politica berlusconiana non può che tradursi in un atto d’accusa anche per l’opposizione, così prendersela con i cattivi imprenditori significa immediatamente portare i sindacati sul banco degli imputati. Che avete fatto per renderli più “buoni”?
Ogni giorno che passa, all’annuncio implacabile di qualche nuovo dato che ci ricorda come sia in discesa libera il reddito dei lavoratori, resto in trepida attesa di una dichiarazione di qualche leader sindacale che non dica, di nuovo, chi è il colpevole ma spieghi, con chiarezza, che cosa farà da domattina, anzi dal minuto successivo, per combattere con energia e con efficacia questa situazione.

Per parafrasare uno slogan felice (credo, di Bob Kennedy) non chiederti cosa gli altri hanno fatto di male ai lavoratori ma chiediti piuttosto che cosa avresti potuto fare di bene e non hai fatto.
Per chi ha vissuto la maggior parte della sua vita lavorativa nel sindacato questa massima brucia sulla pelle. E poiché la mia casa è stata la CGIL, è della CGIL che intendo parlare nella seconda parte di questa nota, che seguirà a breve. Dopo aver celebrato il Primo Maggio.