lunedì 30 aprile 2012

1 Maggio. Per il lavoro non sarà una festa (1)


Giorno dopo giorno si susseguono i dati drammatici sulla caduta dei redditi di lavoratori e pensionati.
Di chi è la colpa? Della globalizzazione? Dello strapotere della finanza? Di Berlusconi? Dell’opposizione troppo debole e divisa? Dell’egoismo degli imprenditori?

Non accontentiamoci di risposte facili e qualche volta di comodo.
Preferisco proporre un’analisi impietosa. La campagna contro la precarietà è inconcludente. Ai partiti mancano le gambe per sostenerla, non sono in grado di organizzare gli interessi colpiti. Alle rappresentanze di interessi (parlo della CGIL per non allontanarmi dall’ambito di esperienza personale) manca la testa, la capacità di rapportarsi positivamente con i luoghi istituzionali. E per di più stanno abdicando alla funzione di usare le gambe. Che sono robuste e potrebbero mollare qualche calcione. Non al vento, ma al bersaglio.

I parte

CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?

Non piove, grandina. Sul bagnato? Di più. Su un’alluvione.
Non passa giorno senza che ci venga snocciolato un nuovo rosario di notizie, dati statistici, confronti temporali e paragoni internazionali, per dire un’unica drammatica verità. I redditi dei lavoratori e dei pensionati sono al collasso. Stiamo percorrendo senza sosta una strada a ritroso, dal benessere (modesto, ma rispettabile) verso la povertà. Indietro di trent’anni.
In questo clima, che c’è da festeggiare il Primo Maggio?

E’ tutto il Paese che retrocede? No, ma anche si.
No, perché c’è chi non smette di arricchirsi: lo fa solo con più discrezione, con meno ostentazione. No, perché crescono le disuguaglianze, la fetta di torta destinata ai più ricchi si ingrossa, mentre quella destinata alla maggioranza, ai grandi numeri, si fa sempre più piccola.
Ma anche si, perché è il Paese che si impoverisce, che perde dinamismo, che rinuncia al futuro, se le masse si impoveriscono. Viceversa, oltre un certo livello le grandi ricchezze si spogliano della nazionalità e si fanno globali, mondiali. I ricchi italiani hanno ancora il passaporto ma non hanno più patria.

CADONO I SALARI. DI CHI LA COLPA?

Come è potuto succedere?
Se ci pensiamo bene, non siamo in molti a porci questa domanda. Al più ci si accontenta di qualche spiegazione “precotta”, che resta alla superficie e guarda da lontano. Come quella che dà la colpa alla globalizzazione.
La versione “bicchiere mezzo vuoto”, quella “noir”, vede lo strapotere della finanza, l’economia sopranazionale che detta legge alle politiche nazionali, le banche che si arricchiscono con le bolle speculative e quando le bolle scoppiano si rimettono in sesto a spese degli Stati, cioè dei contribuenti impotenti e indifesi. Ma c’è anche quella “bicchiere mezzo pieno”, che vede le cose più “en rose”: cadono le frontiere tra i mercati e di conseguenza cadono, sia pure con un processo più lento, le barriere che separano i mercati nazionali del lavoro. Secondo questa teoria - una sorta di “legge dei vasi comunicanti” - il calo dei redditi riguarda in generale i lavoratori dei paesi ricchi come conseguenza del movimento verso l’alto dei redditi dei paesi poveri e poverissimi.
L’una e l’altra teoria, non lo nego affatto, descrivono fenomeni in atto e colgono quindi qualche parte del problema. Ma non ci danno una risposta convincente alla domanda. Non ci spiegano, tanto per dire, come mai i redditi da lavoro si vadano differenziando fortemente all’interno del gruppo dei paesi sviluppati. Come mai l’Italia stia perdendo posizioni su posizioni tra i paesi OCSE. La grande finanza ce l’ha in particolare con il nostro Paese? O il vaso-Italia comunica più degli altri vasi OCSE con quelli dei paesi emergenti? Non sta in piedi. C’è dell’altro. Che tocca da vicino il nostro Paese, evidentemente.

L’attenzione va immediatamente alla sfera politica. Abbiamo avuto, per quasi vent’anni, la scena dominata da Berlusconi, dal suo sistema di potere. Affaristi, all’insegna della speculazione, protetti dalla politica, in connubio con le grandi organizzazioni mafiose. Corruzione e evasione. Crisi dello stato di diritto. Protezione assicurata agli evasori, sostegno agli sfruttatori. Il lavoro impoverito e precarizzato per effetto di questa politica. Politica classista, in favore di una classe rapace, eversiva, insofferente delle regole.
Dobbiamo però considerare che questo ritratto, se lo si considera realistico, tiene fuori qualche parte importante del paesaggio.

L’opposizione: come mai non è riuscita a rappresentare un’alternativa valida agli occhi della maggioranza degli elettori? Come mai gli anni in cui è stata al governo sono sembrati poco più che una parentesi?
Ma l’immagine stessa del popolo italiano, dell’identità nazionale, ne esce sfregiata: imbonitore televisivo, d’accordo, comunicatore impareggiabile, sarà anche vero. Ma intanto si devono andare a cercare radici storiche lontane, dalla Controriforma al dominio straniero, dal familismo amorale alla fragilità della costruzione unitaria e via spiegando e interpretando.

LE COLPE DELLE RAPPRESENTANZE, CHE HANNO DATO VOCE ALLA PARTE PEGGIORE DELL’IMPRENDITORIA...

E poi: siamo o no il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania? Dov’è dunque la nostra borghesia imprenditrice? Tanto più che siamo il paese della manifattura diffusa. Piangeremo pure per la progressiva scomparsa della grande industria, ma ci prendono a modello da ogni latitudine per la vitalità e la modernità della nostra piccola e piccolissima impresa. Perciò, dei tanti, tantissimi, piccoli imprenditori. Tutti squali berlusconiani? Tutti alleati della finanza speculativa e predatoria? Certo che no.
Allora quel paesaggio nasconde anche la realtà della classe imprenditoriale, che è variegata ed è fatta di tanti imprenditori che investono. Anche sul lavoro. Mentre altri, accanto a quelli, invece profittano e si giocano tutto sulla compressione dei salari. Ci si deve allora spiegare non tanto come si è mossa in questo quadro la classe imprenditoriale, che come tale non ha una identità definita, ma quale ruolo hanno giocato i suoi rappresentanti, quelli che sono stati chiamati a darle voce e identità nella dinamica sociale.

Ecco allora che cominciamo ad avvicinarci a un quadro più completo e più dettagliato. E per questa via ci avviciniamo anche alla risposta alla domanda di partenza. Perché dobbiamo prendere atto del fatto che le rappresentanze imprenditoriali sono state egemonizzate dalla parte peggiore. Quella che faceva affari con la politica. Quella che delocalizzava in cerca esclusivamente del risparmio sui costi. Quella che non cercava la qualità: né dei prodotti, né dei processi, né tanto meno del lavoro impegnato in quei processi. Quella che si incuneava nei processi di outsourcing (esternalizzazione di segmenti di attività) offrendo servizi a basso costo basati sul ricatto di lavoratori senza tutele.
E quando dico rappresentanze non dico Confindustria. Ossia, non solo Confindustria: perché gli altri si sono accodati. Ora hanno messo in piedi Reteitalia per fare da contrappeso in termini numerici, ma non sembrano ancora voler recitare un’altra parte. E dobbiamo ancora verificare se l’aria stia cambiando in Confindustria. E’ lecito dubitare, non basta un distinguo sull’articolo 18.
E’ stato proprio un ex direttore di Confindustria (Innocenzo Cipolletta) a dirlo chiaro e tondo di recente sull’Espresso: sarebbe ora che i rappresentanti degli interessi degli industriali comprendessero che la loro missione è quella di inquadrare gli interessi particolari (o particolaristici) nell’interesse generale. Perché oggi così non avviene.

...E QUELLE DEI SINDACATI. UNA STORIA. UN’ASSOCIAZIONE CONTRO LA PRECARIETA’

Ma non ci possiamo fermare qui.
Se quest’anno sarà un 1 maggio di penitenza più che di festa, a questo sentimento dovrebbero ispirarsi anche i protagonisti della giornata, i sindacati.
Se è vero che dare la colpa alla politica berlusconiana non può che tradursi in un atto d’accusa anche per l’opposizione, così prendersela con i cattivi imprenditori significa immediatamente portare i sindacati sul banco degli imputati. Che avete fatto per renderli più “buoni”?
Ogni giorno che passa, all’annuncio implacabile di qualche nuovo dato che ci ricorda come sia in discesa libera il reddito dei lavoratori, resto in trepida attesa di una dichiarazione di qualche leader sindacale che non dica, di nuovo, chi è il colpevole ma spieghi, con chiarezza, che cosa farà da domattina, anzi dal minuto successivo, per combattere con energia e con efficacia questa situazione.

Per parafrasare uno slogan felice (credo, di Bob Kennedy) non chiederti cosa gli altri hanno fatto di male ai lavoratori ma chiediti piuttosto che cosa avresti potuto fare di bene e non hai fatto.
Per chi ha vissuto la maggior parte della sua vita lavorativa nel sindacato questa massima brucia sulla pelle. E poiché la mia casa è stata la CGIL, è della CGIL che intendo parlare nella seconda parte di questa nota, che seguirà a breve. Dopo aver celebrato il Primo Maggio.

giovedì 26 aprile 2012

Dopo Monti. Il futuro non aspetta


Torna d’attualità il tema del dopo Monti.
Non solo perché si parla di elezioni anticipate, ma perché il clima è già quello della campagna elettorale.
Via Berlusconi (ma è uscito di scena davvero?) non si è estinto il berlusconismo. Un termine improprio per indicare il sistema di potere che ha dominato il nostro paese da più di dieci anni a questa parte. Le cui radici risalgono però alla fine degli anni Settanta. Intreccio di poteri occulti, corporazioni, grandi organizzazioni criminali, monopoli che lucrano rendite parassitarie, protetti da un’amministrazione pubblica corrotta e inefficiente.
Con questi si dovranno fare i conti. Il Presidente Napolitano ha evocato la Resistenza, e dobbiamo pensare che sapesse quello che diceva


Torno sul tema del dopo Monti cui mi sono dedicato di recente in questo blog. Dopo la vicenda “riforma del lavoro” - che ancora una volta si è trasformata in una vicenda “articolo 18” – torna di grande attualità. Le elezioni a novembre non sono più un sussurro nel chiuso dei palazzi ma sono state gridate al vento dal solito Berlusconi. Ma non era uscito di scena? 
Il fatto è che il governo Monti, con il pasticcio che ha combinato sul lavoro, ha dato un’ulteriore delusione a chi sperava che fosse in grado di andare oltre il compito di liberarci dal berlusconismo.
Intendiamoci, non è assolutamente il caso di sottovalutare l’importanza di quel compito. Aver tolto il nostro Paese dall’imbarazzo e dalla vergogna di vedersi rappresentato da un personaggio impresentabile, con tutte le conseguenze anche economiche che ciò comportava, è apprezzabilissimo.

Il fatto è, però, che a parte l’odioso inconveniente di vedere ancora Berlusconi in scena, il berlusconismo – ammesso che sia questo il termine più appropriato per definirlo in sintesi – non si riduce a una persona ma è un sistema di potere, le cui origini risalgono in effetti agli ultimi anni Settanta.  
Nessuno può illudersi dunque che un sistema di potere che ha gettato radici profonde nel corpo della società si sciolga d’incanto come neve al sole. E’ già stato commesso una volta questo errore nel ’92. Stiamo pagando ancora oggi il prezzo di non aver saputo vedere allora come quel sistema di potere si stava riorganizzando e perfino rafforzando. Come stava cavalcando la crisi, quella economica insieme a quella politica, per riprodursi nella nuova forma che oggi identifichiamo con il berlusconismo, più brutale e più subdola al tempo stesso. Come stava compiendo un’opera sistematica e pervasiva sul piano culturale, diffondendo valori e schemi di pensiero funzionali alla sua egemonia.
Non è dunque opera di un giorno liberarsi, oltre che di Berlusconi, del berlusconismo. E il prezzo da pagare sarà ancora più salato se ci si accontenta di vedere il loden al posto della bandana. Se ci si aspetta che quella cultura evapori come la nebbia si alza al soffiare del vento. Che quel potere ceda la sua egemonia per pura autoconsunzione.
Nossignore. Ci vorrà tempo e ci vorranno lotte, conflitti, traumi. Non so se il Presidente Napolitano fosse cosciente della gravità delle sue parole nel momento in cui, il 25 aprile, ha proposto un paragone tra la fase attuale e la Resistenza. Ha provato ad attenuarlo (“mutatis mutandis”, ovviamente) ma non si può dimenticare quali fossero le dimensioni della Resistenza. E se è azzardato pensare che si riferisse alla liberazione nazionale, non resta che un paragone con la lotta anti-fascista. Che è stata cruenta e sanguinosa.
Non penso neppure lontanamente che si possano evocare quei tenebrosi fantasmi gappisti che sul finire degli anni Sessanta hanno portato fuori rotta, in un vicolo cieco, tante giovani energie che aspiravano a tutt’altra rivoluzione che la rappresentazione tragica del brigatismo. Non sto immaginando una guerra civile partigiana. Ma credo fermamente che non si debba commettere l’errore, da “anime belle”, di pensare che anziché un fiero duello possa bastare un duetto a colpi di battute. Lotta politica, non certo lotta armata, ma lotta. Strategia per espugnare le casematte (quanto è attuale, dopo novant’anni, Antonio Gramsci!), per mobilitare le coscienze, per difendere gli interessi colpiti dando loro voce, forza contrattuale, capacità di pressione sociale.

E’ questa l’opera che ci aspetta, se vogliamo liberarci del berlusconismo, che possiamo definire anche piduismo (ormai dovremmo dire pienneismo, in attesa che si scopra la prossima Pn), o antistato nello stato, o destra eversiva.
Al di là delle formule e delle etichette, ciò di cui parliamo è l’intreccio dei poteri occulti che lucrano, ormai da oltre trent’anni, rendite di posizione parassitarie. Parliamo di corporazioni di ben altro peso e consistenza di tassisti e farmacisti, di monopoli protetti da un’amministrazione statale compiacente e corrotta, di potenti cosche mafiose che vantano la leadership del crimine organizzato su scala mondiale. Sono questi i poteri con cui un’ampia fetta della cosiddetta classe politica ha scoperto negli ultimi decenni di poter fare affari d’oro e arricchirsi alle spalle dei cittadini indifesi.
Il tema è dunque questo. E le domande a cui dare una risposta sono due: è in grado Monti, se non di condurre questa lotta, di andare in una direzione che ne ponga i presupposti e non la ritardi? E quanto possiamo aspettare prima che il campo sia occupato da una sinistra che, con determinazione e capacità politica, si dimostri in grado di imboccare questa strada?

Quanto alla prima domanda, alla direzione di marcia del governo Monti. A questo riguardo siamo alla solita delusione della “destra pulita”. Presentabile e sussiegosa, si piega come un fuscello appena i poteri forti brandiscono la spada. A questi poteri si è sottomesso il governo Monti.
Dice bene la Camuso, di crescita, equità e rigore non resta che il rigore, scaricato nel modo più iniquo sui più deboli. Non perché, come recitano i predicatori compiacenti, è l’unico modo per fare cassa nell’immediato. E’ una grande bugia. Quello che lavoratori e pensionati hanno pagato “nell’immediato”, da novembre ad oggi, è solo un minimo assaggio di quello che li aspetta nel tempo. La verità è che solo dalle grandi ricchezze si può fare cassa “nell’immediato”. A chi arriva a mala pena a fine settimana si può spillare lo spillabile, su grandi numeri, certo, ma per piccole cifre. La vera manovra sui poveri è quella di privarli ancor più, con cinismo sempre maggiore, del futuro, rendere ancora più grigie le loro aspettative, più stentato il loro futuro.
E se spremere lavoratori e pensionati fino al limite della sopravvivenza fisica non basta a far tornare i conti, ecco la grande novità, si possono buttare a mare anche un po’ di piccoli imprenditori e artigiani. Non le corporazioni vere o i grandi monopoli. Non i petrolieri ma i benzinai, non gli evasori “off shore” ultra-scudati ma quelli che al più ritardano il pagamento di un DM10 o saltano una scadenza IVA se le banche chiudono i rubinetti come hanno fatto. Sono queste le nuove vittime, che trovano sulla loro strada un’implacabile Equitalia. Gli altri, i grandi evasori, sono perfino riusciti a far sparire la tassa di attracco degli yacht: era una piccola cosa, quasi simbolica, ma non si poteva. Ci sarebbe stata crisi occupazionale nei porti turistici!
Dal giorno dell’insediamento aspettiamo che Passera ci spieghi come rimborserà i crediti vantati dai fornitori della P.A. a cui le banche non scontano più le fatture. Non si parla dei fornitori che vincono gare truccate, su corrispettivi gonfiati (quelli non soffrono alcuna stretta) ma di quelli che hanno strappato una commessa con un massimo ribasso “sulle spese” per tenere alto il volume di ordinativi, ossia punti, per restare in corsa in un prossimo appalto.
Il Ministro dello Sviluppo sarà il più politico dei tecnici, sarà il più aperto e il più dialogante, grande speranza del centrismo futuro, ma risultati concreti…

La verità, più semplicemente, è che il governo non ha messo le mani nelle tasche di quei potenti. Che abbia valutato di non avere la forza politica necessaria, o che abbia scelto, in base alle teorie neo-liberiste reaganiane che trovano ancora cittadinanza nelle aule della Bocconi, di non farlo, poco importa. Quel che conta è che non lo ha fatto.
Quel che conta è che intanto quei poteri non stanno a guardare. Che stanno facendo i loro conti e si sono accorti che il tempo potrebbe non giocare a loro favore. E il loro “leader naturale” (bunga bunga a parte) ha ripreso a parlare di elezioni anticipate e, ciò che è più importante, ha ripreso a fare il mestiere che gli riesce meglio: organizzare la campagna elettorale, con largo anticipo.
E i mercati hanno capito l’antifona. Lo spread risale. Non per colpa della Spagna, né per la magra figura sull’articolo 18. Risale perché di tutte le promesse fatte da questo governo ne è stata mantenuta una sola.

Veniamo allora al dunque. Non si tratta di sapere se la sinistra è affidabile quando prende l’impegno di arrivare a fine legislatura con questo governo, se la sua parola è una, “a prescindere”. Si tratta si sapere se è credibile quando lo tiene in vita indipendentemente da quello che riesce a fare, dando tempo al sistema di potere che ha dominato nell’ultimo decennio di riorganizzarsi.

Attenzione, non penso assolutamente che si possa riprendere da dove eravamo rimasti, sia pure con la variante di un candidato alternativo diverso da Berlusconi. Penso che sarebbe una jattura votare col Porcellum (purché non si riesca a fare addirittura peggio, come Violante sta cercando di fare). Non penso che si debba puntare a diventare maggioranza assoluta di seggi alla Camera, per poi accordarsi col Terzo Polo al Senato. Col rischio, se non bastasse, di ripetere la sciagurata esperienza della “gioiosa macchina da guerra” del ’94. In ogni caso, con l’inconveniente di dover stare sotto schiaffo col Terzo Polo senza aver definito alcun vincolo né programmatico né, ancor meno, strategico.
L’appoggio senza se e senza ma del Terzo Polo a Monti, il distacco sussiegoso con cui il trio CFR ha assistito da lontano all’evolversi della questione articolo 18, le ipoteche sulla riforma elettorale ma ancor più, se vogliamo, l’apparentamento stretto, praticamente il sodalizio, con la Merkel, al punto di fare del PPE la bandiera su cui costruire la casa dei moderati, pongono un problema non da poco. Se scelgono di restare posizionati su queste coordinate, di destra – europea o presentabile, ma comunque di destra – senza scendere a patti con la destra che abbiamo definito berlusconiana, illudendosi di scalzarla dall’egemonia sull’elettorato moderato, sognano ad occhi aperti. In questo caso sono destinati, tutti e tre insieme, a raccogliere i consensi di un Bayrou, di un Westervelle, di un Clegg. Per raggiungere solo con grande sforzo, nella migliore delle ipotesi, le due cifre. Dopo di che dovranno scegliere. E se vorranno mantenere la pregiudiziale anti-berlusconiana, dovranno anche sapere su quali basi l’accordo con la sinistra è praticabile.

Posizione scomoda. Da cui il trio CFR vuole uscire. E’ per questo che assistiamo al grande trambusto che sta smuovendo il centro: dall’annuncio dell’evento politico più spettacolare (dopo il Big Bang, direbbe Jovanotti) fatto da Alfano, al terzo lancio in tre anni del Partito della Nazione da parte di Casini, è tutto un dare a vedere di voler costruire la “casa dei moderati”. Ma il solo fatto che Alfano abbia parlato in nome e per conto del “Presidente” ha svelato la grana grossa delle trame in corso. Destra presentabile? Berlusconi fuori gioco? In ombra? Al contrario, la sua ombra si staglia netta sullo sfondo, dunque è in piena luce, illuminato dai riflettori.
Quel che appare, dunque, è che si sta costruendo il ritorno del figliol prodigo, dopo il grande sogno centrista, tra le braccia del potere berlusconiano (continuo a usare questa definizione). O, se si preferisce, lo scenario del nuovo grande accordo tra la destra e il centro. Ma è credibile?
In realtà, tutto fa pensare che quello che sta avvenendo sia solo il rito preparatorio per la celebrazione del piano A, del disegno vincente a cui i poteri forti stanno lavorando: quello del grande centro pigliatutto. La grande coalizione. Monti dopo Monti.

Non ci si deve lasciare ingannare dall’offuscamento di immagine.
E’ pur vero che nella delusione di chi si aspettava dai “super partes” una politica equilibrata, si sono sentite a sinistra parole chiare sul “ritorno alla politica”. Dal 2013, però.
E’ pur vero che la vicenda del lavoro e dell’articolo 18 ha prodotto un sussulto a sinistra. Che l’idea di rassegnarsi, come ala sinistra di una “grande coalizione”, al ruolo di portatore d'acqua sta destando un crescente imbarazzo. Dichiarare che il governo “non fa le cose che faremmo noi” e che “non è mica un governo di centro-sinistra” non consola più di tanto chi sta pagando prezzi altissimi alla politica del rigore.
Così come è difficile da spiegare che per battere la politica della Merkel dobbiamo affidarci a Hollande ma nello stesso tempo si debba tuttavia scendere a patti con chi si fa vanto di appartenere a quella stessa famiglia politica, al PPE che sta mobilitando ogni risorsa disponibile per capovolgere i pronostici a favore di Sarkò.
Nonostante questo apparente offuscamento, tuttavia, non darei per scontato un tramonto di questa ipotesi. Che potrebbe piacere alla destra, per le incognite che gravano sul tentativo di costruire “la casa dei moderati”.
Si convinceranno gli elettori che si sono svegliati dal Telesogno impoveriti e incazzati di votare per la terza volta per Berlusconi? E che fine farà l’elettorato leghista? Sui verdi padani le ruspe stanno lavorando senza risparmio di mezzi e si attendono le amministrative di maggio per soppesare i risultati. Ma accetterà il “corpaccio” leghista, solleticato per due decenni nei peggiori istinti dell’antipolitica, di riassestarsi sulla “buona amministrazione del territorio padano”, che pure rappresenta la faccia B, rispettabilissima, di quella esperienza? Non rischia così, la Lega delle ramazze verdi, di perdere collante identitario e, quel che più conta, consenso elettorale? Maroni, l’uomo su cui punta la destra moderata, sta giocando su questo la “partita della vita” ma la faccia A, che ha i lineamenti del Bossi, acciaccato ma non domo, si rassegnerà a uscire di scena?
Da ultimo, ma non meno importante, come la prenderanno i mercati finanziari, che hanno già abbondantemente dimostrato di considerare questa ipotesi come tragica per il paese e che, appena riprende corpo e appare di nuovo possibile, se non probabile, fa risalire immediatamente lo spread per i titoli a più lunga scadenza?
Per questo non mi sento di dare per spacciata l’idea della Grande Coalizione. A dirla tutta, considero piuttosto lo scenario della Grande Destra Moderata, come una sorta di “Babau” da far apparire al momento giusto per far tremare le gambe a sinistra ai moderati deboli di cuore. Perché, perso d’un colpo tutto l’ardire ritrovato, si precipiti a omaggiare il Passera di turno o, magari, perché si faccia tentare dalla proposta che il leader sia qualcuno proveniente direttamente dalle file del PD (le prime file, intendo, non certo qualche giovine sindaco già pronto alla bisogna ma in realtà destinato più che altro al ruolo del “cavallo ruffiano”). Con Casini prenotato per il più alto Colle di Roma.

Finirebbe la parabola del PD? Temo di sì. Ora che l’esperienza Monti si va rivelando una delusione riprende anche corpo la “foto di Vasto”. Ma se la sinistra non corre per vincere ma per continuare a supportare una politica animata da ideologie e ideali altrui, a quella foto mancherebbe mezzo PD. E quello di oggi, spaccato in due, non esisterebbe più e starebbe metà di qua, all'opposizione, e metà di là, al governo.

Eccoci allora alla seconda domanda, quella da cento milioni. Aspettare il 2013? Costi quel che costi? Se un altro scenario è possibile, se la sinistra non perde l'ambizione di governare e si attrezza per risalire la china, riconquistare i consensi, riequilibrare i poteri, rilanciare la società (e quindi l’economia: non viceversa), allora dobbiamo già essere in cammino. E poiché il tempo delle elezioni è nelle nostre mani, non c’è una scadenza naturale, caduto Berlulsconi, ma solo il tempo giusto della politica. Che non deve essere anticipato se non si vuole pagare il prezzo dell’impreparazione ma non può essere ritardato perché il mondo non aspetta e soprattutto chi sta peggio ha poca pazienza.
Ci si deve però sforzare di presentare agli elettori delle ipotesi di soluzione e non solo dei distinguo dalle proposte altrui. Si deve credere in quelle proposte almeno quanto serve perché possa crederci la maggioranza dell'elettorato.
Siamo pronti? Questa è la domanda a cui vorrei sentir rispondere affermativamente dal gruppo dirigente di sinistra.
Significa diffondere idee e proposte, dare risposte, chiarire dubbi. Sulla patrimoniale così come sugli ammortizzatori sociali (universali) e sul salario minimo garantito, e sul rientro dal debito, sulla democrazia economica, sulla politica industriale e lo sviluppo sostenibile, sulla qualità del lavoro, sulle opere pubbliche, sulla spesa sociale, su informazione e comunicazione, energia, ambiente, economia verde e blu. E sulla lotta alle mafie e alla corruzione, che sono le impronte indelebili lasciate dal potere che ci ha governato in questi ultimi anni.
Non si può tacere, o essere reticenti. Non paga. La vecchia politica non è solo occupazione del potere, affarismo, complicità con i centri del potere economico. E’ anche opacità. Offesa alla dignità del cittadino elettore. E’ anche “ragazzo lasciami lavorare”, “fidati di me”. Cercare il voto senza sbilanciarsi troppo sulle proposte per il timore di scontentare qualche elettore.
E’ questa la politica che ha fatto il suo tempo, quella che tiene lontani gli elettori.
Allora si può anche difendere il finanziamento pubblico (dimezzato, almeno, e trasparente) per chi fa politica, per non lasciarla in mano ai “ricchi di famiglia” (e che famiglia!). Ma non lo si può fare per accodarsi alle scelte politiche di chi è ricco di famiglia.
Parlare chiaro, si deve. Altrimenti, se la politica non può che essere arcana, catacombale, iniziatica, se il campo di gioco deve restare al riparo dagli occhi degli spettatori, abbiamo imparato che vince sempre la stessa squadra.
Una campagna di ascolto, ma anche una campagna di proposte e di confronti aperti. Gli strumenti ci sono tutti, serve il coraggio e servono le idee. In fondo è la strada che ha seguito Obama. Si può fare, l’ha detto e l’ha fatto. 

giovedì 12 aprile 2012

Pensare al futuro del Molise. Non a quello dei Consiglieri


Non c’è aggettivo adeguato per descrivere la situazione della Regione Molise.
L’economia attraversa la peggiore crisi dal dopoguerra, ma la Giunta Regionale è presa da altri problemi. Nel PdL, le bande si armano in vista dello “sciogliete le righe”. Ma, intanto, Iorio non si tocca e le emergenze sono lasciate marcire.
Sarebbe il momento per l’opposizione di ripartire dal programma dello scorso autunno e di impegnarsi nell’elaborazione di un piano di rinascita che passi attraverso il superamento delle emergenze. A partire dal rischio di fallimento delle partecipate, dal dissesto della sanità e dal ritorno dei terremotati (veri) nelle loro case a dieci anni di distanza.
Si può fare, se si ha un progetto. Questo è il compito della politica. Se si ritorna alla politica.
Un esempio per tutti. Valorizzare la filiera agro-alimentare come leva per la ripresa economica e per la coesione sociale.
Con chi ci sta. NON con chi è occupato a difendere la poltrona.



CHE DIRE DELLO STATO DI SALUTE DELLA REGIONE MOLISE?

Paradossale. Disperante. Insostenibile. Non è facile trovare aggettivi appropriati per descrivere la situazione politico-istituzionale del Molise.

Partiamo dal basso, dal livello comunale. Che dire dei comuni principali retti da sindaci votati per dispetto? Solo Agnone, che ha respirato la ventata di aria fresca della scorsa primavera (quasi “in solitaria” nel quadro regionale), può ritenersi fortunata. Il quadro complessivo è desolante, città prive di governo, lasciate a se stesse, senza una fisionomia, né un progetto, né una minima attività amministrativa, foss’anche di “manutenzione evolutiva”. Quando cambierà? Non azzardo previsioni su Isernia: la sola idea che i cittadini di quella città possano finire per specchiarsi in una gigantesca faccia di bronzo, “formato famiglia”, sfidando il ridicolo e la vergogna nazionale, mi lascia senza parole. Nel  complesso, diciamo che i molisani “urbanizzati” sono costretti a fare a meno del livello di governo più vicino a loro.
Le Province molisane, in compenso, hanno precorso i tempi e hanno già provveduto, in autonomia, a sciogliersi. Non inganni il fatto che l’unica loro attività sembra essere quella di rilasciare dichiarazioni contro il superamento delle Province. Niente costa meno ed è più inutile, mero spostamento d’aria
Nella realtà dei fatti stanno gettando alle ortiche le poche risorse che si vedono assegnate. Forti dell’autorità politica, con la discrezionalità che essa consente, assumono decisioni che qualunque funzionario onesto e competente, vincolato al rispetto delle leggi e delle procedure amministrative, avrebbe saputo prendere in modo molto più efficiente e meno clientelare. Per i sostenitori dell’opportunità di superare le province (come rappresentanza elettiva) l’esempio molisano rappresenta un argomento formidabile.
Alla Regione spetta però il primato. I dati sulla situazione economica sono preoccupanti e i confronti impietosi. Nella “ripresina” del 2010 il Molise è rimasto indietro, nella recessione del 2011 è precipitato più degli altri. Il bilancio della Regione è al collasso. Una finanziaria “farlocca”, taroccata da residui attivi inesigibili a cui corrispondono residui passivi che sono come assegni “cabriolet”, riesce a malapena a nascondere la cruda verità: pagati gli stipendi e saldati i debiti che deve obbligatoriamente onorare, restano sì e no alcune decine di milioni di euro per le esigenze impellenti: altro che finanziaria da 3 miliardi (30.000 euro per ogni famiglia molisana)!

SERVIREBBE UNA RISPOSTA ADEGUATA, OLTRE LA SOPRAVVIVENZA. MA NON E’ GARANTITA NEPPURE QUELLA

In questo quadro drammatico ci si aspetterebbe rigore amministrativo e grande impegno progettuale. Ma sarebbe come pretendere che l’imperatore di Valacchia, conte Dracula, donasse il sangue all’Avis.
Il “minimo sindacale” sarebbe almeno garantire la sopravvivenza. Sarebbe, almeno, evitare di lasciare in eredità a chi dovrà gestire la Regione dopo le prossime elezioni un macigno insostenibile. Sarebbe, almeno, se non progettare un futuro migliore, immaginare una via d’uscita (“exit strategy”, per i raffinati) a) dalle operazioni più sballate e più dispendiose, b) dagli sprechi più evidenti. Significherebbe (ma ormai si deve dire significava): a), risolvere le partecipazioni “a perdere” (Solagrital, con appendice Arena, e Zuccherificio) senza gettare sul lastrico le famiglie dei lavoratori incolpevolmente coinvolti; b), mettere in moto un piano sanitario in grado di portare in tempi brevi il Molise a risparmiare qualche centinaio di milioni all’anno aumentando (e non diminuendo) l’offerta di servizi.
Equazioni irrisolvibili? Per chi ha considerato le partecipate un “tesoretto” elettorale e la sanità una prateria in cui scorrazzare liberamente, certo che sono irrisolvibili. Così come lo sono per chi è occupato solo a condurre una guerra di posizione nel PdL, affilando le armi in vista dello “sciogliete le righe”.
Ma per ognuno di questi compiti esistono esempi concreti e precisi (“benchmark” per i raffinati), in altre Regioni d’Italia e non su Giove, di come sia invece possibile risolvere quelle equazioni. Con grandi benefici per i corregionali. Per non parlare dell’altro grande capitolo da aggiungere a questa lista, della gestione del dopo-terremoto, per permettere agli abitanti danneggiati (realmente) dal sisma di rientrare nelle loro case, in paesi restituiti alla piena vita associata, a dieci anni dall’evento. Invece, si sono dilapidate a favore delle clientele, per guadagnare consenso, risorse di straordinaria entità, che amministratori con altre capacità e altri valori avrebbero potuto mettere a frutto come un’occasione irripetibile per il futuro della Regione.

Le procure, della Magistratura e della la Corte dei Conti, gli organi di polizia giudiziaria e la Guardia di Finanza, si stanno occupando con crescente solerzia dell’attività della Giunta Regionale nell’ultimo decennio. Ma i politici della maggioranza che (ancora) governa la Regione si mostrano uniti, come un sol uomo, nella difesa del suo operato. I più geniali tentano solo una sgangherata chiamata di correo: la colpa non è nostra ma dell’opposizione che ha taciuto. E che comunque non avrebbe fatto di meglio.
Per quanto personalmente non mi senta di lesinare critiche all’opposizione molisana, non solo non lo credo vero ma non lo credo nemmeno possibile, nel senso che non penso si potesse fare di peggio. Ma se anche fosse vero, ho comunque idea che la maggioranza dei cittadini molisani sia disposta a fare la prova, pur di vedere finire questo scempio.
In più, c’è un particolare, un ostacolo insormontabile, che rende addirittura patetiche quelle chiamate di correo. L’opposizione non è chiamata a governare (ancora per poco, speriamo). Chi deve farcela è il governo in carica.
Una Giunta non può portare i libri in Tribunale. In termini di pura teoria potrebbe dichiarare fallimento politico. Ma occorrerebbe un coraggio personale e una dirittura morale che è fuori portata.

EPPURE SI POTREBBE! A QUESTO COMPITO SI DEVE PREPARARE L’OPPOSIZIONE. STUDIANDO DA ORA I DOSSIER PER DARE LE RISPOSTE CHE I MOLISANI ATTENDONO

Eppure, come ho detto, non mancano gli esempi. Non sta scritto da nessuna parte che ci si debba rassegnare al peggio.
Qui sta, in effetti, il richiamo che va rivolto, con forza e severità, all’opposizione. Non a chi ripone tutte le sue speranze nella continuazione a oltranza della legislatura: a quelli non c’è da rivolgere moniti, continuino pure a sperare. Se i fatti daranno loro ragione vivranno di rendita qualche anno, altrimenti dovranno fare le valige: il portone dell’Aula consiliare non si aprirà più per loro. Chi, poi, ha offerto leale collaborazione istituzionale alla maggioranza dovrebbe forse prendere atto dell’abbaglio: sono tutti incatenati, senza margini di manovra, nell’abbraccio mortale con una Giunta che si pone in perfetta continuità col passato e non può più rinnegare se stessa.
Gli altri, quelli che hanno creduto fino all’ultimo nel cambiamento, quelli che ce l’hanno messa tutta per intercettare anche il Molise il vento che ha spirato da Milano a Napoli, hanno un compito, un impegno collettivo che possono e devono assumere. Cominciare a lavorare per il dopo.
Partire dal programma delle ultime elezioni e andare oltre, “ingegnerizzarlo”, sforzarsi di tradurlo in proposte concrete sulle priorità, sulle emergenze.
In tutto il profluvio di dichiarazioni, interviste, comparsate televisive, post su Facebook e quant’altro, ci si aspetterebbe dall’opposizione qualche richiamo “alto” ai problemi della Regione. Non solo beghe interne o faccende da sbrigare “ad personam”.
Suvvia, uno sforzo di immaginazione, c’è qualche pista su cui lavorare.

Voglio fare, in conclusione, un esempio.
Chiunque si fosse preso la briga di leggere i dati sull’economia molisana o anche solo qualche rapporto ufficiale si sarebbe reso conto, cifre alla mano, di una verità, che la realtà in effetti ci pone sotto gli occhi ogni giorno. Una delle (non poche) vere ricchezze di questa regione sta nella sua terra o, per essere più precisi, nella cultura secolare che le sue genti hanno accumulato nel lavoro dedicato a metterla a frutto e a trarne risorse preziose.
Non è andata perduta. Oggi le sole attività che fanno segnare una crescita della ricchezza (e, particolare importantissimo, di quella parte della ricchezza prodotta che viene esportata per essere venduta fuori dai confini) sono quelle della filiera agro-alimentare.
Eppure la prima delle emergenze, il fallimento che incombe sulle partecipate regionali, riguarda proprio due pezzi di quella filiera. E’ possibile pensare non solo di salvarli ma di farne due perni per un ulteriore impulso allo sviluppo della filiera e alla qualificazione – internazionale, non solo nazionale – del Molise come marchio di qualità, come territorio-garanzia.
Era questa l’idea originaria che aveva portato al salvataggio della “Arena molisana” mentre l’Arena veronese chiudeva. Perché è andata male? Che ha fatto la Regione per valorizzarla? Perché ne ha fatto solo la copertura per una gestione clientelare delle risorse pubbliche? Perché anziché dilapidare denaro pubblico non ha impegnato la principale risorsa (extra-economica) di cui dispone, la regolazione per promuovere e facilitare i processi virtuosi, di valorizzazione delle imprese locali, del lavoro locale? E analogamente si potrebbe dire dello Zuccherificio. Una volta assunta la decisione, azzardata, rischiosa ma pur sempre praticabile, di mantenere in piedi la raffinazione della barbabietola, perché non sostenere e orientare gli investitori per un ciclo combinato che associasse l’uso del prodotto agricolo a scopo alimentare con gli altri usi, in particolare quelli energetici che, come ci insegnano le esperienze più avanzate e come ci spingeva a fare l’Unione Europea, possono renderne sostenibile il prezzo di mercato?
Andando oltre le emergenze, chi potrebbe negare che un piano coordinato di promozione e valorizzazione della filiera agro-alimentare avrebbe un valore strategico formidabile? Purché fosse un po’ più incisivo e innovativo della stanca riproposizione di bandi a pioggia per spartire le poche risorse fra tanti clienti. A condizione che mettesse in azione le leve potenti che la Regione (soggetto: il vertice politico-amministrativo dell’istituzione) potrebbe manovrare (gli esempi da seguire sono innumerevoli). Se solo fosse animata dalla volontà di far crescere la Regione (complemento oggetto: i cittadini che la abitano) e non solo di preservare il proprio potere e il proprio status economico.
Pensate che nella Regione non ci siano risorse (umane) adeguate per una simile sfida? Che non ci siano imprenditori capaci, attratti da una idea come questa? Ci sono, e sono in azione tutti i giorni, senza nessun aiuto o quasi. Che non ci siano i tecnici in grado di fornire tutti gli elementi di conoscenza necessari alla riuscita del progetto? Ce ne sono in attività, e se ne vedono i frutti, ma ce ne sono anche tanti che vorrebbero farlo ma non trovano occasione di mettere a disposizione le proprie capacità (o si sono rassegnati a farlo altrove). Che non ci siano lavoratori con tutte le caratteristiche professionali adatte allo scopo? Ci sono, altro che! Mancano i politici. Quelli disponibili e potenzialmente capaci aspettano solo di essere messi alla prova. Conquistando, per questo scopo, la fiducia e il consenso dei cittadini elettori.