Torna d’attualità
il tema del dopo Monti.
Non solo
perché si parla di elezioni anticipate, ma perché il clima è già quello della
campagna elettorale.
Via
Berlusconi (ma è uscito di scena davvero?) non si è estinto il berlusconismo.
Un termine improprio per indicare il sistema di potere che ha dominato il
nostro paese da più di dieci anni a questa parte. Le cui radici risalgono però alla
fine degli anni Settanta. Intreccio di poteri occulti, corporazioni, grandi
organizzazioni criminali, monopoli che lucrano rendite parassitarie, protetti
da un’amministrazione pubblica corrotta e inefficiente.
Con questi si
dovranno fare i conti. Il Presidente Napolitano ha evocato la Resistenza, e dobbiamo
pensare che sapesse quello che diceva
Torno
sul tema del
dopo Monti cui mi sono dedicato di recente in
questo blog. Dopo la vicenda “riforma del lavoro” - che ancora una volta si
è trasformata in una vicenda “articolo 18” – torna
di grande attualità. Le elezioni a novembre non sono più un sussurro nel chiuso
dei palazzi ma sono state gridate al vento dal solito Berlusconi. Ma non era
uscito di scena?
Il
fatto è che il governo Monti, con il pasticcio che ha combinato sul lavoro, ha
dato un’ulteriore delusione a chi sperava che fosse in grado di andare oltre il
compito di liberarci dal berlusconismo.
Intendiamoci,
non è assolutamente il caso di sottovalutare l’importanza di quel compito. Aver
tolto il nostro Paese dall’imbarazzo e dalla vergogna di vedersi rappresentato
da un personaggio impresentabile, con tutte le conseguenze anche economiche che
ciò comportava, è apprezzabilissimo.
Il
fatto è, però, che a parte l’odioso inconveniente di vedere ancora Berlusconi
in scena, il berlusconismo – ammesso che sia questo il termine più appropriato
per definirlo in sintesi – non si riduce a una persona ma è un sistema di
potere, le cui origini risalgono in effetti agli ultimi anni Settanta.
Nessuno
può illudersi dunque che un sistema di potere che ha gettato radici profonde
nel corpo della società si sciolga d’incanto come neve al sole. E’ già stato
commesso una volta questo errore nel ’92. Stiamo pagando ancora oggi il prezzo
di non aver saputo vedere allora come quel sistema di potere si stava
riorganizzando e perfino rafforzando. Come stava cavalcando la crisi, quella
economica insieme a quella politica, per riprodursi nella nuova forma che oggi
identifichiamo con il berlusconismo, più brutale e più subdola al tempo stesso.
Come stava compiendo un’opera sistematica e pervasiva sul piano culturale,
diffondendo valori e schemi di pensiero funzionali alla sua egemonia.
Non
è dunque opera di un giorno liberarsi, oltre che di Berlusconi, del
berlusconismo. E il prezzo da pagare sarà ancora più salato se ci si accontenta
di vedere il loden al posto della bandana. Se ci si aspetta che quella cultura evapori
come la nebbia si alza al soffiare del vento. Che quel potere ceda la sua
egemonia per pura autoconsunzione.
Nossignore.
Ci vorrà tempo e ci vorranno lotte, conflitti, traumi. Non so se il Presidente
Napolitano fosse cosciente della gravità delle sue parole nel momento in cui, il
25 aprile, ha proposto un paragone tra la fase attuale e la Resistenza. Ha
provato ad attenuarlo (“mutatis mutandis”, ovviamente) ma non si può
dimenticare quali fossero le dimensioni della Resistenza. E se è azzardato
pensare che si riferisse alla liberazione nazionale, non resta che un paragone
con la lotta anti-fascista. Che è stata cruenta e sanguinosa.
Non
penso neppure lontanamente che si possano evocare quei tenebrosi fantasmi
gappisti che sul finire degli anni Sessanta hanno portato fuori rotta, in un
vicolo cieco, tante giovani energie che aspiravano a tutt’altra rivoluzione che
la rappresentazione tragica del brigatismo. Non sto immaginando una guerra
civile partigiana. Ma credo fermamente che non si debba commettere l’errore, da
“anime belle”, di pensare che anziché un fiero duello possa bastare un duetto a
colpi di battute. Lotta politica, non certo lotta armata, ma lotta. Strategia
per espugnare le casematte (quanto è attuale, dopo novant’anni, Antonio
Gramsci!), per mobilitare le coscienze, per difendere gli interessi colpiti dando
loro voce, forza contrattuale, capacità di pressione sociale.
E’
questa l’opera che ci aspetta, se vogliamo liberarci del berlusconismo, che
possiamo definire anche piduismo (ormai dovremmo dire pienneismo, in attesa che
si scopra la prossima Pn), o antistato nello stato, o destra eversiva.
Al
di là delle formule e delle etichette, ciò di cui parliamo è l’intreccio dei poteri
occulti che lucrano, ormai da oltre trent’anni, rendite di posizione
parassitarie. Parliamo di corporazioni di ben altro peso e consistenza di
tassisti e farmacisti, di monopoli protetti da un’amministrazione statale
compiacente e corrotta, di potenti cosche mafiose che vantano la leadership del
crimine organizzato su scala mondiale. Sono questi i poteri con cui un’ampia
fetta della cosiddetta classe politica ha scoperto negli ultimi decenni di
poter fare affari d’oro e arricchirsi alle spalle dei cittadini indifesi.
Il
tema è dunque questo. E le domande a cui dare una risposta sono due: è in grado
Monti, se non di condurre questa lotta, di andare in una direzione che ne ponga
i presupposti e non la ritardi? E quanto possiamo aspettare prima che il campo
sia occupato da una sinistra che, con determinazione e capacità politica, si
dimostri in grado di imboccare questa strada?
Quanto
alla prima domanda, alla direzione di marcia del governo Monti. A questo
riguardo siamo alla solita delusione della “destra pulita”. Presentabile e
sussiegosa, si piega come un fuscello appena i poteri forti brandiscono la
spada. A questi poteri si è sottomesso il governo Monti.
Dice
bene la Camuso, di crescita, equità e rigore non resta che il rigore, scaricato
nel modo più iniquo sui più deboli. Non perché, come recitano i predicatori
compiacenti, è l’unico modo per fare cassa nell’immediato. E’ una grande bugia.
Quello che lavoratori e pensionati hanno pagato “nell’immediato”, da novembre
ad oggi, è solo un minimo assaggio di quello che li aspetta nel tempo. La
verità è che solo dalle grandi ricchezze si può fare cassa “nell’immediato”. A
chi arriva a mala pena a fine settimana si può spillare lo spillabile, su
grandi numeri, certo, ma per piccole cifre. La vera manovra sui poveri è quella
di privarli ancor più, con cinismo sempre maggiore, del futuro, rendere ancora
più grigie le loro aspettative, più stentato il loro futuro.
E
se spremere lavoratori e pensionati fino al limite della sopravvivenza fisica
non basta a far tornare i conti, ecco la grande novità, si possono buttare a
mare anche un po’ di piccoli imprenditori e artigiani. Non le corporazioni vere
o i grandi monopoli. Non i petrolieri ma i benzinai, non gli evasori “off
shore” ultra-scudati ma quelli che al più ritardano il pagamento di un DM10 o saltano
una scadenza IVA se le banche chiudono i rubinetti come hanno fatto. Sono
queste le nuove vittime, che trovano sulla loro strada un’implacabile
Equitalia. Gli altri, i grandi evasori, sono perfino riusciti a far sparire la
tassa di attracco degli yacht: era una piccola cosa, quasi simbolica, ma non si
poteva. Ci sarebbe stata crisi occupazionale nei porti turistici!
Dal
giorno dell’insediamento aspettiamo che Passera ci spieghi come rimborserà i
crediti vantati dai fornitori della P.A. a cui le banche non scontano più le
fatture. Non si parla dei fornitori che vincono gare truccate, su corrispettivi
gonfiati (quelli non soffrono alcuna stretta) ma di quelli che hanno strappato
una commessa con un massimo ribasso “sulle spese” per tenere alto il volume di
ordinativi, ossia punti, per restare in corsa in un prossimo appalto.
Il
Ministro dello Sviluppo sarà il più politico dei tecnici, sarà il più aperto e
il più dialogante, grande speranza del centrismo futuro, ma risultati concreti…
La
verità, più semplicemente, è che il governo non ha messo le mani nelle tasche
di quei potenti. Che abbia valutato di non avere la forza politica necessaria,
o che abbia scelto, in base alle teorie neo-liberiste reaganiane che trovano
ancora cittadinanza nelle aule della Bocconi, di non farlo, poco importa. Quel
che conta è che non lo ha fatto.
Quel
che conta è che intanto quei poteri non stanno a guardare. Che stanno facendo i
loro conti e si sono accorti che il tempo potrebbe non giocare a loro favore. E
il loro “leader naturale” (bunga bunga a parte) ha ripreso a parlare di
elezioni anticipate e, ciò che è più importante, ha ripreso a fare il mestiere
che gli riesce meglio: organizzare la campagna elettorale, con largo anticipo.
E
i mercati hanno capito l’antifona. Lo spread risale. Non per colpa della
Spagna, né per la magra figura sull’articolo 18. Risale perché di tutte le
promesse fatte da questo governo ne è stata mantenuta una sola.
Veniamo
allora al dunque. Non si tratta di sapere se la sinistra è affidabile quando
prende l’impegno di arrivare a fine legislatura con questo governo, se la sua
parola è una, “a prescindere”. Si tratta si sapere se è credibile quando lo
tiene in vita indipendentemente da quello che riesce a fare, dando tempo al
sistema di potere che ha dominato nell’ultimo decennio di riorganizzarsi.
Attenzione,
non penso assolutamente che si possa riprendere da dove eravamo rimasti, sia
pure con la variante di un candidato alternativo diverso da Berlusconi. Penso
che sarebbe una jattura votare col Porcellum (purché non si riesca a fare
addirittura peggio, come Violante sta cercando di fare). Non penso che si debba
puntare a diventare maggioranza assoluta di seggi alla Camera, per poi accordarsi
col Terzo Polo al Senato. Col rischio, se non bastasse, di ripetere la
sciagurata esperienza della “gioiosa macchina da guerra” del ’94. In ogni caso,
con l’inconveniente di dover stare sotto schiaffo col Terzo Polo senza aver definito
alcun vincolo né programmatico né, ancor meno, strategico.
L’appoggio
senza se e senza ma del Terzo Polo a Monti, il distacco sussiegoso con cui il
trio CFR ha assistito da lontano all’evolversi della questione articolo 18, le
ipoteche sulla riforma elettorale ma ancor più, se vogliamo, l’apparentamento
stretto, praticamente il sodalizio, con la Merkel, al punto di fare del PPE la
bandiera su cui costruire la casa dei moderati, pongono un problema non da
poco. Se scelgono di restare posizionati su queste coordinate, di destra –
europea o presentabile, ma comunque di destra – senza scendere a patti con la
destra che abbiamo definito berlusconiana, illudendosi di scalzarla
dall’egemonia sull’elettorato moderato, sognano ad occhi aperti. In questo caso
sono destinati, tutti e tre insieme, a raccogliere i consensi di un Bayrou, di
un Westervelle, di un Clegg. Per raggiungere solo con grande sforzo, nella
migliore delle ipotesi, le due cifre. Dopo di che dovranno scegliere. E se
vorranno mantenere la pregiudiziale anti-berlusconiana, dovranno anche sapere
su quali basi l’accordo con la sinistra è praticabile.
Posizione
scomoda. Da cui il trio CFR vuole uscire. E’ per questo che assistiamo al
grande trambusto che sta smuovendo il centro: dall’annuncio dell’evento
politico più spettacolare (dopo il Big Bang, direbbe Jovanotti) fatto da Alfano,
al terzo lancio in tre anni del Partito della Nazione da parte di Casini, è
tutto un dare a vedere di voler costruire la “casa dei moderati”. Ma il solo
fatto che Alfano abbia parlato in nome e per conto del “Presidente” ha svelato
la grana grossa delle trame in corso. Destra presentabile? Berlusconi fuori
gioco? In ombra? Al contrario, la sua ombra si staglia netta sullo sfondo,
dunque è in piena luce, illuminato dai riflettori.
Quel
che appare, dunque, è che si sta costruendo il ritorno del figliol prodigo,
dopo il grande sogno centrista, tra le braccia del potere berlusconiano
(continuo a usare questa definizione). O, se si preferisce, lo scenario del
nuovo grande accordo tra la destra e il centro. Ma è credibile?
In
realtà, tutto fa pensare che quello che sta avvenendo sia solo il rito
preparatorio per la celebrazione del piano A, del disegno vincente a cui i
poteri forti stanno lavorando: quello del grande centro pigliatutto. La grande
coalizione. Monti dopo Monti.
Non
ci si deve lasciare ingannare dall’offuscamento di immagine.
E’
pur vero che nella delusione di chi si aspettava dai “super partes” una
politica equilibrata, si sono sentite a sinistra parole chiare sul “ritorno
alla politica”. Dal 2013, però.
E’
pur vero che la vicenda del lavoro e dell’articolo 18 ha prodotto un sussulto a
sinistra. Che l’idea di rassegnarsi, come ala sinistra di una “grande
coalizione”, al ruolo di portatore d'acqua sta destando un crescente imbarazzo.
Dichiarare che il governo “non fa le cose che faremmo noi” e che “non è mica un
governo di centro-sinistra” non consola più di tanto chi sta pagando prezzi
altissimi alla politica del rigore.
Così
come è difficile da spiegare che per battere la politica della Merkel dobbiamo
affidarci a Hollande ma nello stesso tempo si debba tuttavia scendere a patti
con chi si fa vanto di appartenere a quella stessa famiglia politica, al PPE che
sta mobilitando ogni risorsa disponibile per capovolgere i pronostici a favore
di Sarkò.
Nonostante
questo apparente offuscamento, tuttavia, non darei per scontato un tramonto di
questa ipotesi. Che potrebbe piacere alla destra, per le incognite che gravano
sul tentativo di costruire “la casa dei moderati”.
Si
convinceranno gli elettori che si sono svegliati dal Telesogno impoveriti e
incazzati di votare per la terza volta per Berlusconi? E che fine farà l’elettorato
leghista? Sui verdi padani le ruspe stanno lavorando senza risparmio di mezzi e
si attendono le amministrative di maggio per soppesare i risultati. Ma accetterà
il “corpaccio” leghista, solleticato per due decenni nei peggiori istinti
dell’antipolitica, di riassestarsi sulla “buona amministrazione del territorio
padano”, che pure rappresenta la faccia B, rispettabilissima, di quella
esperienza? Non rischia così, la Lega delle ramazze verdi, di perdere collante
identitario e, quel che più conta, consenso elettorale? Maroni, l’uomo su cui
punta la destra moderata, sta giocando su questo la “partita della vita” ma la
faccia A, che ha i lineamenti del Bossi, acciaccato ma non domo, si rassegnerà
a uscire di scena?
Da
ultimo, ma non meno importante, come la prenderanno i mercati finanziari, che hanno
già abbondantemente dimostrato di considerare questa ipotesi come tragica per
il paese e che, appena riprende corpo e appare di nuovo possibile, se non probabile,
fa risalire immediatamente lo spread per i titoli a più lunga scadenza?
Per
questo non mi sento di dare per spacciata l’idea della Grande Coalizione. A
dirla tutta, considero piuttosto lo scenario della Grande Destra Moderata, come
una sorta di “Babau” da far apparire al momento giusto per far tremare le gambe
a sinistra ai moderati deboli di cuore. Perché, perso d’un colpo tutto l’ardire
ritrovato, si precipiti a omaggiare il Passera di turno o, magari, perché si
faccia tentare dalla proposta che il leader sia qualcuno proveniente
direttamente dalle file del PD (le prime file, intendo, non certo qualche
giovine sindaco già pronto alla bisogna ma in realtà destinato più che altro al
ruolo del “cavallo ruffiano”). Con Casini prenotato per il più alto Colle di
Roma.
Finirebbe
la parabola del PD? Temo di sì. Ora che l’esperienza Monti si va rivelando una
delusione riprende anche corpo la “foto di Vasto”. Ma se la sinistra non corre
per vincere ma per continuare a supportare una politica animata da ideologie e
ideali altrui, a quella foto mancherebbe mezzo PD. E quello di oggi, spaccato
in due, non esisterebbe più e starebbe metà di qua, all'opposizione, e metà di
là, al governo.
Eccoci
allora alla seconda domanda, quella da cento milioni. Aspettare il 2013? Costi
quel che costi? Se un altro scenario è
possibile, se la sinistra non perde l'ambizione di governare e si attrezza
per risalire la china, riconquistare i consensi, riequilibrare i poteri,
rilanciare la società (e quindi l’economia: non viceversa), allora dobbiamo già
essere in cammino. E poiché il tempo delle elezioni è nelle nostre mani, non c’è
una scadenza naturale, caduto Berlulsconi, ma solo il tempo giusto della
politica. Che non deve essere anticipato se non si vuole pagare il prezzo dell’impreparazione
ma non può essere ritardato perché il mondo non aspetta e soprattutto chi sta
peggio ha poca pazienza.
Ci
si deve però sforzare di presentare agli elettori delle ipotesi di soluzione e
non solo dei distinguo dalle proposte altrui. Si deve credere in quelle
proposte almeno quanto serve perché possa crederci la maggioranza
dell'elettorato.
Siamo
pronti? Questa è la domanda a cui vorrei sentir rispondere affermativamente dal
gruppo dirigente di sinistra.
Significa
diffondere idee e proposte, dare risposte, chiarire dubbi. Sulla patrimoniale
così come sugli ammortizzatori sociali (universali) e sul salario minimo
garantito, e sul rientro dal debito, sulla democrazia economica, sulla politica
industriale e lo sviluppo sostenibile, sulla qualità del lavoro, sulle opere
pubbliche, sulla spesa sociale, su informazione e comunicazione, energia, ambiente,
economia verde e blu. E sulla lotta alle mafie e alla corruzione, che sono le
impronte indelebili lasciate dal potere che ci ha governato in questi ultimi
anni.
Non
si può tacere, o essere reticenti. Non paga. La vecchia politica non è solo
occupazione del potere, affarismo, complicità con i centri del potere
economico. E’ anche opacità. Offesa alla dignità del cittadino elettore. E’
anche “ragazzo lasciami lavorare”, “fidati di me”. Cercare il voto senza
sbilanciarsi troppo sulle proposte per il timore di scontentare qualche
elettore.
E’
questa la politica che ha fatto il suo tempo, quella che tiene lontani gli
elettori.
Allora
si può anche difendere il finanziamento pubblico (dimezzato, almeno, e
trasparente) per chi fa politica, per non lasciarla in mano ai “ricchi di
famiglia” (e che famiglia!). Ma non lo si può fare per accodarsi alle scelte politiche
di chi è ricco di famiglia.
Parlare
chiaro, si deve. Altrimenti, se la politica non può che essere arcana,
catacombale, iniziatica, se il campo di gioco deve restare al riparo dagli
occhi degli spettatori, abbiamo imparato che vince sempre la stessa squadra.
Una
campagna di ascolto, ma anche una campagna di proposte e di confronti aperti.
Gli strumenti ci sono tutti, serve il coraggio e servono le idee. In fondo è la
strada che ha seguito Obama. Si può fare, l’ha detto e l’ha fatto.