[8 marzo – 15 marzo]
Facciamo il punto sulla trattativa in corso attorno alla riforma
del mercato del lavoro.
Appare come la questione politica più rilevante sul piano
nazionale. Carica di tensioni, può decidere della direzione che prenderà il
quadro politico nei prossimi anni. Al centro, una questione di principio, la
tutela del lavoratore licenziato senza giusta causa.
Se ne parla molto, ma in fin dei conti si parla d'altro. La
sostanza della questione articolo 18 resta nascosta in una fitta nebbia.
E “la risposta che attendono i mercati” ha poco a che vedere con
quella sostanza. Riguarda piuttosto il modello sociale e il sistema di
relazioni sindacali.
E' bene saperlo. Per stare al gioco o per aprire un'altra partita: il modello sociale rientra ancora nella sovranità nazionale?
E' bene saperlo. Per stare al gioco o per aprire un'altra partita: il modello sociale rientra ancora nella sovranità nazionale?
TEMPI STRETTI PER LA RIFORMA IN AGENDA. SI
ARRIVERA' A UN ACCORDO ENTRO MARZO?
Che sta succedendo a Palazzo Chigi
tra Governo, sindacati e associazioni imprenditoriali sulla riforma del mercato
del lavoro?
Si avvicina la scadenza di fine
marzo che il premier Monti ha stabilito per una conclusione. Scintille e
tensioni tra le parti si alternano a momenti di (cauto) ottimismo. Si può in
qualche modo prevedere come andrà a finire? Proviamo a fare il punto.
Passiamo in rassegna i singoli
temi in agenda, partendo da quelli sui quali le posizioni non sembra siano
distanti.
SUI TEMI IN AGENDA
UN ACCORDO E' POSSIBILE. TAGLIA “SMALL”
Revisione delle tipologie
contrattuali, in direzione di uno sfoltimento. L'obiettivo è condiviso così
come le valutazioni su molte delle singole forme sotto esame.
Apprendistato. C'è un accordo (di
principio) sull'obiettivo di un rilancio dell'istituto a partire dall'”avviso
comune” sottoscritto lo scorso anno da tutte le parti in causa (Stato, Regioni,
sindacati, associazioni imprenditoriali).
Flessibilità in uscita (articolo
18). C'è accordo sulla necessità di uno snellimento dei tempi dei processi. Per
il resto, nebbia fitta.
Ammortizzatori sociali. E'
condivisa la necessità di una riforma che metta ordine tra i diversi istituti
così da assicurare una copertura “universalistica” per tutti i rapporti di
lavoro (anche parasubordinati) e per tutte le tipologie di imprese,
distinguendo tra due fattispecie fondamentali: perdita del posto di lavoro e
sospensione temporanea.
Su quest'ultimo argomento si è
però decisa una sospensione della trattativa per una verifica delle risorse che
possono essere messe in campo. La verifica non sembra abbia lasciato
intravedere grandi margini di manovra.
Prima di concludere si dovrà
andare più a fondo sull'articolo 18, tema su cui si concentrano le maggiori
tensioni.
Diciamo la verità. Se sugli
ammortizzatori le risorse si confermano scarse (se non nulle) e sull'articolo
18, i margini di intesa essendo ridotti all'osso, il Governo non forza la mano,
l'intesa si riduce a ben poca cosa. Tanto rumore per nulla?
Vediamo allora un po' più da
vicino le questioni aperte.
LO SCONTRO
SULL'ARTICOLO 18 E' IL TEMA CHIAVE. UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO SU CUI UN ACCORDO
NON APPARE POSSIBILE.
DUE DIRITTI TUTELATI
SONO IN CONFLITTO.'
Quella su cui è concentrata
l'attenzione, quella che può portare alla rottura, è l'articolo 18. Appare come
uno scontro di civiltà, o di culture, e in un certo senso lo è perché ognuna delle
due parti ritiene di dover difendere strenuamente un diritto intangibile, non
disponibile. Il diritto del lavoratore come persona a non subire lesioni della
propria dignità nel rapporto di lavoro, che non è un mero rapporto commerciale
ma un rapporto tra esseri umani che stabilisce una subordinazione di carattere
esclusivamente funzionale tra pari, tra liberi cittadini uguali. Il diritto
dell'imprenditore a disporre liberamente dei beni dell'impresa adottando le
scelte ritenute necessarie e idonee a conseguire il risultato economico
ottimale.
Poiché è del tutto evidente, senza
bisogno di ricorrere ai classici del pensiero politico o economico né di
scomodare le intere biblioteche di teoria del diritto dedicate all'argomento,
che i due diritti, entrambi tutelati, sono destinati a porsi in conflitto, la
legge deve dettare norme che stabiliscano dove la libertà dell'uno debba cedere
il posto a quella dell'altro. Il modo in cui nel 1970 il legislatore ha fissato
questo limite nel caso dei licenziamenti individuali nelle imprese con più di
15 addetti è contestato dalla parte imprenditoriale.
GLI IMPRENDITORI
CHIEDONO DI MODIFICARE L'EQUILIBRIO STABILITO DALL'ARTICOLO 18. SPETTEREBBE A LORO SPIEGARNE LE RAGIONI MA
NON LO FANNO. PERCHE'?
Così stando le cose, che le due
parti facciano appello ciascuna al proprio diritto è inevitabile e sacrosanto.
Con questo non si avvicina però di un millimetro la soluzione. Personalmente,
trovo tuttavia singolare che la parte imprenditoriale non si faccia carico di
esplicitare le sue ragioni. Essendo quella delle due che chiede un cambiamento,
avrebbe tutto l'interesse a farlo. Invece oscilla tra il parlare d'altro e il tacere.
Tace quando sostiene di voler
tenere in piedi l'articolo 18 per i soli licenziamenti discriminatori. Non dice
infatti in quali casi i licenziamenti, pur essendo privi di una giusta causa,
non avrebbero tuttavia un carattere discriminatorio. Oppure, quando prova a
dirlo, in effetti parla d'altro.
Sono i licenziamenti per motivi
economici, come qualche volta si sente dire? Ma che in un'impresa con più di 15
addetti (dipendenti a tempo indeterminato) possa aver bisogno di ridurre il
personale di una sola unità si può solo scrivere nei libri. Nella realtà è
praticamente impossibile. La giurisprudenza a mala pena segnala qualche caso in
questi quarant'anni. E comunque qualcuno ha già “visto” il bluff accennando
alla possibilità di cancellare il limite minimo per le procedure negoziate in
caso di licenziamenti per motivi economici. Non più almeno cinque: sia consentito
anche per il singolo. Temo però che il rimedio sia peggiore del male, da un
punto di vista sindacale, giacché può aprire la strada a qualche odiosa
“conventio ad excludendum”: ricorro al latino per attenuare, ma tradotto in
linguaggio corrente significa chiamare i sindacati (o una parte di essi) a
controfirmare la messa al bando di qualcuno. Una discriminazione resta tale
anche se a volerla sono in tanti.
Sono i licenziamenti per motivi
disciplinari? Poter cacciare i ladri o i sabotatori? Si dà il caso che siano
già contemplati come giusta causa. Il problema è che non sempre i motivi
disciplinari invocati dal datore di lavoro sono poi riconosciuti tali in
giudizio (per motivi di merito o procedurali). Cancelliamo la procedura
disciplinare e diamo mano libera? In un regime democratico non è neppure
pensabile. Si può accelerare il giudizio, semplificare la procedura e fissare
tempi certi e invalicabili. Sembrano siano tutti d'accordo, ma è davvero tutto
qui?
UNA GUERRA DI
RELIGIONE ATTORNO ALLO “SCARSO RENDIMENTO”. E' QUESTO CHE VOGLIONO LE GRANDI
IMPRESE?
Forse si dovrebbe sputare il rospo
e chiamare le cose con il loro nome. Penso che si possano riassumere in una
locuzione, molto usata ed abusata: “scarso rendimento”. Qui sta il nodo della
vicenda. L'interpretazione corrente della legge riconosce lo scarso rendimento
come giusta causa di licenziamenti solo se deriva da una condotta volutamente
negligente o da una opposizione deliberata e ingiustificata al potere
dispositivo (organizzativo) dell'imprenditore. In questi casi è infatti
ricondotto ai motivi disciplinari, a condizione che siano rispettate le
procedure e il diritto di difesa.
Se invece lo scarso rendimento
deriva da motivi oggettivi o trova comunque una giustificazione che non
configura alcuna violazione disciplinare, allora non rientra tra le giuste
cause di licenziamento. Gli esempi vanno dai problemi di salute, alle
condizioni psico-fisiche, momentanee o congenite, ma possono arrivare a
comprendere anche situazioni di disagio “invalidanti” sia all'interno al luogo
di lavoro sia nell'ambiente esterno, familiare innanzi tutto.
Alla fine della fiera è attorno a
questi casi che si gioca la “guerra di religione”. Non ho la presunzione di
ergermi a giudice (anche perché sarei considerato di parte) ma non posso
evitare di porre qualche domanda “terra terra”. Perché le imprese – i loro
rappresentanti – non la vogliono raccontare giusta, tal quale è davvero? Perché
si affidano alla battuta del bottegaio che può lasciare la moglie che gli mette
le corna ma non il garzone di bottega con cui gliele mette? (Chissà perché poi
non si racconta di una commerciante con la sua commessa...)
In definitiva, si tratta del modo di gestire il personale. Di considerarlo davvero una risorsa, al di là degli slogan sulle HR. Di contrastare il mobbing, ad esempio, individuando i casi, evitando di creare un ambiente propizio alla sua diffusione. Di gettare lo sguardo oltre le mura della fabbrica, senza attentare alla privacy ma cercando soluzioni condivise ed efficaci. Di riconoscere l'esistenza di discriminazioni di genere per adottare misure di contrasto.
Aggiungo: questa reticenza degli
imprenditori, questo modo di sviare per nascondere una propria debolezza, non
dà forse motivo (o un motivo in più) ai sindacati per concedere poca fiducia
alle loro controparti? L'ABC della negoziazione insegna che la condizione
essenziale per raggiungere un accordo sta nella fiducia reciproca, ovvero nella
convinzione, da entrambe le parti, che l'interlocutore stia giocando nel
rispetto delle regole e a carte scoperte.
LE SOLE INTESE
POSSIBILI SULL'ARTICOLO 18 SONO QUELLE MINIMALI, SU PUNTI MARGINALI.
DAVVERO MEGLIO UNA
ROTTURA?
Può anche darsi che, come trapela
dai negoziatori, il contrasto si possa risolvere, pragmaticamente, aumentando
il risarcimento per la risoluzione del rapporto, per renderla più appetibile
rispetto al reintegro; o che, alla fine, si raggiunga un accordo sul
licenziamento individuale, negoziato, per motivi economici. Nonostante le
obiezioni che ho mosso sopra, riconosco che un accordo (di tutti) sarebbe pur
sempre un risultato apprezzabile, almeno in termini politici. Ma si potrebbe
parlare di grande riforma? Di abbattimento delle barriere? Di questo si
tratterebbe se a quel punto la soluzione adottata fosse estesa a tutte le
aziende indipendentemente dalla dimensione. Ma se così non fosse, se una
disciplina universale restasse una pia illusione, allora meglio prendere atto
che la riforma è ancora lontana e non dare l'idea che anche a questo governo
piaccia raccontar favole e prendere gli italiani per gonzi.
C'è poi la questione della
possibilità di un intervento di legge senza accordo. Altra fonte di tensioni
oltre che di confusione.
Gino Giugni e
Giacomo Brodolini, padri dello Statuto dei Lavoratori
E' bene tener presente che in
materia di lavoro il legislatore, che per molti aspetti ha affidato la
regolazione al libero confronto tra le parti, cioè alla contrattazione, quando
si è trattato della risoluzione del rapporto di lavoro, ossia del licenziamento,
per la rilevanza delle implicazioni, si è riservata di dettare la disciplina
senza rinviarla alle parti. Questo particolare va ricordato per inquadrare
meglio la trattativa in corso: si sta discutendo di una materia che il
Parlamento ha sempre regolato in autonomia. Nel 1970, tanto per dire, questa
legge, che gli imprenditori ora contestano, fu approvata dalla maggioranza
DC-PSI senza i voti del PCI che, dopo aver combattuto una fiera battaglia
parlamentare, decise infine di astenersi per rimarcare comunque un dissenso su
punti non secondari.
Il fatto che oggi il governo Monti
stia cercando di arrivare ad un accordo con le parti sociali non è dunque una
via obbligata ma una scelta squisitamente politica. Libero di seguire l'altra
strada: ma una volta assunto un impegno di carattere politico, dimostra poca
saggezza quando continua a ripetere ad ogni pie' sospinto che l'impegno vale
solo fino a diverso avviso, col solo risultato di mettere a repentaglio la
possibilità stessa di giungere ad un accordo. Avendo ben chiaro che è anche
questa, di scarsa saggezza, una valutazione squisitamente politica, che non
contraddice il principio della sovranità del Parlamento. A cui anche il Governo
deve tuttavia sottomettersi.
PERCHE' NON DARSI IL
TEMPO DI UNA SOLUZIONE CHE RICOSTRUISCA UN TESSUTO DI RELAZIONI SINDACALI
STABILE?
CHE SIA COERENTE CON
IL MODELLO SOCIALE CHE L'EUROPA HA POSTO ALLA BASE DELLA SUA COSTITUZIONE? CHE
NON SIA IMPOSTO DAGLI “INVESTITORI GLOBALI”?
Ho dedicato molto spazio alla
questione dell'articolo 18, una questione di principio che sul piano
sostanziale si riduce a a una casistica molto limitata. Se occupa il centro
della scena e rappresenta il maggiore ostacolo non è però per un errore di
valutazione delle parti o per una sorta di puntiglio. La questione di principio
ha un innegabile spessore. Che non si riesca a venirne a capo e che nessuna
soluzione negoziata sia a portata di mano deve però far riflettere. Tutti.
Che cosa rende il nostro paese
così diverso da tutti gli altri? Che cosa impedisce di fissare in modo
sufficientemente stabile nel tempo - e condiviso! - quel confine, tra diritti
in conflitto, di cui abbiamo parlato? Non è anche questa (l'elenco è lungo) una
delle manifestazioni più evidenti di una patologia, di un sistema politico che
dimostra di non essere in grado di assolvere alle funzioni basilari cui è
chiamato?
Se di questo si tratta, non
aspettiamoci una soluzione da qui alla fine del mese. Ma sarebbe già un grande
passo avanti (una grande riforma?) condividere una diagnosi e avviare un ampio
consulto sui rimedi.
Si dirà: ma potrebbe non bastare
ai mercati, che potrebbero punire quello che potrebbe apparire come un passo
indietro, se è proprio vero (vedi Roberto Mania sulla Repubblica dell'11/3) che “gli investitori globali stanno aspettando il governo dei
professori davanti a quella che considerano la vera prova del fuoco: riformare
il mercato del lavoro, sfidando direttamente il potere di veto dei grandi sindacati.
Un`ulteriore discesa dello spread e dei rendimenti dei titoli di Stato dipende
anche da ... nuove regole nel mercato del lavoro, comprese quelle sulla
flessibilità in uscita.”
Ma se per gli italiani anziché un
passo indietro fosse un passo in avanti per riconquistare il futuro, credo che
qualche prezzo ai mercati per il presente potrebbe essere pagato volentieri. Se
non si considera secondaria la difesa della sovranità nazionale in materia di
modello sociale e se si considera che l'intera Europa sta giocando una partita
globale sul modello sociale, stretta tra USA e Cina, i cui sistemi, ammesso che
qualcuno li consideri preferibili, sono tuttavia in contrasto con la
Costituzione adottata formalmente dall'Unione.
DARSI IL TEMPO E IL
PERCORSO GIUSTO NON SAREBBE UNA PROVA DI DEBOLEZZA. SAREBBE UN ATTO DI GRANDE
CORAGGIO POLITICO
Se non altro per questo motivo,
non possono in ogni caso essere importati prescindendo da un percorso
democratico almeno paragonabile a quello che, tra grandi lutti e sacrifici, ha
caratterizzato le origini del modello attualmente prevalente oltre che a quello
che ha portato ventisette Paesi a pronunciarsi su una Carta Fondamentale. Non
solo una legge nazionale, italiana, è dunque in discussione. E non va
dimenticato che in Francia si vota tra poco e che i tedeschi andranno alle urne
immediatamente dopo gli italiani l'anno prossimo. Darsi tempo non sarebbe
dunque un atto di debolezza ma la dimostrazione di un grande coraggio politico.
Una sfida al potere economico finanziario.
Mi fermo qui. Restano però le altre questioni e, tra tutte, quella molto importante dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”. Se anche in questo campo il risultato fosse un buco nell'acqua, o il classico topolino, non sarebbe un problema di poco conto. A differenza dell'articolo 18, procedere con lentezza e cautela in questa materia, dopo un quindicennio di attese e rinvii, non sarebbe un risultato esaltante.
Anche su questo tema c'è una fitta
nebbia da diradare. Mancano i soldi, il problema sembra tutto lì. Ma non è
così. Non essendo una questione da esaurire in poche righe, la rinvio alla
prossima settimana avendo già abusato a sufficienza della pazienza del lettore.