domenica 11 marzo 2012

Articolo 18. Due idee di Europa a confronto


[8 marzo – 15 marzo]
Facciamo il punto sulla trattativa in corso attorno alla riforma del mercato del lavoro.
Appare come la questione politica più rilevante sul piano nazionale. Carica di tensioni, può decidere della direzione che prenderà il quadro politico nei prossimi anni. Al centro, una questione di principio, la tutela del lavoratore licenziato senza giusta causa.
Se ne parla molto, ma in fin dei conti si parla d'altro. La sostanza della questione articolo 18 resta nascosta in una fitta nebbia.
E “la risposta che attendono i mercati” ha poco a che vedere con quella sostanza. Riguarda piuttosto il modello sociale e il sistema di relazioni sindacali. 
E' bene saperlo. Per stare al gioco o per aprire un'altra partita: il modello sociale rientra ancora nella sovranità nazionale?

TEMPI STRETTI PER LA RIFORMA IN AGENDA. SI ARRIVERA' A UN ACCORDO ENTRO MARZO?


Che sta succedendo a Palazzo Chigi tra Governo, sindacati e associazioni imprenditoriali sulla riforma del mercato del lavoro?
Si avvicina la scadenza di fine marzo che il premier Monti ha stabilito per una conclusione. Scintille e tensioni tra le parti si alternano a momenti di (cauto) ottimismo. Si può in qualche modo prevedere come andrà a finire? Proviamo a fare il punto.
Passiamo in rassegna i singoli temi in agenda, partendo da quelli sui quali le posizioni non sembra siano distanti.

SUI TEMI IN AGENDA UN ACCORDO E' POSSIBILE. TAGLIA “SMALL”
Revisione delle tipologie contrattuali, in direzione di uno sfoltimento. L'obiettivo è condiviso così come le valutazioni su molte delle singole forme sotto esame.
Apprendistato. C'è un accordo (di principio) sull'obiettivo di un rilancio dell'istituto a partire dall'”avviso comune” sottoscritto lo scorso anno da tutte le parti in causa (Stato, Regioni, sindacati, associazioni imprenditoriali).


Flessibilità in uscita (articolo 18). C'è accordo sulla necessità di uno snellimento dei tempi dei processi. Per il resto, nebbia fitta.
Ammortizzatori sociali. E' condivisa la necessità di una riforma che metta ordine tra i diversi istituti così da assicurare una copertura “universalistica” per tutti i rapporti di lavoro (anche parasubordinati) e per tutte le tipologie di imprese, distinguendo tra due fattispecie fondamentali: perdita del posto di lavoro e sospensione temporanea.
Su quest'ultimo argomento si è però decisa una sospensione della trattativa per una verifica delle risorse che possono essere messe in campo. La verifica non sembra abbia lasciato intravedere grandi margini di manovra.
Prima di concludere si dovrà andare più a fondo sull'articolo 18, tema su cui si concentrano le maggiori tensioni.
Diciamo la verità. Se sugli ammortizzatori le risorse si confermano scarse (se non nulle) e sull'articolo 18, i margini di intesa essendo ridotti all'osso, il Governo non forza la mano, l'intesa si riduce a ben poca cosa. Tanto rumore per nulla?
Vediamo allora un po' più da vicino le questioni aperte.

LO SCONTRO SULL'ARTICOLO 18 E' IL TEMA CHIAVE. UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO SU CUI UN ACCORDO NON APPARE POSSIBILE.
DUE DIRITTI TUTELATI SONO IN CONFLITTO.'

Quella su cui è concentrata l'attenzione, quella che può portare alla rottura, è l'articolo 18. Appare come uno scontro di civiltà, o di culture, e in un certo senso lo è perché ognuna delle due parti ritiene di dover difendere strenuamente un diritto intangibile, non disponibile. Il diritto del lavoratore come persona a non subire lesioni della propria dignità nel rapporto di lavoro, che non è un mero rapporto commerciale ma un rapporto tra esseri umani che stabilisce una subordinazione di carattere esclusivamente funzionale tra pari, tra liberi cittadini uguali. Il diritto dell'imprenditore a disporre liberamente dei beni dell'impresa adottando le scelte ritenute necessarie e idonee a conseguire il risultato economico ottimale.

Poiché è del tutto evidente, senza bisogno di ricorrere ai classici del pensiero politico o economico né di scomodare le intere biblioteche di teoria del diritto dedicate all'argomento, che i due diritti, entrambi tutelati, sono destinati a porsi in conflitto, la legge deve dettare norme che stabiliscano dove la libertà dell'uno debba cedere il posto a quella dell'altro. Il modo in cui nel 1970 il legislatore ha fissato questo limite nel caso dei licenziamenti individuali nelle imprese con più di 15 addetti è contestato dalla parte imprenditoriale.

GLI IMPRENDITORI CHIEDONO DI MODIFICARE L'EQUILIBRIO STABILITO DALL'ARTICOLO 18.  SPETTEREBBE A LORO SPIEGARNE LE RAGIONI MA NON LO FANNO. PERCHE'?

Così stando le cose, che le due parti facciano appello ciascuna al proprio diritto è inevitabile e sacrosanto. Con questo non si avvicina però di un millimetro la soluzione. Personalmente, trovo tuttavia singolare che la parte imprenditoriale non si faccia carico di esplicitare le sue ragioni. Essendo quella delle due che chiede un cambiamento, avrebbe tutto l'interesse a farlo. Invece oscilla tra il parlare d'altro e il tacere.
Tace quando sostiene di voler tenere in piedi l'articolo 18 per i soli licenziamenti discriminatori. Non dice infatti in quali casi i licenziamenti, pur essendo privi di una giusta causa, non avrebbero tuttavia un carattere discriminatorio. Oppure, quando prova a dirlo, in effetti parla d'altro.

Sono i licenziamenti per motivi economici, come qualche volta si sente dire? Ma che in un'impresa con più di 15 addetti (dipendenti a tempo indeterminato) possa aver bisogno di ridurre il personale di una sola unità si può solo scrivere nei libri. Nella realtà è praticamente impossibile. La giurisprudenza a mala pena segnala qualche caso in questi quarant'anni. E comunque qualcuno ha già “visto” il bluff accennando alla possibilità di cancellare il limite minimo per le procedure negoziate in caso di licenziamenti per motivi economici. Non più almeno cinque: sia consentito anche per il singolo. Temo però che il rimedio sia peggiore del male, da un punto di vista sindacale, giacché può aprire la strada a qualche odiosa “conventio ad excludendum”: ricorro al latino per attenuare, ma tradotto in linguaggio corrente significa chiamare i sindacati (o una parte di essi) a controfirmare la messa al bando di qualcuno. Una discriminazione resta tale anche se a volerla sono in tanti.
Sono i licenziamenti per motivi disciplinari? Poter cacciare i ladri o i sabotatori? Si dà il caso che siano già contemplati come giusta causa. Il problema è che non sempre i motivi disciplinari invocati dal datore di lavoro sono poi riconosciuti tali in giudizio (per motivi di merito o procedurali). Cancelliamo la procedura disciplinare e diamo mano libera? In un regime democratico non è neppure pensabile. Si può accelerare il giudizio, semplificare la procedura e fissare tempi certi e invalicabili. Sembrano siano tutti d'accordo, ma è davvero tutto qui?

UNA GUERRA DI RELIGIONE ATTORNO ALLO “SCARSO RENDIMENTO”. E' QUESTO CHE VOGLIONO LE GRANDI IMPRESE?

Forse si dovrebbe sputare il rospo e chiamare le cose con il loro nome. Penso che si possano riassumere in una locuzione, molto usata ed abusata: “scarso rendimento”. Qui sta il nodo della vicenda. L'interpretazione corrente della legge riconosce lo scarso rendimento come giusta causa di licenziamenti solo se deriva da una condotta volutamente negligente o da una opposizione deliberata e ingiustificata al potere dispositivo (organizzativo) dell'imprenditore. In questi casi è infatti ricondotto ai motivi disciplinari, a condizione che siano rispettate le procedure e il diritto di difesa.
Se invece lo scarso rendimento deriva da motivi oggettivi o trova comunque una giustificazione che non configura alcuna violazione disciplinare, allora non rientra tra le giuste cause di licenziamento. Gli esempi vanno dai problemi di salute, alle condizioni psico-fisiche, momentanee o congenite, ma possono arrivare a comprendere anche situazioni di disagio “invalidanti” sia all'interno al luogo di lavoro sia nell'ambiente esterno, familiare innanzi tutto.

Alla fine della fiera è attorno a questi casi che si gioca la “guerra di religione”. Non ho la presunzione di ergermi a giudice (anche perché sarei considerato di parte) ma non posso evitare di porre qualche domanda “terra terra”. Perché le imprese – i loro rappresentanti – non la vogliono raccontare giusta, tal quale è davvero? Perché si affidano alla battuta del bottegaio che può lasciare la moglie che gli mette le corna ma non il garzone di bottega con cui gliele mette? (Chissà perché poi non si racconta di una commerciante con la sua commessa...)


In definitiva, si tratta del modo di gestire il personale. Di considerarlo davvero una risorsa, al di là degli slogan sulle HR. Di contrastare il mobbing, ad esempio, individuando i casi, evitando di creare un ambiente propizio alla sua diffusione. Di gettare lo sguardo oltre le mura della fabbrica, senza attentare alla privacy ma cercando soluzioni condivise ed efficaci. Di riconoscere l'esistenza di discriminazioni di genere per adottare misure di contrasto.
Aggiungo: questa reticenza degli imprenditori, questo modo di sviare per nascondere una propria debolezza, non dà forse motivo (o un motivo in più) ai sindacati per concedere poca fiducia alle loro controparti? L'ABC della negoziazione insegna che la condizione essenziale per raggiungere un accordo sta nella fiducia reciproca, ovvero nella convinzione, da entrambe le parti, che l'interlocutore stia giocando nel rispetto delle regole e a carte scoperte.

LE SOLE INTESE POSSIBILI SULL'ARTICOLO 18 SONO QUELLE MINIMALI, SU PUNTI MARGINALI.
DAVVERO MEGLIO UNA ROTTURA?

Può anche darsi che, come trapela dai negoziatori, il contrasto si possa risolvere, pragmaticamente, aumentando il risarcimento per la risoluzione del rapporto, per renderla più appetibile rispetto al reintegro; o che, alla fine, si raggiunga un accordo sul licenziamento individuale, negoziato, per motivi economici. Nonostante le obiezioni che ho mosso sopra, riconosco che un accordo (di tutti) sarebbe pur sempre un risultato apprezzabile, almeno in termini politici. Ma si potrebbe parlare di grande riforma? Di abbattimento delle barriere? Di questo si tratterebbe se a quel punto la soluzione adottata fosse estesa a tutte le aziende indipendentemente dalla dimensione. Ma se così non fosse, se una disciplina universale restasse una pia illusione, allora meglio prendere atto che la riforma è ancora lontana e non dare l'idea che anche a questo governo piaccia raccontar favole e prendere gli italiani per gonzi.
C'è poi la questione della possibilità di un intervento di legge senza accordo. Altra fonte di tensioni oltre che di confusione.

      
Gino Giugni e Giacomo Brodolini, padri dello Statuto dei Lavoratori

E' bene tener presente che in materia di lavoro il legislatore, che per molti aspetti ha affidato la regolazione al libero confronto tra le parti, cioè alla contrattazione, quando si è trattato della risoluzione del rapporto di lavoro, ossia del licenziamento, per la rilevanza delle implicazioni, si è riservata di dettare la disciplina senza rinviarla alle parti. Questo particolare va ricordato per inquadrare meglio la trattativa in corso: si sta discutendo di una materia che il Parlamento ha sempre regolato in autonomia. Nel 1970, tanto per dire, questa legge, che gli imprenditori ora contestano, fu approvata dalla maggioranza DC-PSI senza i voti del PCI che, dopo aver combattuto una fiera battaglia parlamentare, decise infine di astenersi per rimarcare comunque un dissenso su punti non secondari.
Il fatto che oggi il governo Monti stia cercando di arrivare ad un accordo con le parti sociali non è dunque una via obbligata ma una scelta squisitamente politica. Libero di seguire l'altra strada: ma una volta assunto un impegno di carattere politico, dimostra poca saggezza quando continua a ripetere ad ogni pie' sospinto che l'impegno vale solo fino a diverso avviso, col solo risultato di mettere a repentaglio la possibilità stessa di giungere ad un accordo. Avendo ben chiaro che è anche questa, di scarsa saggezza, una valutazione squisitamente politica, che non contraddice il principio della sovranità del Parlamento. A cui anche il Governo deve tuttavia sottomettersi.

PERCHE' NON DARSI IL TEMPO DI UNA SOLUZIONE CHE RICOSTRUISCA UN TESSUTO DI RELAZIONI SINDACALI STABILE?
CHE SIA COERENTE CON IL MODELLO SOCIALE CHE L'EUROPA HA POSTO ALLA BASE DELLA SUA COSTITUZIONE? CHE NON SIA IMPOSTO DAGLI “INVESTITORI GLOBALI”?

Ho dedicato molto spazio alla questione dell'articolo 18, una questione di principio che sul piano sostanziale si riduce a a una casistica molto limitata. Se occupa il centro della scena e rappresenta il maggiore ostacolo non è però per un errore di valutazione delle parti o per una sorta di puntiglio. La questione di principio ha un innegabile spessore. Che non si riesca a venirne a capo e che nessuna soluzione negoziata sia a portata di mano deve però far riflettere. Tutti.
Che cosa rende il nostro paese così diverso da tutti gli altri? Che cosa impedisce di fissare in modo sufficientemente stabile nel tempo - e condiviso! - quel confine, tra diritti in conflitto, di cui abbiamo parlato? Non è anche questa (l'elenco è lungo) una delle manifestazioni più evidenti di una patologia, di un sistema politico che dimostra di non essere in grado di assolvere alle funzioni basilari cui è chiamato?
Se di questo si tratta, non aspettiamoci una soluzione da qui alla fine del mese. Ma sarebbe già un grande passo avanti (una grande riforma?) condividere una diagnosi e avviare un ampio consulto sui rimedi.
Si dirà: ma potrebbe non bastare ai mercati, che potrebbero punire quello che potrebbe apparire come un passo indietro, se è proprio vero (vedi Roberto Mania sulla Repubblica dell'11/3) che “gli investitori globali stanno aspettando il governo dei professori davanti a quella che considerano la vera prova del fuoco: riformare il mercato del lavoro, sfidando direttamente il potere di veto dei grandi sindacati. Un`ulteriore discesa dello spread e dei rendimenti dei titoli di Stato dipende anche da ... nuove regole nel mercato del lavoro, comprese quelle sulla flessibilità in uscita.”

Ma se per gli italiani anziché un passo indietro fosse un passo in avanti per riconquistare il futuro, credo che qualche prezzo ai mercati per il presente potrebbe essere pagato volentieri. Se non si considera secondaria la difesa della sovranità nazionale in materia di modello sociale e se si considera che l'intera Europa sta giocando una partita globale sul modello sociale, stretta tra USA e Cina, i cui sistemi, ammesso che qualcuno li consideri preferibili, sono tuttavia in contrasto con la Costituzione adottata formalmente dall'Unione.

DARSI IL TEMPO E IL PERCORSO GIUSTO NON SAREBBE UNA PROVA DI DEBOLEZZA. SAREBBE UN ATTO DI GRANDE CORAGGIO POLITICO

Se non altro per questo motivo, non possono in ogni caso essere importati prescindendo da un percorso democratico almeno paragonabile a quello che, tra grandi lutti e sacrifici, ha caratterizzato le origini del modello attualmente prevalente oltre che a quello che ha portato ventisette Paesi a pronunciarsi su una Carta Fondamentale. Non solo una legge nazionale, italiana, è dunque in discussione. E non va dimenticato che in Francia si vota tra poco e che i tedeschi andranno alle urne immediatamente dopo gli italiani l'anno prossimo. Darsi tempo non sarebbe dunque un atto di debolezza ma la dimostrazione di un grande coraggio politico. Una sfida al potere economico finanziario.




Mi fermo qui. Restano però le altre questioni e, tra tutte, quella molto importante dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”. Se anche in questo campo il risultato fosse un buco nell'acqua, o il classico topolino, non sarebbe un problema di poco conto. A differenza dell'articolo 18, procedere con lentezza e cautela in questa materia, dopo un quindicennio di attese e rinvii, non sarebbe un risultato esaltante.
Anche su questo tema c'è una fitta nebbia da diradare. Mancano i soldi, il problema sembra tutto lì. Ma non è così. Non essendo una questione da esaurire in poche righe, la rinvio alla prossima settimana avendo già abusato a sufficienza della pazienza del lettore.