[16
marzo – 23 marzo]
Devo
procedere a un aggiornamento, quasi in tempo reale, al mio post di
questa settimana sulla trattativa per la riforma del mercato del
lavoro. Alla luce di quanto è emerso dalla riunione di ieri sera (20
marzo) la domanda che mi ponevo trova la seguente risposta: si
profila UN DITO NELL'OCCHIO PIÙ UN PASTICCIO. O, meglio, pur di
mettere un dito nell'occhio a una parte del sindacato (e al PD) si
confeziona una soluzione per l'articolo 18 che non è solo una
barbarie sociale ma anche un mostro giuridico. Che contrasta con
convenzioni internazionali e direttive europee, viola la Costituzione
italiana e aprirà un contenzioso infinito, altre a uno scontro
sociale senza confini. A chi serve? Altro che passo avanti! E'
certamente un passo indietro PER ENTRAMBE LE PARTI.
La
scelta più difficile grava sul PD. La mia opinione è che debba fare
la sua parte esprimendo in modo netto il suo dissenso e le sue
proposte di modifica radicale, sostanziale, sui punti che ledono
diritti fondamentali. Se questo governo deve durare, per portare
l'Italia fuori dalla emergenza, questo è il solo modo per aiutarlo.
ALLE
BATTUTE FINALI DELLA TRATTATIVA SULLA RIFORMA PRENDE CORPO, IN MODO
PIU' CHIARO, L'IPOTESI DI ACCORDO.
Sono
obbligato ad aggiornare, quasi in tempo reale, il commento sulla
trattativa in corso per la “Grande riforma” del mercato del
lavoro. Ieri sera (20 marzo) ha preso corpo l'ipotesi di accordo in
particolare sull'articolo 18, mentre scrivo queste righe. Faccio
dunque di nuovo il punto su questo argomento.
Molte
delle anticipazioni troverebbero conferma. Si materializzano però
anche alcuni dei peggiori timori. Il puro azzardo, politico e
giuridico, tale da provocare guai seri, a cui mi riferivo nel post
precedente sembra venga perseguito con poca o nulla attenzione
perfino alle conseguenze che ne possono derivare per il sistema di
relazioni industriali. Il prezzo, quando viene meno la certezza del
diritto, lo pagano tutti, da una parte e dall'altra. Si rischia di
entrare in una fase di indeterminatezza e di contenzioso molto
peggiore di quella a cui gli imprenditori dicono di voler sfuggire.
RESTA
IL NO AI LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI. OK. MA E' PROPRIO VERO?
Torniamo
al merito delle anticipazioni. Si confermano i tre punti su cui mi
sono soffermato, a partire dal primo: resterà in piedi l'articolo 18
per i licenziamenti discriminatori.
Bene.
Partiamo da qui. Se è vero, significa che resta in piedi (sopra e
sotto la soglia dei 15 addetti) la norma secondo cui il
licenziamento per motivi discriminatori è nullo (all'art.
3, legge n. 108 del 1990) "
indipendentemente
dalla motivazione addotta”.
UNA
MODIFICA AL CODICE DISCIPLINARE: PREVEDERE ANCHE LA SANZIONE DEL
LICENZIAMENTO CON RISARCIMENTO. SI PUO' FARE. MA E' DI QUESTO CHE SI
TRATTA?
Vediamo
allora che cosa cambierebbe per i licenziamenti disciplinari. A
questo proposito sembra si vada chiarendo il fatto che
affidare al giudice la decisione tra reintegro e risarcimento
significa che tra le sanzioni che possono essere comminate al
lavoratore in caso di violazioni disciplinari da qui in avanti potrà
essere contemplato anche il licenziamento
CON RISARCIMENTO.
Non sono però tollerabili, su una questione di questo peso,
ambiguità o confusioni. Non si possono ripetere le tragiche
esperienze dei “lodi interpretativi”. Se significa che il
licenziamento deve comunque apparire motivato e che cambia la
graduazione delle sanzioni, lo si deve scrivere con la massima
chiarezza. E, per dire, si deve richiamare esplicitamente la
responsabilità delle parti sociali nel momento della contrattazione
per la definizione del codice disciplinare che dovrà contenere
questa nuova sanzione.
Si
immagina di dare risposta in questi termini al problema, di cui mi
sono occupato ampiamente in precedenza, dello “scarso rendimento”
e del confine tra una condotta volutamente inadempiente rispetto agli
obblighi contrattuali ed una che, pur oggettivamente non
soddisfacente, derivi da condizioni che comunque non discendono dalla
volontà del lavoratore? Se così fosse non troverei questa risposta
scandalosa, né lesiva di principi generali, pur ritenendo, in una
valutazione serena, che possa prestarsi ad obiezioni. Così chiarita,
non rappresenterebbe, a mio avviso, un motivo di rottura e non pare
lo rappresenti neppure per la CGIL.
IL
“VULNUS” INSANABILE, IL DITO NELL'OCCHIO: SI PUO' LICENZIARE PER
MOTIVI ECONOMICI, ANCHE SOLO “ADDOTTI”. CHE SENSO HA? BARBARIE
SOCIALE, MOSTRO GIURIDICO
Il
pasticcio, e il vulnus non sanabile, si sta invece profilando per i
licenziamenti per motivi economici, per i quali la formula adottata
sarebbe proprio quella, che definivo abusata oltre che vaga, dei
“motivi tecnici e organizzativi”. Per questi, sembra che al
giudice NON SAREBBE LASCIATA FACOLTA' DI DECIDERE PER UN EVENTUALE
OBBLIGO DI REINTEGRO. Ovvero, si deve dedurre, non potrebbe
dichiararlo nullo neanche se si trattasse di un LICENZIAMENTO
DISCRIMINATORIO MASCHERATO e dovrebbe limitarsi a stabilire un
risarcimento (in misura più cospicua, pari al doppio secondo le
anticipazioni, rispetto a quella oggi vigente).
Un
vulnus – e un pasticcio – che sarebbe motivato solo dall'intento
di colpire la CGIL dopo aver ricattato CISL e UIL con la speranza di
spaccare finalmente il PD. Di nuovo la guerra come continuazione
della politica (di Sacconi e Berlusconi) sulla punta delle armi. Lo
chiedono i mercati? Ridicolo e offensivo!
Vediamo
la questione più da vicino. In primo luogo non è neppure pensabile
(solo Sacconi ha provato a farlo) che la legge possa impedire al
giudice di sindacare alcunché. Immaginiamo anche l'inimmaginabile:
che si cancelli la seconda parte dell'articolo sui licenziamenti
discriminatori, quell'”indipendentemente dal motivo addotto”
che obbliga il giudice, senza eccezione possibile, a entrare nel
merito. Occhio al verbo, “addurre”, che è molto lontano dal
significato del verbo “provare”. Un motivo addotto ma non
comprovato non può ovviamente bastare al giudice per avallare un
atto discriminatorio. Questa affermazione, che uno studente del primo
anno di giurisprudenza definirebbe un “brocardo”, non può essere
cancellata. Ovvero, se anche si abrogasse il passaggio nel testo,
manterrebbe tutto il suo valore.
E se si inventasse una formula
aggiuntiva del tipo “a meno che il motivo addotto non sia di
carattere economico” da un lato si farebbero ridere i polli (se lo
ipotizzasse quello stesso studente del primo anno si giocherebbe il
fatidico diciotto) e si cadrebbe sotto la scure della Corte Suprema
(ma, a mio parere, anche di un qualunque giudice del lavoro che,
forte delle sue prerogative, se ne infischierebbe altamente).
Dall'altro però sarebbe la prova provata – quasi da “reo
confesso” - dell'intento politico sottostante.
Mettiamola
così: una norma sui licenziamenti dettata da intento discriminatorio
(verso la CGIL, ad es.) sarebbe nulla – o comunque insostenibile e
non condivisibile - “indipendentemente dal motivo addotto”.
Mercati o non mercati, spread o non spread, checché ne dicano Alfano
e Sacconi.
Su
questo il PD non può cedere neppure di un millimetro. L'emendamento
è semplice. O, meglio, se ne possono immaginare due alternativi. In
un primo caso si può fare ricorso alla 223 (ipotesi iniziale della
CISL), quindi inquadrare il licenziamento economico nelle
procedure (che passano per accordi sindacali) previste per i
licenziamenti economici collettivi. Ho espresso le mie riserve al
riguardo (rischio di “messa al bando concordata”) ma in ogni caso
sarebbero riserve relative e non un'opposizione assoluta in quanto
resterebbe a disposizione del lavoratore il passaggio attraverso la
sede giurisdizionale, in cui il giudice può sempre sindacare, come
si è detto, la sussistenza del motivo addotto, anche quando vi sia
un accordo all'origine.
Se
poi le parti in sede negoziale mettessero a punto una procedura
“garantista”, che oltre a valere per questi casi potrebbe
migliorare anche la procedura oggi vigente per i licenziamenti
collettivi, si potrebbe davvero fare un passo avanti.
LE
ALTERNATIVE: STESSA PROCEDURA DEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI O
INTERVENTO DEL GIUDICE. NON SONO CONVINCENTI MA NON LEDONO I PRINCIPI
FONDAMENTALI
L'alternativa
è quella di mettere i licenziamenti economici direttamente nelle
mani del giudice. L'obiezione in questo caso riguarda il carico
processuale dei magistrati del lavoro: ci si lamenta della lentezza
della giustizia, sarebbe quindi da evitare ogni ulteriore aggravio.
In ogni caso non si tratta di un'obiezione di principio, anche qui,
né pertanto di un possibile motivo di rottura. Con un corollario,
tuttavia. Che, come avviene nel tanto declamato modello tedesco, il
giudice dovrebbe avere il diritto di sindacare le ragioni
economiche ANCHE IN UN TEMPO SUCCESSIVO, riservandosi dunque la
facoltà (oltre che di annullare ovvero avallare) anche di IMPORRE
LA RIASSUNZIONE IN UN SECONDO MOMENTO. Ipotesi diversa dal
reintegro, e tuttavia da non escludere a priori.
MA
NEL NUOVO QUADRO, SE EMENDATO, NON SI GIUSTIFICA LA SOGLIA DEI 15
ADDETTI. VALE PER TUTTI?
Infine,
un'ultima considerazione da fare è la seguente. Se si andasse verso
una soluzione emendata, del genere che qui ho provato a delineare (e
su cui credo potrebbe lavorare proficuamente il PD prima di decidere
di staccare la spina a questo governo) la situazione che si
configurerebbe NON GIUSTIFICHEREBBE PIU' DA NESSUN PUNTO DI VISTA
UNA DISTINZIONE TRA IMPRESE GRANDI E PICCOLE. Con le modifiche al
codice disciplinare e quelle ai limiti dimensionali dei licenziamenti
per motivi economici (comprovati) il quadro normativo sarebbe
totalmente applicabile alle imprese al di sotto dei 15 addetti. Si
vuole lasciare un margine minimo, alla tedesca (5 addetti)? Non
avrebbe grandi ragioni oggettive ma se dovesse essere il prezzo
finale da pagare per un compromesso, per quello che può valere il
mio parere, non mi scandalizzerei.