mercoledì 21 marzo 2012

Articolo 18. Dito nell'occhio + pasticcio. Inaccettabile


[16 marzo – 23 marzo]
Devo procedere a un aggiornamento, quasi in tempo reale, al mio post di questa settimana sulla trattativa per la riforma del mercato del lavoro. Alla luce di quanto è emerso dalla riunione di ieri sera (20 marzo) la domanda che mi ponevo trova la seguente risposta: si profila UN DITO NELL'OCCHIO PIÙ UN PASTICCIO. O, meglio, pur di mettere un dito nell'occhio a una parte del sindacato (e al PD) si confeziona una soluzione per l'articolo 18 che non è solo una barbarie sociale ma anche un mostro giuridico. Che contrasta con convenzioni internazionali e direttive europee, viola la Costituzione italiana e aprirà un contenzioso infinito, altre a uno scontro sociale senza confini. A chi serve? Altro che passo avanti! E' certamente un passo indietro PER ENTRAMBE LE PARTI.
La scelta più difficile grava sul PD. La mia opinione è che debba fare la sua parte esprimendo in modo netto il suo dissenso e le sue proposte di modifica radicale, sostanziale, sui punti che ledono diritti fondamentali. Se questo governo deve durare, per portare l'Italia fuori dalla emergenza, questo è il solo modo per aiutarlo.

ALLE BATTUTE FINALI DELLA TRATTATIVA SULLA RIFORMA PRENDE CORPO, IN MODO PIU' CHIARO, L'IPOTESI DI ACCORDO.
Sono obbligato ad aggiornare, quasi in tempo reale, il commento sulla trattativa in corso per la “Grande riforma” del mercato del lavoro. Ieri sera (20 marzo) ha preso corpo l'ipotesi di accordo in particolare sull'articolo 18, mentre scrivo queste righe. Faccio dunque di nuovo il punto su questo argomento.
                       
Molte delle anticipazioni troverebbero conferma. Si materializzano però anche alcuni dei peggiori timori. Il puro azzardo, politico e giuridico, tale da provocare guai seri, a cui mi riferivo nel post precedente sembra venga perseguito con poca o nulla attenzione perfino alle conseguenze che ne possono derivare per il sistema di relazioni industriali. Il prezzo, quando viene meno la certezza del diritto, lo pagano tutti, da una parte e dall'altra. Si rischia di entrare in una fase di indeterminatezza e di contenzioso molto peggiore di quella a cui gli imprenditori dicono di voler sfuggire.

RESTA IL NO AI LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI. OK. MA E' PROPRIO VERO?
Torniamo al merito delle anticipazioni. Si confermano i tre punti su cui mi sono soffermato, a partire dal primo: resterà in piedi l'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori.
Bene. Partiamo da qui. Se è vero, significa che resta in piedi (sopra e sotto la soglia dei 15 addetti) la norma secondo cui il licenziamento per motivi discriminatori è nullo (all'art. 3, legge n. 108 del 1990) " indipendentemente dalla motivazione addotta”.

UNA MODIFICA AL CODICE DISCIPLINARE: PREVEDERE ANCHE LA SANZIONE DEL LICENZIAMENTO CON RISARCIMENTO. SI PUO' FARE. MA E' DI QUESTO CHE SI TRATTA?
Vediamo allora che cosa cambierebbe per i licenziamenti disciplinari. A questo proposito sembra si vada chiarendo il fatto che affidare al giudice la decisione tra reintegro e risarcimento significa che tra le sanzioni che possono essere comminate al lavoratore in caso di violazioni disciplinari da qui in avanti potrà essere contemplato anche il licenziamento CON RISARCIMENTO. Non sono però tollerabili, su una questione di questo peso, ambiguità o confusioni. Non si possono ripetere le tragiche esperienze dei “lodi interpretativi”. Se significa che il licenziamento deve comunque apparire motivato e che cambia la graduazione delle sanzioni, lo si deve scrivere con la massima chiarezza. E, per dire, si deve richiamare esplicitamente la responsabilità delle parti sociali nel momento della contrattazione per la definizione del codice disciplinare che dovrà contenere questa nuova sanzione.
 
Si immagina di dare risposta in questi termini al problema, di cui mi sono occupato ampiamente in precedenza, dello “scarso rendimento” e del confine tra una condotta volutamente inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali ed una che, pur oggettivamente non soddisfacente, derivi da condizioni che comunque non discendono dalla volontà del lavoratore? Se così fosse non troverei questa risposta scandalosa, né lesiva di principi generali, pur ritenendo, in una valutazione serena, che possa prestarsi ad obiezioni. Così chiarita, non rappresenterebbe, a mio avviso, un motivo di rottura e non pare lo rappresenti neppure per la CGIL.

IL “VULNUS” INSANABILE, IL DITO NELL'OCCHIO: SI PUO' LICENZIARE PER MOTIVI ECONOMICI, ANCHE SOLO “ADDOTTI”. CHE SENSO HA? BARBARIE SOCIALE, MOSTRO GIURIDICO
Il pasticcio, e il vulnus non sanabile, si sta invece profilando per i licenziamenti per motivi economici, per i quali la formula adottata sarebbe proprio quella, che definivo abusata oltre che vaga, dei “motivi tecnici e organizzativi”. Per questi, sembra che al giudice NON SAREBBE LASCIATA FACOLTA' DI DECIDERE PER UN EVENTUALE OBBLIGO DI REINTEGRO. Ovvero, si deve dedurre, non potrebbe dichiararlo nullo neanche se si trattasse di un LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO MASCHERATO e dovrebbe limitarsi a stabilire un risarcimento (in misura più cospicua, pari al doppio secondo le anticipazioni, rispetto a quella oggi vigente).
Un vulnus – e un pasticcio – che sarebbe motivato solo dall'intento di colpire la CGIL dopo aver ricattato CISL e UIL con la speranza di spaccare finalmente il PD. Di nuovo la guerra come continuazione della politica (di Sacconi e Berlusconi) sulla punta delle armi. Lo chiedono i mercati? Ridicolo e offensivo!
Vediamo la questione più da vicino. In primo luogo non è neppure pensabile (solo Sacconi ha provato a farlo) che la legge possa impedire al giudice di sindacare alcunché. Immaginiamo anche l'inimmaginabile: che si cancelli la seconda parte dell'articolo sui licenziamenti discriminatori, quell'”indipendentemente dal motivo addotto” che obbliga il giudice, senza eccezione possibile, a entrare nel merito. Occhio al verbo, “addurre”, che è molto lontano dal significato del verbo “provare”. Un motivo addotto ma non comprovato non può ovviamente bastare al giudice per avallare un atto discriminatorio. Questa affermazione, che uno studente del primo anno di giurisprudenza definirebbe un “brocardo”, non può essere cancellata. Ovvero, se anche si abrogasse il passaggio nel testo, manterrebbe tutto il suo valore.
                                       
E se si inventasse una formula aggiuntiva del tipo “a meno che il motivo addotto non sia di carattere economico” da un lato si farebbero ridere i polli (se lo ipotizzasse quello stesso studente del primo anno si giocherebbe il fatidico diciotto) e si cadrebbe sotto la scure della Corte Suprema (ma, a mio parere, anche di un qualunque giudice del lavoro che, forte delle sue prerogative, se ne infischierebbe altamente). Dall'altro però sarebbe la prova provata – quasi da “reo confesso” - dell'intento politico sottostante.
Mettiamola così: una norma sui licenziamenti dettata da intento discriminatorio (verso la CGIL, ad es.) sarebbe nulla – o comunque insostenibile e non condivisibile - “indipendentemente dal motivo addotto”. Mercati o non mercati, spread o non spread, checché ne dicano Alfano e Sacconi.
Su questo il PD non può cedere neppure di un millimetro. L'emendamento è semplice. O, meglio, se ne possono immaginare due alternativi. In un primo caso si può fare ricorso alla 223 (ipotesi iniziale della CISL), quindi inquadrare il licenziamento economico nelle procedure (che passano per accordi sindacali) previste per i licenziamenti economici collettivi. Ho espresso le mie riserve al riguardo (rischio di “messa al bando concordata”) ma in ogni caso sarebbero riserve relative e non un'opposizione assoluta in quanto resterebbe a disposizione del lavoratore il passaggio attraverso la sede giurisdizionale, in cui il giudice può sempre sindacare, come si è detto, la sussistenza del motivo addotto, anche quando vi sia un accordo all'origine.
Se poi le parti in sede negoziale mettessero a punto una procedura “garantista”, che oltre a valere per questi casi potrebbe migliorare anche la procedura oggi vigente per i licenziamenti collettivi, si potrebbe davvero fare un passo avanti.

LE ALTERNATIVE: STESSA PROCEDURA DEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI O INTERVENTO DEL GIUDICE. NON SONO CONVINCENTI MA NON LEDONO I PRINCIPI FONDAMENTALI
L'alternativa è quella di mettere i licenziamenti economici direttamente nelle mani del giudice. L'obiezione in questo caso riguarda il carico processuale dei magistrati del lavoro: ci si lamenta della lentezza della giustizia, sarebbe quindi da evitare ogni ulteriore aggravio. In ogni caso non si tratta di un'obiezione di principio, anche qui, né pertanto di un possibile motivo di rottura. Con un corollario, tuttavia. Che, come avviene nel tanto declamato modello tedesco, il giudice dovrebbe avere il diritto di sindacare le ragioni economiche ANCHE IN UN TEMPO SUCCESSIVO, riservandosi dunque la facoltà (oltre che di annullare ovvero avallare) anche di IMPORRE LA RIASSUNZIONE IN UN SECONDO MOMENTO. Ipotesi diversa dal reintegro, e tuttavia da non escludere a priori.

MA NEL NUOVO QUADRO, SE EMENDATO, NON SI GIUSTIFICA LA SOGLIA DEI 15 ADDETTI. VALE PER TUTTI?
Infine, un'ultima considerazione da fare è la seguente. Se si andasse verso una soluzione emendata, del genere che qui ho provato a delineare (e su cui credo potrebbe lavorare proficuamente il PD prima di decidere di staccare la spina a questo governo) la situazione che si configurerebbe NON GIUSTIFICHEREBBE PIU' DA NESSUN PUNTO DI VISTA UNA DISTINZIONE TRA IMPRESE GRANDI E PICCOLE. Con le modifiche al codice disciplinare e quelle ai limiti dimensionali dei licenziamenti per motivi economici (comprovati) il quadro normativo sarebbe totalmente applicabile alle imprese al di sotto dei 15 addetti. Si vuole lasciare un margine minimo, alla tedesca (5 addetti)? Non avrebbe grandi ragioni oggettive ma se dovesse essere il prezzo finale da pagare per un compromesso, per quello che può valere il mio parere, non mi scandalizzerei.