[16
marzo – 23 marzo]
Torniamo
sulla trattativa attorno alla riforma del mercato del lavoro. Si
avvicina la conclusione. Restava da esaminare, dal post precedente,
il capitolo degli ammortizzatori sociali. Ma sembra profilarsi un
accordo sull'articolo 18. Ripartiamo dunque da questo argomento.
La
sostanza della questione è ancora nascosta nella nebbia. Si sente
ripetere che nulla cambia per i licenziamenti discriminatori. Sarà
vero? Il fatto è che i licenziamenti SENZA giusta causa (cioè non
riconducibili a violazioni disciplinari) configurano sempre un
comportamento discriminatorio. Lo dice la legge italiana e la
direttiva europea sulle discriminazioni. Si può uscire da questa
contraddizione affidando la valutazione al giudice?
Questa
sembra essere la soluzione proposta dal Governo. Regge? Il giudice
non è tenuto a rispettare il principio? E se lo è, non si sta
profilando una procedura più complicata, dai tempi più lunghi, con
maggiori margini di discrezionalità e meno certezze? E' davvero un
passo avanti o non è piuttosto un passo indietro per entrambe le
parti?
Infine
gli ammortizzatori. Il piatto piange ma si può fare qualche passo
nella giusta direzione. Purché non si faccia solo finta.
LA
RIFORMA SEMBRA ARRIVATA ALLE BATTUTE FINALI. ACCORDO IN VISTA?
Torniamo
sulla trattativa in corso per la “Grande riforma” del mercato del
lavoro a pochi giorni dalla scadenza di fine marzo. Rispetto alla
settimana scorsa, le scintille e le tensioni tra le parti sembravano
aver ceduto il posto a più frequenti momenti di (cauto) ottimismo.
Un accordo tuttavia non sembra ancora profilarsi sull'articolo 18,
mentre scrivo queste righe. Facciamo dunque di nuovo il punto su
questo argomento prima di riprendere il discorso sugli altri capitoli
che erano rimasti in sospeso.
LO
SCONTRO SULL'ARTICOLO 18 CONTINUA. ANCORA NON SI VEDE COME RISOLVERE
IL PROBLEMA DEL CONFLITTO TRA DUE DIRITTI “TUTELATI”.
Lo
scenario che fa da sfondo alla trattativa sull'articolo 18 non mi
pare sia granché cambiato. Scontro di civiltà e di culture, in
quanto ognuna delle due parti ritiene di dover difendere un diritto
intangibile, non disponibile: per il lavoratore, non subire lesioni
della propria dignità in un rapporto di lavoro che stabilisce una
subordinazione che è solo di carattere funzionale, tra liberi
cittadini uguali; per l'imprenditore, disporre liberamente dei beni
dell'impresa per conseguire il risultato economico ottimale.
Il
modo in cui nel 1970 il legislatore ha fissato il confine – ovvero,
dove la libertà dell'uno debba cedere il posto a quella dell'altro –
ha fatto il suo tempo, secondo gli imprenditori. Che tuttavia non si
fanno carico di esplicitare le loro ragioni non riuscendo a
inquadrarle nell'impianto giuridico della Costituzione (non solo
quella italiana ma anche quella europea). Pur avendo tutto
l'interesse - e perfino il dovere di farlo, oscilla tra il parlare
d'altro e il tacere.
GLI
IMPRENDITORI CHIEDONO UN CAMBIAMENTO MA NON SI FANNO CARICO DI
COLLOCARE LE LORO RICHIESTE NEL QUADRO DETTATO DALLA COSTITUZIONE.
SPETTEREBBE DUNQUE AL GOVERNO ...
Questo
comportamento degli imprenditori mi appare singolare. Troverei però
non solo incomprensibile ma un puro azzardo, sia politico che
giuridico, tale da provocare guai seri, l'ipotesi di un accordo che
prenda quel comportamento a modello. Che resti cioè avvolto dalle
nebbie o si regga sulla confusione. Quello che trapela dalla
trattativa non è tale da tranquillizzare a questo riguardo.
Le
anticipazioni riguardano tre punti. Il primo, che resterà in piedi
l'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori. In quali casi i
licenziamenti, pur essendo privi di una giusta causa, non avrebbero
dunque un carattere discriminatorio? Ecco quindi il secondo punto:
non lo sarebbero quelli per motivi disciplinari e quelli economici,
per i quali la formula adottata sarebbe quella, abusata nonostante
sia assai vaga, dei “motivi tecnici e organizzativi”. Infine,
terzo punto, quando non si tratti di un licenziamento
discriminatorio, spetterebbe al giudice decidere tra un obbligo di
reintegro (ovvero, si deve dedurre, una dichiarazione di nullità IN
QUANTO SI TRATTEREBBE DI UN LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO MASCHERATO)
e un risarcimento (in misura più cospicua, pari al doppio secondo le
anticipazioni, rispetto a quella oggi vigente).
… FAR
RISPETTARE IL PRINCIPIO: NON SI TOCCA L'ARTICOLO 18 PER I
LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI. SARA' COSI'?
L'importanza
del primo punto è evidente: se l'intento dell'articolo 18 è
essenzialmente quello di punire i licenziamenti discriminatori
imponendo il reintegro nel posto del lavoro (lasciando al solo
lavoratore la possibilità di optare in alternativa per un
risarcimento) è assolutamente necessario che nessuna delle eventuali
modifiche che si vanno a introdurre possa ledere quel diritto. Perché
se ciò accadesse, si andrebbe a contraddire la prima dichiarazione
di principio. Non solo, ma sarebbe difficile (se non facendo offesa
alla ragione) catalogare modifiche di questa natura come un
intervento di “manutenzione”. Si tratterebbe infatti di una pura
e semplice abrogazione, come si è affrettato a chiarire uno che
della vicenda articolo 18 ne sa qualcosa (mi riferisco a Sergio
Cofferati).
Questo
punto è dunque decisivo. Proverò perciò a chiarirlo al lettore con
la massima semplicità possibile, senza cioè addentrarmi in
complesse disquisizioni giuridiche, che peraltro non credo siano
necessarie quando si ha a che fare con principi fondamentali che il
senso comune riconosce come tali.
Partiamo
da questo presupposto: il licenziamento per motivi discriminatori è
nullo, in base all'art.
3, legge n. 108 del 1990 "
indipendentemente dalla motivazione addotta”.
Inoltre,
secondo la
giurisprudenza dominante, il licenziamento
per giusta causa
ha sempre natura disciplinare, nel senso che deve sempre avere
all'origine una condotta colpevole del lavoratore (e deve essere
intimato per questo motivo). In altri termini
deve essere fondato
sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi che
discendono dal rapporto contrattuale,
anche nel caso in cui il codice disciplinare applicato
nell’azienda
non preveda questa sanzione.
Infine,
si deve tenere a mente la definizione di discriminazione quale
risulta dalla legge italiana (la n.40/98, art. 41): “ogni
comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una
distinzione, esclusione o, restrizione o preferenza ... [tale da]
compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in
condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali”. Definizione che trova ampio riscontro nella
direttiva europea (2000/78 CE) “per
la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di
lavoro” (recepita nel 2003 sotto
il governo Berlusconi) che, partendo dal tema delle discriminazioni
di genere allarga la visuale su ogni altra manifestazione
assimilabile.
LA
QUESTIONE DEI LICENZIAMENTI DISCIPLINARI. AMMETTENDO IL RISARCIMENTO
IN ALTERNATIVA AL REINTEGRO SI RISCHIA DI CONTRADDIRE IL PRINCIPIO DI
NON DISCRIMINAZIONE
Poste
queste premesse, che cosa può significare l'ipotesi di affidare al
giudice la decisione tra reintegro e risarcimento nel caso di un
licenziamento per motivi disciplinari? A rigor di logica dovrebbe
significare che tra le sanzioni che possono essere comminate al
lavoratore in caso di violazioni disciplinari da qui in avanti potrà
essere contemplato anche il licenziamento CON RISARCIMENTO. Sarebbe
infatti singolare che una tale facoltà potesse essere affidata al
giudice ma fosse sottratta alla disponibilità della procedura
disciplinare. E' di questo che si parla? Significa che il
licenziamento dovrebbe comunque apparire motivato ma cambierebbe la
graduazione delle sanzioni?
Ebbene,
non mi sembra chiara la risposta che si intende dare a questi dubbi.
Mi sono soffermato nel post della scorsa settimana sul tema dello
“scarso rendimento” e sul confine talvolta labile tra una
condotta volutamente inadempiente rispetto agli obblighi contrattuale
ed un inadempimento dovuto a condizioni oggettive o che comunque non
discendono dalla volontà del lavoratore. Si vuole ricorrere a un
espediente per lasciare al giudice una valutazione rispetto a quel
confine spesso labile? Mi piacerebbe che la risposta fosse chiara per
una valutazione serena. Ma personalmente non trovo risposta a questa
domanda.
Dunque,
senza farla tanto complicata, deve essere chiaro che se non si
trattasse di questo ma della possibilità di risarcire un lavoratore
licenziato SENZA MOTIVO, il cambiamento riguarderebbe
esattamente I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI e consisterebbe in
questo: prima dell'articolo 18, se il giudice imponeva il reintegro,
il datore di lavoro era chiamato a procedere entro 3 giorni ma poteva
liberamente decidere, in alternativa, di risarcire il lavoratore; con
l'articolo 18 invece è solo il lavoratore che può liberamente
decidere di richiedere, in alternativa, un risarcimento economico.
D'ora in poi, con questa riforma, la scelta non spetterebbe più né
al datore di lavoro né al lavoratore ma al giudice.
Di
questo si tratterebbe. Ogni altra considerazione sarebbe ridondante e
servirebbe a confondere le idee. Nel
mio post precedente a questo proposito mi ero spinto a dire che
concedere al giudice la facoltà di
convalidare un licenziamento che la legge stessa definisce nullo,
disponendo d'autorità un mero risarcimento economico, non sarebbe
neppure pensabile. Continuo a credere (sperare?) che non sia stato
pensato, ma aggiungo un'ulteriore considerazione. Non si
tratterebbe solo di un'ipotesi socialmente iniqua e lesiva dei
principi solennemente sanciti anche nel nostro paese, perfino dal
governo Berlusconi, in tema di non discriminazione; ma anche di
un'ipotesi ben poco “efficiente” e “liberalizzatrice”, se
questa deve essere la formula magica a cui questo governo deve
appellarsi in ogni suo atto.
SONO
CHIARI A TUTTI I TERMINI REALI DEL PROBLEMA? SONO STATI VALUTATI
TUTTI I COSTI, SOCIALI ED ECONOMICI, DI UNA MOSSA SBAGLIATA?
Non
credo siano richieste grandi competenze specialistiche per accorgersi
che in nome di una vittoria di bandiera per il governo (che potrebbe
dire di aver fatto la riforma facendo retrocedere i sindacati da una
posizione di arroccamento) e degli imprenditori (che pur proclamando
di non voler toccare i licenziamenti discriminatori potrebbero
vantarsi di aver “portato a casa” la possibilità, almeno
teorica, di risarcire un lavoratore, anche se licenziato proprio per
motivi discriminatori, senza doverlo reintegrare) si farebbe un
grande passo indietro anche per quello che riguarda la certezza del
diritto: certezza che non serve solo al lavoratore parte lesa ma
anche al datore di lavoro per poter programmare sulla base di
previsioni minimamente solide la sua attività.
In
quel caso (ma ribadisco che mi auguro si tratti di un'ipotesi del
tutto infondata), si renderebbe quasi superfluo il procedimento
disciplinare, concluso il quale, gli atti passerebbero al giudice
che, solo e unico protagonista, ricomincerebbe daccapo per formulare
infine la sua sentenza. Pur di cancellare il diritto al reintegro si
lascerebbe un grande
spazio di intervento discrezionale ai magistrati, che vedrebbero
così, inevitabilmente, aumentare a dismisura il loro carico
processuale, con buona pace di chi spreca sermoni sulla riforma della
giustizia per tagliarne i tempi nell'interesse del cittadino.
IL
LICENZIAMENTO PER MOTIVI ECONOMICI. UN FALSO PROBLEMA E IL RISCHIO DI
UN PASTICCIO. O UN ALTRO “CAVALLO DI TROIA”?
Stabilito che, se davvero si intende
tener fermo l'articolo 18 (quindi il reintegro) per i licenziamenti
discriminatori, non sta in piedi l'idea di consentire il risarcimento
per i licenziamenti disciplinari NON COMPROVATI, passiamo ora al caso
dei licenziamenti individuali per motivi economici. Potrebbero
estendersi anche a questi, a quanto sembra, i
benefici già previsti per i licenziamenti collettivi, senza che sia
chiaro se sarebbe parimenti estesa anche la procedura che prevede un
negoziato e un accordo sindacale.
Su
quest'ultimo punto mi sono dilungato nel post precedente: che
un'impresa con più di 15 dipendenti a tempo indeterminato possa aver
bisogno di ridurre il personale di una sola unità per sanare i
bilanci è un'ipotesi libresca che non meriterebbe una guerra di
religione. Estendere la procedura vigente per i licenziamenti
collettivi (come sembrerebbe auspicare la CISL) può rivelarsi un
rimedio peggiore del male, se si dovessero chiamare i sindacati a
controfirmare una sorta di messa al bando. Lasciare al giudice
libertà di scelta tra reintegro e risarcimento (come altri
vorrebbero) è forse più sensato. Non significherebbe nemmeno
abrogare l'articolo 18 come accadrebbe nel caso che abbiamo
esaminato, dei licenziamenti per motivi disciplinari “addotti ma
non comprovati”. A condizione, tuttavia, che anche i motivi
economici risultino comprovati. E' di questo che si tratta?
Sembrerebbe
di sì. L'ipotesi solleva tuttavia lo stesso problema a cui ho
accennato da ultimo a proposito dei licenziamenti disciplinari. Va in
direzione esattamente opposta a quella, che tutti sembrano auspicare,
di un accorciamento dei tempi della giustizia in materia di
licenziamenti. Da questo punto di vista l'estensione della procedura
attualmente vigente per i licenziamenti collettivi si presterebbe a
obiezioni ben minori (le controindicazioni sono di tutt'altra natura,
come ho detto poco sopra).
Vorrei
essere il più chiaro possibile. Non mi sembra proprio che il gioco
valga la candela. Sono dell'idea che solo un imprenditore molto
temerario si azzarderebbe a licenziare “adducendo” in giudizio
una motivazione di carattere economico. Dunque devo dedurre – fino
a prova contraria – che anche questo tema, dei licenziamenti per
motivi economici, debba essere ricondotto alla strategia della
confusione. Pagando per questo obiettivo di principio e di immagine
(che immagine!) un prezzo altissimo (ulteriore) in termini di
certezza del diritto e di tempi della giustizia. IL CONTRARIO DI
QUELLO DI CUI IL PAESE HA BISOGNO: SI REALIZZEREBBE MINORE EQUITA'
SOCIALE ANCHE A COSTO DI DEPRIMERE ULTERIORMENTE LA COMPETITIVITA'
DELLE NOSTRE AZIENDE.
Mi
ripeto, a questo proposito. Sono davvero così mal ridotti, i nostri
imprenditori, da non avere alcuna remora nel confessare di non essere
all'altezza di quanto è oggi richiesto, nel mondo civile, in materia
di gestione del personale? Possibile che la voci che spiegano che
non serve abrogare l'articolo 18 debbano apparire isolate, come “in
un deserto”?
INSISTO.
DARSI IL TEMPO E IL PERCORSO GIUSTO NON SAREBBE UNA PROVA DI
DEBOLEZZA MA UNA DIMOSTRAZIONE DI CORAGGIO POLITICO
Insisto.
Non ci si venga a raccontare di una riforma, né grande, né moderna,
né per la crescita, né per l'occupazione. Sarebbe
solo una manifestazione evidente dell'incapacità del sistema
politico di assolvere alle funzioni basilari cui è chiamato. E
ancora una volta i giudici sarebbero chiamati in soccorso da una
politica inconcludente che non mancherà, ci si può scommettere, di
lamentarne l'invadenza.
Resto
dell'idea che se non si arrivasse a una conclusione da qui alla fine
del mese su questo punto non sarebbe un dramma. Anzi, sarebbe perfino
un grande passo avanti (una grande riforma?) se si arrivasse a
condividere una diagnosi e ad avviare un ampio consulto sui rimedi.
E
chissà che i mercati, anziché punire quello che potrebbe apparire
come un passo indietro, non potrebbero riconoscere il passo che si
farebbe verso la riconquista di un futuro e, mettiamoci anche questo,
verso un ripristino di sovranità su una materia (le “relazioni
industriali”) che ancora appare saldamente ancorata alla dimensione
nazionale. Un passo che può avere al tempo stesso notevoli
ripercussioni sulla partita che l'intera Europa sta giocando attorno
al suo modello sociale che, adottato formalmente in Costituzione, si
contrappone a quelli caratteristici delle due potenze globali, USA e
Cina. Darsi
tempo non sarebbe pertanto un atto di debolezza ma di coraggio
politico. Questo
scrivevo la settimana scorsa e di questo resto convinto.
SUGLI
ALTRI TEMI IN AGENDA E' POSSIBILE UN ACCORDO. TAGLIA “SMALL”? IL
PIATTO PIANGE?
Ancora
una volta lo spazio maggiore è stato catturato dalla questione
dell'articolo 18. Nonostante rimanga profondamente convinto che ciò
rappresenti un grave errore, questo oggi è il tema su cui si
concentra l'attenzione del quadro politico e – si dice, ma su
questo ho espresso molti dubbi – dei mercati.
In
questo clima non si parla più molto di revisione delle tipologie
contrattuali, di un loro sfoltimento. Né di come rilanciare un tema
di grande importanza come la formazione sul lavoro, in apprendistato
e nel corso della vita lavorativa, per mantenersi aggiornati, per
accompagnare le innovazioni, per non perdere il passo con il mondo
più sviluppato.
Restano
infine tutte in piedi le difficoltà e le tensioni che ostacolano
un'intesa sugli ammortizzatori sociali. Non sarà affatto facile.
Nel
tempo, è stata creata una situazione irta di contraddizioni e
perfino di controsensi. Ci sono categorie di imprese (e dunque di
lavoratori in carne e ossa) che pagano più di quello che viene
redistribuito al loro interno, altre che pagano meno (anche molto
meno) fino a quelle che, di deroga in deroga, non pagano affatto.
Esistono categorie di imprese a cui viene consentito di attingere
alla indennità di disoccupazione per sostenere il reddito dei
lavoratori anche nei periodi di sospensione temporanea “in costanza
di rapporto di lavoro” ed altre a cui questo non è consentito e
che in quelle evenienze devono invece fare ricorso alla Cassa
Integrazione che finanziano pagando salati contributi specifici.
Esistono lavoratori a cui viene dato un sussidio quando perdono il
lavoro ma sono poi abbandonati a se stessi senza alcun aiuto
minimamente efficace per trovarne uno nuovo. Invece, ai giovani che,
per lo più con i fondi europei, viene offerto un qualche aiuto
(formazione, orientamento, esperienze sul campo) nella marcia di
avvicinamento al posto di lavoro, non si fornisce il minimo sussidio
economico (ci pensi la famiglia!). E si parla, con molta leggerezza,
di salario minimo, o addirittura di reddito di cittadinanza, quando
non si riescono a trovare risorse (e procedure condivise) neppure per
un risultato elementare e minimale come un assegno che accompagni
l'impegno attivo nella ricerca del lavoro.
Ovvio
che chi paga più di quello che mediamente è destinato a ricevere
aspiri a pagare di meno mentre chi può attingere senza dover pagare
alzi le barricate di fronte a qualunque proposta perequativa. Per una
soluzione che dia a tutti senza che nessuno debba pagare niente più
di quello che paga al fisco ci vorrebbero tra i venti e i trenta
miliardi (a seconda del livello di sussidio su cui si fa
l'equiparazione). Per sostenere il costo dei servizi da fornire a chi
cerca lavoro tra i dodici e i quindici (a seconda di quanto ci si
vuole avvicinare al famoso “modello danese”, sempre magnificato
ma costosissimo). Per il reddito di cittadinanza non sono nemmeno
possibili stime attendibili per l'estrema variabilità della platea
su cui fare i calcoli al variare delle condizioni di eligibilità (o
requisiti di accesso che dir si voglia).
NON
E' SOLO QUESTIONE DI RISORSE MA DI UNA MATASSA DIFFICILE DA
SBROGLIARE. UN GROVIGLIO DI INTERESSI IN CONTRASTO. LA SOLUZIONE E'
NEI PICCOLI PASSI? MA NON CI SI LIMITI ALLA “MOSSA”!
Per
questo groviglio di problemi si era decisa una sospensione della
trattativa per una verifica delle risorse che possono essere messe in
campo. La “paccata” di soldi di cui si è parlato arriva (se
Grilli trova la copertura, non ancora assicurata) a due miliardi. Non
credo serva commentare la distanza dalle cifre che ho riportato,
tanto più se si considerano le incertezze che permangono.
Il
testo che è circolato contiene affermazioni di principio
condivisibili e si ispira a un impianto che riprende nelle linee
essenziali le conclusioni cui era arrivata, una quindicina di anni
fa, la Commissione che il Governo Prodi aveva istituito affidandone
il coordinamento al prof. Paolo Onofri. Su quelle basi era stato
redatto per la prima volta un testo di legge-delega approvato poi nel
'99. A distanza di tredici anni si deve prendere atto che i principi
hanno incontrato qualche difficoltà a trovare attuazione, tornare ad
enunciarli non sembra poter spostare molto la realtà. Vedremo quale
misura concreta sarà adottata con le risorse effettivamente
disponibili e potremo giudicare.
Ogni
passo in avanti verso la perequazione e l'estensione, in base ad una
visione “universalistica”, potrà essere salutato come un vero
successo. Personalmente non sarei per chiedere la luna. Ma se
dovessimo accontentarci dell'ennesimo annuncio la delusione sarebbe
davvero grande. Un conto sono i piccoli passi, tutt'altra cosa è
invece la “mossa”, che il movimento lo simula soltanto, ovvero lo
“promette”. Spero ci venga risparmiata.