lunedì 19 marzo 2012

Ancora sulla riforma del lavoro. Un pasticcio? O un dito nell'occhio?


[16 marzo – 23 marzo]
Torniamo sulla trattativa attorno alla riforma del mercato del lavoro. Si avvicina la conclusione. Restava da esaminare, dal post precedente, il capitolo degli ammortizzatori sociali. Ma sembra profilarsi un accordo sull'articolo 18. Ripartiamo dunque da questo argomento.
La sostanza della questione è ancora nascosta nella nebbia. Si sente ripetere che nulla cambia per i licenziamenti discriminatori. Sarà vero? Il fatto è che i licenziamenti SENZA giusta causa (cioè non riconducibili a violazioni disciplinari) configurano sempre un comportamento discriminatorio. Lo dice la legge italiana e la direttiva europea sulle discriminazioni. Si può uscire da questa contraddizione affidando la valutazione al giudice?
Questa sembra essere la soluzione proposta dal Governo. Regge? Il giudice non è tenuto a rispettare il principio? E se lo è, non si sta profilando una procedura più complicata, dai tempi più lunghi, con maggiori margini di discrezionalità e meno certezze? E' davvero un passo avanti o non è piuttosto un passo indietro per entrambe le parti?
Infine gli ammortizzatori. Il piatto piange ma si può fare qualche passo nella giusta direzione. Purché non si faccia solo finta.

LA RIFORMA SEMBRA ARRIVATA ALLE BATTUTE FINALI. ACCORDO IN VISTA?
Torniamo sulla trattativa in corso per la “Grande riforma” del mercato del lavoro a pochi giorni dalla scadenza di fine marzo. Rispetto alla settimana scorsa, le scintille e le tensioni tra le parti sembravano aver ceduto il posto a più frequenti momenti di (cauto) ottimismo. Un accordo tuttavia non sembra ancora profilarsi sull'articolo 18, mentre scrivo queste righe. Facciamo dunque di nuovo il punto su questo argomento prima di riprendere il discorso sugli altri capitoli che erano rimasti in sospeso.
 

LO SCONTRO SULL'ARTICOLO 18 CONTINUA. ANCORA NON SI VEDE COME RISOLVERE IL PROBLEMA DEL CONFLITTO TRA DUE DIRITTI “TUTELATI”.
Lo scenario che fa da sfondo alla trattativa sull'articolo 18 non mi pare sia granché cambiato. Scontro di civiltà e di culture, in quanto ognuna delle due parti ritiene di dover difendere un diritto intangibile, non disponibile: per il lavoratore, non subire lesioni della propria dignità in un rapporto di lavoro che stabilisce una subordinazione che è solo di carattere funzionale, tra liberi cittadini uguali; per l'imprenditore, disporre liberamente dei beni dell'impresa per conseguire il risultato economico ottimale.
Il modo in cui nel 1970 il legislatore ha fissato il confine – ovvero, dove la libertà dell'uno debba cedere il posto a quella dell'altro – ha fatto il suo tempo, secondo gli imprenditori. Che tuttavia non si fanno carico di esplicitare le loro ragioni non riuscendo a inquadrarle nell'impianto giuridico della Costituzione (non solo quella italiana ma anche quella europea). Pur avendo tutto l'interesse - e perfino il dovere di farlo, oscilla tra il parlare d'altro e il tacere.

GLI IMPRENDITORI CHIEDONO UN CAMBIAMENTO MA NON SI FANNO CARICO DI COLLOCARE LE LORO RICHIESTE NEL QUADRO DETTATO DALLA COSTITUZIONE. SPETTEREBBE DUNQUE AL GOVERNO ...
Questo comportamento degli imprenditori mi appare singolare. Troverei però non solo incomprensibile ma un puro azzardo, sia politico che giuridico, tale da provocare guai seri, l'ipotesi di un accordo che prenda quel comportamento a modello. Che resti cioè avvolto dalle nebbie o si regga sulla confusione. Quello che trapela dalla trattativa non è tale da tranquillizzare a questo riguardo.
Le anticipazioni riguardano tre punti. Il primo, che resterà in piedi l'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori. In quali casi i licenziamenti, pur essendo privi di una giusta causa, non avrebbero dunque un carattere discriminatorio? Ecco quindi il secondo punto: non lo sarebbero quelli per motivi disciplinari e quelli economici, per i quali la formula adottata sarebbe quella, abusata nonostante sia assai vaga, dei “motivi tecnici e organizzativi”. Infine, terzo punto, quando non si tratti di un licenziamento discriminatorio, spetterebbe al giudice decidere tra un obbligo di reintegro (ovvero, si deve dedurre, una dichiarazione di nullità IN QUANTO SI TRATTEREBBE DI UN LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO MASCHERATO) e un risarcimento (in misura più cospicua, pari al doppio secondo le anticipazioni, rispetto a quella oggi vigente).

FAR RISPETTARE IL PRINCIPIO: NON SI TOCCA L'ARTICOLO 18 PER I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI. SARA' COSI'?
L'importanza del primo punto è evidente: se l'intento dell'articolo 18 è essenzialmente quello di punire i licenziamenti discriminatori imponendo il reintegro nel posto del lavoro (lasciando al solo lavoratore la possibilità di optare in alternativa per un risarcimento) è assolutamente necessario che nessuna delle eventuali modifiche che si vanno a introdurre possa ledere quel diritto. Perché se ciò accadesse, si andrebbe a contraddire la prima dichiarazione di principio. Non solo, ma sarebbe difficile (se non facendo offesa alla ragione) catalogare modifiche di questa natura come un intervento di “manutenzione”. Si tratterebbe infatti di una pura e semplice abrogazione, come si è affrettato a chiarire uno che della vicenda articolo 18 ne sa qualcosa (mi riferisco a Sergio Cofferati).
Questo punto è dunque decisivo. Proverò perciò a chiarirlo al lettore con la massima semplicità possibile, senza cioè addentrarmi in complesse disquisizioni giuridiche, che peraltro non credo siano necessarie quando si ha a che fare con principi fondamentali che il senso comune riconosce come tali.
Partiamo da questo presupposto: il licenziamento per motivi discriminatori è nullo, in base all'art. 3, legge n. 108 del 1990 " indipendentemente dalla motivazione addotta”.
Inoltre, secondo la giurisprudenza dominante, il licenziamento per giusta causa ha sempre natura disciplinare, nel senso che deve sempre avere all'origine una condotta colpevole del lavoratore (e deve essere intimato per questo motivo). In altri termini deve essere fondato sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi che discendono dal rapporto contrattuale, anche nel caso in cui il codice disciplinare applicato nell’azienda non preveda questa sanzione.
                                 
Infine, si deve tenere a mente la definizione di discriminazione quale risulta dalla legge italiana (la n.40/98, art. 41): “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione o, restrizione o preferenza ... [tale da] compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Definizione che trova ampio riscontro nella direttiva europea (2000/78 CE) “per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro” (recepita nel 2003 sotto il governo Berlusconi) che, partendo dal tema delle discriminazioni di genere allarga la visuale su ogni altra manifestazione assimilabile.

LA QUESTIONE DEI LICENZIAMENTI DISCIPLINARI. AMMETTENDO IL RISARCIMENTO IN ALTERNATIVA AL REINTEGRO SI RISCHIA DI CONTRADDIRE IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE
Poste queste premesse, che cosa può significare l'ipotesi di affidare al giudice la decisione tra reintegro e risarcimento nel caso di un licenziamento per motivi disciplinari? A rigor di logica dovrebbe significare che tra le sanzioni che possono essere comminate al lavoratore in caso di violazioni disciplinari da qui in avanti potrà essere contemplato anche il licenziamento CON RISARCIMENTO. Sarebbe infatti singolare che una tale facoltà potesse essere affidata al giudice ma fosse sottratta alla disponibilità della procedura disciplinare. E' di questo che si parla? Significa che il licenziamento dovrebbe comunque apparire motivato ma cambierebbe la graduazione delle sanzioni?
Ebbene, non mi sembra chiara la risposta che si intende dare a questi dubbi. Mi sono soffermato nel post della scorsa settimana sul tema dello “scarso rendimento” e sul confine talvolta labile tra una condotta volutamente inadempiente rispetto agli obblighi contrattuale ed un inadempimento dovuto a condizioni oggettive o che comunque non discendono dalla volontà del lavoratore. Si vuole ricorrere a un espediente per lasciare al giudice una valutazione rispetto a quel confine spesso labile? Mi piacerebbe che la risposta fosse chiara per una valutazione serena. Ma personalmente non trovo risposta a questa domanda.
Dunque, senza farla tanto complicata, deve essere chiaro che se non si trattasse di questo ma della possibilità di risarcire un lavoratore licenziato SENZA MOTIVO, il cambiamento riguarderebbe esattamente I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI e consisterebbe in questo: prima dell'articolo 18, se il giudice imponeva il reintegro, il datore di lavoro era chiamato a procedere entro 3 giorni ma poteva liberamente decidere, in alternativa, di risarcire il lavoratore; con l'articolo 18 invece è solo il lavoratore che può liberamente decidere di richiedere, in alternativa, un risarcimento economico. D'ora in poi, con questa riforma, la scelta non spetterebbe più né al datore di lavoro né al lavoratore ma al giudice.
 
Di questo si tratterebbe. Ogni altra considerazione sarebbe ridondante e servirebbe a confondere le idee. Nel mio post precedente a questo proposito mi ero spinto a dire che concedere al giudice la facoltà di convalidare un licenziamento che la legge stessa definisce nullo, disponendo d'autorità un mero risarcimento economico, non sarebbe neppure pensabile. Continuo a credere (sperare?) che non sia stato pensato, ma aggiungo un'ulteriore considerazione. Non si tratterebbe solo di un'ipotesi socialmente iniqua e lesiva dei principi solennemente sanciti anche nel nostro paese, perfino dal governo Berlusconi, in tema di non discriminazione; ma anche di un'ipotesi ben poco “efficiente” e “liberalizzatrice”, se questa deve essere la formula magica a cui questo governo deve appellarsi in ogni suo atto.

SONO CHIARI A TUTTI I TERMINI REALI DEL PROBLEMA? SONO STATI VALUTATI TUTTI I COSTI, SOCIALI ED ECONOMICI, DI UNA MOSSA SBAGLIATA?
Non credo siano richieste grandi competenze specialistiche per accorgersi che in nome di una vittoria di bandiera per il governo (che potrebbe dire di aver fatto la riforma facendo retrocedere i sindacati da una posizione di arroccamento) e degli imprenditori (che pur proclamando di non voler toccare i licenziamenti discriminatori potrebbero vantarsi di aver “portato a casa” la possibilità, almeno teorica, di risarcire un lavoratore, anche se licenziato proprio per motivi discriminatori, senza doverlo reintegrare) si farebbe un grande passo indietro anche per quello che riguarda la certezza del diritto: certezza che non serve solo al lavoratore parte lesa ma anche al datore di lavoro per poter programmare sulla base di previsioni minimamente solide la sua attività.
In quel caso (ma ribadisco che mi auguro si tratti di un'ipotesi del tutto infondata), si renderebbe quasi superfluo il procedimento disciplinare, concluso il quale, gli atti passerebbero al giudice che, solo e unico protagonista, ricomincerebbe daccapo per formulare infine la sua sentenza. Pur di cancellare il diritto al reintegro si lascerebbe un grande spazio di intervento discrezionale ai magistrati, che vedrebbero così, inevitabilmente, aumentare a dismisura il loro carico processuale, con buona pace di chi spreca sermoni sulla riforma della giustizia per tagliarne i tempi nell'interesse del cittadino.
                     

IL LICENZIAMENTO PER MOTIVI ECONOMICI. UN FALSO PROBLEMA E IL RISCHIO DI UN PASTICCIO. O UN ALTRO “CAVALLO DI TROIA”?
Stabilito che, se davvero si intende tener fermo l'articolo 18 (quindi il reintegro) per i licenziamenti discriminatori, non sta in piedi l'idea di consentire il risarcimento per i licenziamenti disciplinari NON COMPROVATI, passiamo ora al caso dei licenziamenti individuali per motivi economici. Potrebbero estendersi anche a questi, a quanto sembra, i benefici già previsti per i licenziamenti collettivi, senza che sia chiaro se sarebbe parimenti estesa anche la procedura che prevede un negoziato e un accordo sindacale.
Su quest'ultimo punto mi sono dilungato nel post precedente: che un'impresa con più di 15 dipendenti a tempo indeterminato possa aver bisogno di ridurre il personale di una sola unità per sanare i bilanci è un'ipotesi libresca che non meriterebbe una guerra di religione. Estendere la procedura vigente per i licenziamenti collettivi (come sembrerebbe auspicare la CISL) può rivelarsi un rimedio peggiore del male, se si dovessero chiamare i sindacati a controfirmare una sorta di messa al bando. Lasciare al giudice libertà di scelta tra reintegro e risarcimento (come altri vorrebbero) è forse più sensato. Non significherebbe nemmeno abrogare l'articolo 18 come accadrebbe nel caso che abbiamo esaminato, dei licenziamenti per motivi disciplinari “addotti ma non comprovati”. A condizione, tuttavia, che anche i motivi economici risultino comprovati. E' di questo che si tratta?
Sembrerebbe di sì. L'ipotesi solleva tuttavia lo stesso problema a cui ho accennato da ultimo a proposito dei licenziamenti disciplinari. Va in direzione esattamente opposta a quella, che tutti sembrano auspicare, di un accorciamento dei tempi della giustizia in materia di licenziamenti. Da questo punto di vista l'estensione della procedura attualmente vigente per i licenziamenti collettivi si presterebbe a obiezioni ben minori (le controindicazioni sono di tutt'altra natura, come ho detto poco sopra).
Vorrei essere il più chiaro possibile. Non mi sembra proprio che il gioco valga la candela. Sono dell'idea che solo un imprenditore molto temerario si azzarderebbe a licenziare “adducendo” in giudizio una motivazione di carattere economico. Dunque devo dedurre – fino a prova contraria – che anche questo tema, dei licenziamenti per motivi economici, debba essere ricondotto alla strategia della confusione. Pagando per questo obiettivo di principio e di immagine (che immagine!) un prezzo altissimo (ulteriore) in termini di certezza del diritto e di tempi della giustizia. IL CONTRARIO DI QUELLO DI CUI IL PAESE HA BISOGNO: SI REALIZZEREBBE MINORE EQUITA' SOCIALE ANCHE A COSTO DI DEPRIMERE ULTERIORMENTE LA COMPETITIVITA' DELLE NOSTRE AZIENDE.
Mi ripeto, a questo proposito. Sono davvero così mal ridotti, i nostri imprenditori, da non avere alcuna remora nel confessare di non essere all'altezza di quanto è oggi richiesto, nel mondo civile, in materia di gestione del personale? Possibile che la voci che spiegano che non serve abrogare l'articolo 18 debbano apparire isolate, come “in un deserto”?

INSISTO. DARSI IL TEMPO E IL PERCORSO GIUSTO NON SAREBBE UNA PROVA DI DEBOLEZZA MA UNA DIMOSTRAZIONE DI CORAGGIO POLITICO
Insisto. Non ci si venga a raccontare di una riforma, né grande, né moderna, né per la crescita, né per l'occupazione. Sarebbe solo una manifestazione evidente dell'incapacità del sistema politico di assolvere alle funzioni basilari cui è chiamato. E ancora una volta i giudici sarebbero chiamati in soccorso da una politica inconcludente che non mancherà, ci si può scommettere, di lamentarne l'invadenza.
Resto dell'idea che se non si arrivasse a una conclusione da qui alla fine del mese su questo punto non sarebbe un dramma. Anzi, sarebbe perfino un grande passo avanti (una grande riforma?) se si arrivasse a condividere una diagnosi e ad avviare un ampio consulto sui rimedi.
E chissà che i mercati, anziché punire quello che potrebbe apparire come un passo indietro, non potrebbero riconoscere il passo che si farebbe verso la riconquista di un futuro e, mettiamoci anche questo, verso un ripristino di sovranità su una materia (le “relazioni industriali”) che ancora appare saldamente ancorata alla dimensione nazionale. Un passo che può avere al tempo stesso notevoli ripercussioni sulla partita che l'intera Europa sta giocando attorno al suo modello sociale che, adottato formalmente in Costituzione, si contrappone a quelli caratteristici delle due potenze globali, USA e Cina. Darsi tempo non sarebbe pertanto un atto di debolezza ma di coraggio politico. Questo scrivevo la settimana scorsa e di questo resto convinto.

SUGLI ALTRI TEMI IN AGENDA E' POSSIBILE UN ACCORDO. TAGLIA “SMALL”? IL PIATTO PIANGE?
Ancora una volta lo spazio maggiore è stato catturato dalla questione dell'articolo 18. Nonostante rimanga profondamente convinto che ciò rappresenti un grave errore, questo oggi è il tema su cui si concentra l'attenzione del quadro politico e – si dice, ma su questo ho espresso molti dubbi – dei mercati.
In questo clima non si parla più molto di revisione delle tipologie contrattuali, di un loro sfoltimento. Né di come rilanciare un tema di grande importanza come la formazione sul lavoro, in apprendistato e nel corso della vita lavorativa, per mantenersi aggiornati, per accompagnare le innovazioni, per non perdere il passo con il mondo più sviluppato.
Restano infine tutte in piedi le difficoltà e le tensioni che ostacolano un'intesa sugli ammortizzatori sociali. Non sarà affatto facile.
Nel tempo, è stata creata una situazione irta di contraddizioni e perfino di controsensi. Ci sono categorie di imprese (e dunque di lavoratori in carne e ossa) che pagano più di quello che viene redistribuito al loro interno, altre che pagano meno (anche molto meno) fino a quelle che, di deroga in deroga, non pagano affatto. Esistono categorie di imprese a cui viene consentito di attingere alla indennità di disoccupazione per sostenere il reddito dei lavoratori anche nei periodi di sospensione temporanea “in costanza di rapporto di lavoro” ed altre a cui questo non è consentito e che in quelle evenienze devono invece fare ricorso alla Cassa Integrazione che finanziano pagando salati contributi specifici. Esistono lavoratori a cui viene dato un sussidio quando perdono il lavoro ma sono poi abbandonati a se stessi senza alcun aiuto minimamente efficace per trovarne uno nuovo. Invece, ai giovani che, per lo più con i fondi europei, viene offerto un qualche aiuto (formazione, orientamento, esperienze sul campo) nella marcia di avvicinamento al posto di lavoro, non si fornisce il minimo sussidio economico (ci pensi la famiglia!). E si parla, con molta leggerezza, di salario minimo, o addirittura di reddito di cittadinanza, quando non si riescono a trovare risorse (e procedure condivise) neppure per un risultato elementare e minimale come un assegno che accompagni l'impegno attivo nella ricerca del lavoro.
Ovvio che chi paga più di quello che mediamente è destinato a ricevere aspiri a pagare di meno mentre chi può attingere senza dover pagare alzi le barricate di fronte a qualunque proposta perequativa. Per una soluzione che dia a tutti senza che nessuno debba pagare niente più di quello che paga al fisco ci vorrebbero tra i venti e i trenta miliardi (a seconda del livello di sussidio su cui si fa l'equiparazione). Per sostenere il costo dei servizi da fornire a chi cerca lavoro tra i dodici e i quindici (a seconda di quanto ci si vuole avvicinare al famoso “modello danese”, sempre magnificato ma costosissimo). Per il reddito di cittadinanza non sono nemmeno possibili stime attendibili per l'estrema variabilità della platea su cui fare i calcoli al variare delle condizioni di eligibilità (o requisiti di accesso che dir si voglia).

NON E' SOLO QUESTIONE DI RISORSE MA DI UNA MATASSA DIFFICILE DA SBROGLIARE. UN GROVIGLIO DI INTERESSI IN CONTRASTO. LA SOLUZIONE E' NEI PICCOLI PASSI? MA NON CI SI LIMITI ALLA “MOSSA”!
Per questo groviglio di problemi si era decisa una sospensione della trattativa per una verifica delle risorse che possono essere messe in campo. La “paccata” di soldi di cui si è parlato arriva (se Grilli trova la copertura, non ancora assicurata) a due miliardi. Non credo serva commentare la distanza dalle cifre che ho riportato, tanto più se si considerano le incertezze che permangono.
Il testo che è circolato contiene affermazioni di principio condivisibili e si ispira a un impianto che riprende nelle linee essenziali le conclusioni cui era arrivata, una quindicina di anni fa, la Commissione che il Governo Prodi aveva istituito affidandone il coordinamento al prof. Paolo Onofri. Su quelle basi era stato redatto per la prima volta un testo di legge-delega approvato poi nel '99. A distanza di tredici anni si deve prendere atto che i principi hanno incontrato qualche difficoltà a trovare attuazione, tornare ad enunciarli non sembra poter spostare molto la realtà. Vedremo quale misura concreta sarà adottata con le risorse effettivamente disponibili e potremo giudicare.
Ogni passo in avanti verso la perequazione e l'estensione, in base ad una visione “universalistica”, potrà essere salutato come un vero successo. Personalmente non sarei per chiedere la luna. Ma se dovessimo accontentarci dell'ennesimo annuncio la delusione sarebbe davvero grande. Un conto sono i piccoli passi, tutt'altra cosa è invece la “mossa”, che il movimento lo simula soltanto, ovvero lo “promette”. Spero ci venga risparmiata.