[1
febbraio – 8 febbraio]
Il
governo Monti nasce per favorire il ritorno dal berlusconismo alla
Costituzione. Un passaggio decisivo. Non se ne può sminuire
l'importanza.
Ma
la ricetta liberista non salverà l'Italia.
Che
il capitalismo in crisi abbia bisogno di risposte diverse, che il
liberismo non sa dare, è tema di riflessione all'interno dello
stesso mondo dell'impresa e della finanza. Che ne dice la sinistra?
Se
è necessario che il governo Monti duri fino a fine legislatura per
uscire definitivamente dal berlusconismo, il dopo Monti deve
cominciare ora.
Perché
a ridosso delle elezioni sarà troppo tardi per una proposta
credibile e convincente.
Ai
venticinque lettori di questo blog vorrei far sapere che da questa
settimana mi troveranno anche sul sito dell'Infiltrato
(www.infiltrato.it) che mi ha
offerto un'ospitalità che ho accettato senza remore.
Vi
si troveranno, in linea di massima, anticipazioni (in forma più
snella) dei post che pubblico qui. Inoltre ho pensato di aprire una
pagina FB, che invito a visitare cliccando il “Mi piace” di rito,
dove raccogliere i link, oltre che a questo “doppio blog”, ai
miei interventi su www.eguaglianzaeliberta.it
e al mio profilo FB. Dovrebbe aiutare a non perderci di vista, ma se
complica le cose provvedo rapidamente a chiuderla. Vedremo.
AFFRONTIAMO
IL TEMA DEL GIORNO. QUANTO DURERAì IL GOVERNO MONTI? QUALE PREZZO E'
GIUSTO PAGARE PER SOSTENERLO?
Questa
settimana affronterò un tema nazionale. Mi azzarderò ad entrare nel
fuoco di un dibattito (o forse si dovrebbe dire un dilemma) che sta
agitando il cosiddetto popolo di sinistra. Fino a che punto si può
appoggiare (o “portare acqua”) al governo del prof. Monti? Quali
prezzi è giusto, o tollerabile, pagare?
Queste
domande ne presuppongono alcune altre che vengono prima.
Possiamo
aspettarci che sia questo Governo a portare l'Italia fuori dalla
crisi, che non è solo economico-finanziaria ma sociale?
Quanto
c'è di sinistra (o di condivisibile dalla sinistra) nel suo operato?
Che
scenario dobbiamo immaginare nel caso di una caduta anticipata del
governo causata dal venir meno dell'appoggio del PD?
Credo
si debba partire da quest'ultima domanda, anche se può sembrare che
si ponga al termine di un percorso logico che parte dalla prima.
Credo
invece che si ponga per prima perché mi sembra preliminare, rispetto
al giudizio nel merito dell'operato di questo Governo, affrontare una
questione, di carattere squisitamente politico: se sia possibile
sostenere allo stesso tempo che è auspicabile che il governo Monti
arrivi a fine legislatura e che non sarà tuttavia questo governo a
salvare l'Italia. Perché se le due affermazioni non possono andare
insieme, una risposta negativa alla prima domanda toglie ogni
significato alle successive.
Veniamo
allora al dunque e diciamo subito è una questione che si pone solo
all'interno della sinistra.
Per
la destra berlusconiana, non si pone, Da quel versante il Governo
Monti non è stato appoggiato perché provasse a salvare l'Italia
quanto piuttosto perché permettesse di far passare la nottata, in
attesa di un mutamento di segno, di un diverso clima, nell'opinione
pubblica.
La
preoccupazione del comitato di affari che si è raccolto attorno a
Berlusconi e ha lucrato sulla sua gestione del potere politico è di
tornare a governare per salvaguardare i suoi interessi come è
riuscito a fare fino a ieri. Non è detto che debba tornare un'altra
volta in sella il Cavaliere. Una volta che i suoi beni siano messi al
riparo e i suoi guai giudiziari, penali e civili (inteso come
suddivisione dei beni stessi tra gli eredi, siano alle spalle è anzi
prevedibile un cambio di leadership.
Che
poi si tratti dell'espressione dell'affarismo “sotto catechesi”
di CL (ma in quale versione?), o dell'istinto predatorio su basi
egoistico-localistiche della Lega, o della voracità
nepotistico-familistica soddisfatta attraverso la concussione dei
colonnelli di AN, o del ceto di professionisti posti a guardia
dell'antistatalismo “de noantri” di evasori e corruttori, se non
della contiguità con le centrali della criminalità organizzata, è
tutto da vedere. Ma non è certo tramontato il progetto di fare della
politica lo strumento di tutela e di salvaguardia di tutta quell'area
(non marginale, abbiamo visto) della società italiana che si è
riconosciuta in quel modello di governo, nella sua ideologia e nei
suoi interessi e lo considera quello ideale in cui promuovere i
propri.
Non
si pone nemmeno per la destra che definirei costituzionale, o
democratica. Quella che è arrivata a sottrarsi al giogo
berlusconiano ritenendo che il populismo affaristico del Cavaliere
non sia (o non sia più) l'ambiente ideale per lo sviluppo degli
interessi dei ceti forti, quella che ha perso la speranza di vedere
soddisfatte le promesse di libertà economica e civile con cui
Berlusconi si è candidato a guidare una rivoluzione liberale.
Questa
destra, che in gran parte ha sostenuto Berlusconi, che ha sorvolato
sulla barbarie istituzionale che stava prendendo il sopravvento in
nome della tutela degli interessi economici di chi si trova in cima
alla piramide dei redditi, ha fatto meglio i conti e si è resa conto
del disastro – economico, non solo sociale – cui stava conducendo
il progressivo abbandono delle regole fondamentali della democrazia
costituzionale e ha deciso di erigere una barriera sotto lo scudo di
Napolitano e della Costituzione repubblicana. Ma non ha certo perso
la fede incrollabile nella supremazia del mercato, nelle ricette del
liberismo più radicale. Non ha certo cessato di vedere la
concertazione e la coesione sociale come vincoli spuri, impropri,
estranei al normale svolgimento dei processi economici.
Questa
destra si ritrova perfettamente nella cultura e nell'operare politico
del governo Monti e non immagina altra via per salvare l'Italia. Così
come ci si ritrova il cosiddetto centro, o terzo polo, che in ciò è
del tutto assimilabile alla destra moderata che ha scelto la
Costituzione. Che si possano poi trovare altri piani in cui invece
emerga una chiara differenza tra queste due aree politiche, ovvero
dei punti di contatto che avvicinino il centro alla sinistra, è
altra questione. Il dubbio si pone e non mi sembra che ancora nessuno
dei fautori dell'alleanza organica (non solo momentanea) tra questo
centro e la sinistra abbia sopportato con successo l'onere della
prova. Ma per ora ci fermiamo qui.
Tornando
invece alla questione sollevata, è fuori di dubbio che si ponga per
la sinistra che ha considerato preferibile questo governo alle
elezioni anticipate. O forse sarebbe più esatto dire che si debba
porre, adesso. Perché domani sarà troppo tardi. Perché
nell'imminenza delle elezioni non ci saranno più le condizioni per
presentare agli elettori un progetto politico diverso che miri a
salvare l'Italia. In altre parole, il dopo Monti è già
cominciato anche, se non soprattutto, per chi, pur convinto che non
salverà l'Italia, ritiene debba giungere fino alla scadenza della
legislatura.
DOMANDE
CHE AGITANO IL POPOLO DELLA SINISTRA.
Chiarito
questo punto, vengo alla risposta che secondo la mia opinione si deve
dare alla domanda se il governo Monti possa salvare l'Italia.
Poiché
non ritengo che si possa far coincidere la salvezza dell'Italia con
una caduta, perfino drastica, dello spread né con una riduzione del
debito pubblico e un ritorno all'avanzo primario, né con un
incremento degli introiti dall'evasione fiscale, tutti obiettivi che
peraltro erano ampiamente realizzati anche dal secondo Prodi e che
non hanno scongiurato la sua perdita di consenso e la sua caduta,
penso si debba andare oltre. Che si debba considerare come obiettivo
da raggiungere, per tirare fuori il paese dalle secche in cui si è
incagliato, un ampio, radicale mutamento di rotta. Che si debba
andare in profondità, nel sostrato culturale, nei comportamenti
privati, nell'etica civile, nel senso dello stato … Non vado oltre,
andrei ampiamente fuori tema. Mi limito a dire che in base a questa
convinzione non ritengo che questo governo possa, non dico salvare
l'Italia, ma neppure uscire dall'emergenza. Credo che possa, più
realisticamente, ristabilire alcune delle condizioni necessarie
perché ciò avvenga.
Dobbiamo
però chiarirlo. Non vorrei che fosse considerato un assioma, una
verità che non richiede dimostrazione.
Credo
infatti che non ci si possa fermare alle critiche che vengono mosse a
questo governo in quanto espressione delle banche, o dei “poteri
forti”, che del resto andrebbero messi bene a fuoco: se non si
torna ancora una volta a identificarli con le banche, si parla del
Vaticano o Marchionne? Della lobby delle assicurazioni o di quella,
in effetti molto potente e ben rappresentata, dei baroni
universitari? O ci si riferisce a gruppi di pressione semi-segreti di
livello planetario (un tempo la Trilateral, ora il gruppo Bilderberg
(foto) o, chissà, il gruppo Altiero
Spinelli)?.
Considero
queste accuse fuorvianti, non perché non abbia i suoi legami
evidenti, il suo retroterra, i suoi conflitti di interesse, ma perché
così si tornano ad usare per questo governo le categorie che
tipicamente connotavano il suo predecessore, commettendo un doppio
errore. Si stempera la gravità dell'anomalia rappresentata dal
berlusconismo (sempre in agguato) e si perde di vista, con
l'attenzione ai retroscena, la natura di questo governo nei suoi
tratti palesi. Non trame oscure, non interessi celati o illegali, non
relazioni impresentabili ma più semplicemente un'impronta politica
per alcuni tratti fondamentali non condivisibile, diversa da quella
identificabile come di sinistra.
Non
è il governo della Spectre. E' il governo della cultura e
dell'ideologia del liberismo economico. A ben vedere, non sarebbe
neppure esatto considerarlo un'espressione dell'iper-liberismo,
quello dello stato minimo (o dei Tea Party) per intenderci, nel senso
che questo governo, e il suo premier, considera il mercato un
meccanismo soggetto, facilmente, ad imperfezioni e dunque da tenere
sotto sorveglianza. Ma la regolazione, di cui si deve fare carico
l'intervento dello Stato, deve essere finalizzata rigorosamente a
garanzia della competizione, e in definitiva, dunque per proteggere
il sistema delle imprese. Non che debba restare fuori dal quadro una
finalità quale la coesione sociale, ma solo in quanto è il contesto
meno conflittuale e perciò quello di cui il sistema delle imprese ha
bisogno. La convinzione alla base è dunque che nessuna
finalità extra-economica debba guidare l'intervento dello Stato nel
mercato che, depurato delle
imperfezioni, garantirà il progresso sociale, la massimizzazione del
benessere generale, su scala planetaria.
Non
mi sembra necessario cercare altri argomenti. Il prof. Monti, del
resto, non ha mai fatto mistero di queste convinzioni, né in passato
né ora che ha assunto la responsabilità del governo. Le sue
esternazioni, al di là di battute più o meno infelici o di una
strategia comunicativa più o meno efficace, sono sempre state
pubbliche, esplicite. Né il sen. Monti Presidente del Consiglio dei
Ministri ha adottato, o anche soltanto dato l'idea di voler adottare,
misure che rispondessero ad altre finalità (tanto per dire, il
contrasto e l'accorciamento delle distanze tra i primi e gli ultimi,
la promozione delle pari opportunità, ovvero la tutela del
lavoratore come contraente debole del rapporto di lavoro).
Perché
appoggiarlo dunque? Semplice: perché si deve assumere come una
priorità assoluta, nell'interesse della grande maggioranza del
popolo italiano e in particolare di quelli che stanno peggio, quella
di porre fine all'occupazione del potere da parte del berlusconismo.
E'
necessario sviluppare questo tema e dare conto dell'ordine di
importanza che ho dato ai diversi aspetti, ponendo in cima a tutto
l'uscita dal berlusconismo? Probabilmente sì, giacché sono convinto
che sia diffusa, a sinistra, l'idea che il berlusconismo
non sia poi molto peggio di qualunque altro governo di destra e che
non lo si possa evocare per giustificare compromessi o accordi con
altre espressioni della destra politica.
Questo
giudizio, che non condivido, merita un approfondimento che ci
porterebbe tuttavia lontano dalla questione che sto tentando di
affrontare. Ho comunque espresso la mia opinione in proposito in due
recenti interventi su E&L che mi permetto di linkare.
MA
SULLO SFONDO CI SONO INTERROGATIVI CHE RIGUARDANO IL FUTURO DEL
CAPITALISMO.
COME
ACCADE IN GENERE NELLE FASI DI CRISI.
La domanda a cui
dobbiamo tornare per cercare una risposta è dunque questa: può una
ricetta liberista, che veda nell'impresa (mossa dal profitto e priva
di finalità sociali in quanto “non sta lì per fare beneficienza”)
il centro motore della produzione di ricchezza e, conseguentemente,
dell'intera dinamica sociale, salvare l'Italia (e l'Europa, ecc.
ecc.)?
Attenzione:
è una domanda che affiora dall'interno stesso del mondo della
finanza, dell'impresa, dell'economia capitalistica. Se non altro
perché si assiste a uno scenario inedito, in cui le economie
capitalistiche, basate su libertà di impresa e democrazia liberale,
sono in crisi rispetto alle performance (come oggi si dice) di paesi
emergenti retti da sistemi politici autoritari o solo in parte
democratici, che prevedono un interventismo pesante dello Stato
nell'economia, una regolazione del mercato ben oltre la semplice
correzione delle imperfezioni e (non meno importante) una politica
monetaria tutt'altro che “neutra” o indipendente dal potere
politico. Se lo domanda perciò l'Economist, come il Financial Times.
E giunge a una conclusione che solo qualche tempo fa sarebbe stata
impensabile. Il dibattito aperto dall'Economist si conclude con un
sondaggio che dà ragione alla tesi secondo cui il capitalismo di
stato è un'alternativa praticabile. Ci sarà un motivo? Ce lo
dobbiamo domandare anche noi, o davvero la sinistra si è persa nel
labirinto e ha smarrito il senso del suo essere?
January
24th 2012 - February 4th 2012
State capitalism
This
house believes that state capitalism is a viable alternative to
liberal capitalism.
|
Ebbene,
il fallimento dell'iper-liberismo reganian-thatcheriano (quello della
caduta delle briciole, “arricchitevi che dalle vostre tasche cadrà
qualcosa che potrà sfamare i poveri”) sta ponendo in questione -
di nuovo, perché è un tema ricorrente nella storia recente - i
limiti del capitalismo in quanto tale. L'espansione delle
diseguaglianze e la corsa all'arricchimento, questo il tema, non
nascono dagli eccessi della de-regolazione ma dalle regole stesse
dell'economia capitalistica. L'asimmetria che producono, con la
conseguente spirale della recessione, non è un accidente da
attribuire a quegli eccessi, non contrastati a sufficienza, ma un
effetto ineliminabile della sua dinamica. Lo stato del welfare, il
modello renano, le socialdemocrazie nordiche, erano (sono)
altrettante risposte al problema di collocare la regolazione (per
finalità extra economiche, ebbene sì) dell'economia in un quadro
che faceva salvo il modello politico democratico-rappresentativo.
Dobbiamo
arrivare a rovesciare l'assunto liberale e a stabilire che il mercato
e la libera iniziativa sono incompatibile con la democrazia politica?
Questo il tema che si pone. Questo il dubbio (esistenziale, si
dovrebbe dire) che attraversa oggi la politica liberale nelle sue
espressioni più avanzate. Ma non è la domanda che tipicamente
dovrebbe interrogare la sinistra? E come mai la sinistra non elabora
(ancora) una risposta? Insomma, se la ricetta liberista, pur
temperata, pur presentabile, fuori dal berlusconismo, non salverà
l'Italia, che proposta porterà la sinistra?
Mica
male, penserete, come interrogativi! Siamo partiti da Monti per
arrivare a domande “da cento milioni”. Che non possono certo
trovare qui la risposta.
Porsi
una domanda è però il primo passo, senza di che la ricerca di una
risposta non comincia neppure. Ecco, il problema sarebbe grave per la
sinistra
soprattutto
se non ci si ponessero queste domande. Se ci si accontentasse delle
formule collaudate o delle semplificazioni.
Un
lavorìo è in corso, in tutto il mondo. La rete accoglie un fitto
intersambio da un continente all'altro, fibrillazioni e sommovimenti
agitano sistemi politici assai distanti tra loro. Tra i danni
peggiori prodotti dal berlusconismo c'è l'aver riesumato e sdoganato
il provincialismo e l'autarchia culturale come valori positivi.
L'isolamento del nostro paese ha comportato un prezzo per tutti, ha
reso più difficile l'interscambio anche per chi non accetta di
chiudersi in un recinto perché ha inaridito le fonti del dialogo e
prosciugato il mare in cui trova alimento.
Un
motivo in più per reagire e porre al primo posto la rinascita civile
e culturale. Ma il tempo stringe, bisogna pensare già ora ai passi
successivi.