domenica 5 febbraio 2012

Ma il dopo Monti nasce adesso


[1 febbraio – 8 febbraio]
Il governo Monti nasce per favorire il ritorno dal berlusconismo alla Costituzione. Un passaggio decisivo. Non se ne può sminuire l'importanza.
Ma la ricetta liberista non salverà l'Italia.

Che il capitalismo in crisi abbia bisogno di risposte diverse, che il liberismo non sa dare, è tema di riflessione all'interno dello stesso mondo dell'impresa e della finanza. Che ne dice la sinistra?

Se è necessario che il governo Monti duri fino a fine legislatura per uscire definitivamente dal berlusconismo, il dopo Monti deve cominciare ora.
Perché a ridosso delle elezioni sarà troppo tardi per una proposta credibile e convincente.


Ai venticinque lettori di questo blog vorrei far sapere che da questa settimana mi troveranno anche sul sito dell'Infiltrato (www.infiltrato.it) che mi ha offerto un'ospitalità che ho accettato senza remore.
Vi si troveranno, in linea di massima, anticipazioni (in forma più snella) dei post che pubblico qui. Inoltre ho pensato di aprire una pagina FB, che invito a visitare cliccando il “Mi piace” di rito, dove raccogliere i link, oltre che a questo “doppio blog”, ai miei interventi su www.eguaglianzaeliberta.it e al mio profilo FB. Dovrebbe aiutare a non perderci di vista, ma se complica le cose provvedo rapidamente a chiuderla. Vedremo.

AFFRONTIAMO IL TEMA DEL GIORNO. QUANTO DURERAì IL GOVERNO MONTI? QUALE PREZZO E' GIUSTO PAGARE PER SOSTENERLO?

Questa settimana affronterò un tema nazionale. Mi azzarderò ad entrare nel fuoco di un dibattito (o forse si dovrebbe dire un dilemma) che sta agitando il cosiddetto popolo di sinistra. Fino a che punto si può appoggiare (o “portare acqua”) al governo del prof. Monti? Quali prezzi è giusto, o tollerabile, pagare?

Queste domande ne presuppongono alcune altre che vengono prima.
Possiamo aspettarci che sia questo Governo a portare l'Italia fuori dalla crisi, che non è solo economico-finanziaria ma sociale?
Quanto c'è di sinistra (o di condivisibile dalla sinistra) nel suo operato?
Che scenario dobbiamo immaginare nel caso di una caduta anticipata del governo causata dal venir meno dell'appoggio del PD?


Credo si debba partire da quest'ultima domanda, anche se può sembrare che si ponga al termine di un percorso logico che parte dalla prima.
Credo invece che si ponga per prima perché mi sembra preliminare, rispetto al giudizio nel merito dell'operato di questo Governo, affrontare una questione, di carattere squisitamente politico: se sia possibile sostenere allo stesso tempo che è auspicabile che il governo Monti arrivi a fine legislatura e che non sarà tuttavia questo governo a salvare l'Italia. Perché se le due affermazioni non possono andare insieme, una risposta negativa alla prima domanda toglie ogni significato alle successive.

Veniamo allora al dunque e diciamo subito è una questione che si pone solo all'interno della sinistra.
Per la destra berlusconiana, non si pone, Da quel versante il Governo Monti non è stato appoggiato perché provasse a salvare l'Italia quanto piuttosto perché permettesse di far passare la nottata, in attesa di un mutamento di segno, di un diverso clima, nell'opinione pubblica.
La preoccupazione del comitato di affari che si è raccolto attorno a Berlusconi e ha lucrato sulla sua gestione del potere politico è di tornare a governare per salvaguardare i suoi interessi come è riuscito a fare fino a ieri. Non è detto che debba tornare un'altra volta in sella il Cavaliere. Una volta che i suoi beni siano messi al riparo e i suoi guai giudiziari, penali e civili (inteso come suddivisione dei beni stessi tra gli eredi, siano alle spalle è anzi prevedibile un cambio di leadership.
Che poi si tratti dell'espressione dell'affarismo “sotto catechesi” di CL (ma in quale versione?), o dell'istinto predatorio su basi egoistico-localistiche della Lega, o della voracità nepotistico-familistica soddisfatta attraverso la concussione dei colonnelli di AN, o del ceto di professionisti posti a guardia dell'antistatalismo “de noantri” di evasori e corruttori, se non della contiguità con le centrali della criminalità organizzata, è tutto da vedere. Ma non è certo tramontato il progetto di fare della politica lo strumento di tutela e di salvaguardia di tutta quell'area (non marginale, abbiamo visto) della società italiana che si è riconosciuta in quel modello di governo, nella sua ideologia e nei suoi interessi e lo considera quello ideale in cui promuovere i propri.

Non si pone nemmeno per la destra che definirei costituzionale, o democratica. Quella che è arrivata a sottrarsi al giogo berlusconiano ritenendo che il populismo affaristico del Cavaliere non sia (o non sia più) l'ambiente ideale per lo sviluppo degli interessi dei ceti forti, quella che ha perso la speranza di vedere soddisfatte le promesse di libertà economica e civile con cui Berlusconi si è candidato a guidare una rivoluzione liberale.
Questa destra, che in gran parte ha sostenuto Berlusconi, che ha sorvolato sulla barbarie istituzionale che stava prendendo il sopravvento in nome della tutela degli interessi economici di chi si trova in cima alla piramide dei redditi, ha fatto meglio i conti e si è resa conto del disastro – economico, non solo sociale – cui stava conducendo il progressivo abbandono delle regole fondamentali della democrazia costituzionale e ha deciso di erigere una barriera sotto lo scudo di Napolitano e della Costituzione repubblicana. Ma non ha certo perso la fede incrollabile nella supremazia del mercato, nelle ricette del liberismo più radicale. Non ha certo cessato di vedere la concertazione e la coesione sociale come vincoli spuri, impropri, estranei al normale svolgimento dei processi economici.


Questa destra si ritrova perfettamente nella cultura e nell'operare politico del governo Monti e non immagina altra via per salvare l'Italia. Così come ci si ritrova il cosiddetto centro, o terzo polo, che in ciò è del tutto assimilabile alla destra moderata che ha scelto la Costituzione. Che si possano poi trovare altri piani in cui invece emerga una chiara differenza tra queste due aree politiche, ovvero dei punti di contatto che avvicinino il centro alla sinistra, è altra questione. Il dubbio si pone e non mi sembra che ancora nessuno dei fautori dell'alleanza organica (non solo momentanea) tra questo centro e la sinistra abbia sopportato con successo l'onere della prova. Ma per ora ci fermiamo qui.
Tornando invece alla questione sollevata, è fuori di dubbio che si ponga per la sinistra che ha considerato preferibile questo governo alle elezioni anticipate. O forse sarebbe più esatto dire che si debba porre, adesso. Perché domani sarà troppo tardi. Perché nell'imminenza delle elezioni non ci saranno più le condizioni per presentare agli elettori un progetto politico diverso che miri a salvare l'Italia. In altre parole, il dopo Monti è già cominciato anche, se non soprattutto, per chi, pur convinto che non salverà l'Italia, ritiene debba giungere fino alla scadenza della legislatura.

DOMANDE CHE AGITANO IL POPOLO DELLA SINISTRA.

Chiarito questo punto, vengo alla risposta che secondo la mia opinione si deve dare alla domanda se il governo Monti possa salvare l'Italia.
Poiché non ritengo che si possa far coincidere la salvezza dell'Italia con una caduta, perfino drastica, dello spread né con una riduzione del debito pubblico e un ritorno all'avanzo primario, né con un incremento degli introiti dall'evasione fiscale, tutti obiettivi che peraltro erano ampiamente realizzati anche dal secondo Prodi e che non hanno scongiurato la sua perdita di consenso e la sua caduta, penso si debba andare oltre. Che si debba considerare come obiettivo da raggiungere, per tirare fuori il paese dalle secche in cui si è incagliato, un ampio, radicale mutamento di rotta. Che si debba andare in profondità, nel sostrato culturale, nei comportamenti privati, nell'etica civile, nel senso dello stato … Non vado oltre, andrei ampiamente fuori tema. Mi limito a dire che in base a questa convinzione non ritengo che questo governo possa, non dico salvare l'Italia, ma neppure uscire dall'emergenza. Credo che possa, più realisticamente, ristabilire alcune delle condizioni necessarie perché ciò avvenga.
Dobbiamo però chiarirlo. Non vorrei che fosse considerato un assioma, una verità che non richiede dimostrazione.
Credo infatti che non ci si possa fermare alle critiche che vengono mosse a questo governo in quanto espressione delle banche, o dei “poteri forti”, che del resto andrebbero messi bene a fuoco: se non si torna ancora una volta a identificarli con le banche, si parla del Vaticano o Marchionne? Della lobby delle assicurazioni o di quella, in effetti molto potente e ben rappresentata, dei baroni universitari? O ci si riferisce a gruppi di pressione semi-segreti di livello planetario (un tempo la Trilateral, ora il gruppo Bilderberg (foto) o, chissà, il gruppo Altiero Spinelli)?.


Considero queste accuse fuorvianti, non perché non abbia i suoi legami evidenti, il suo retroterra, i suoi conflitti di interesse, ma perché così si tornano ad usare per questo governo le categorie che tipicamente connotavano il suo predecessore, commettendo un doppio errore. Si stempera la gravità dell'anomalia rappresentata dal berlusconismo (sempre in agguato) e si perde di vista, con l'attenzione ai retroscena, la natura di questo governo nei suoi tratti palesi. Non trame oscure, non interessi celati o illegali, non relazioni impresentabili ma più semplicemente un'impronta politica per alcuni tratti fondamentali non condivisibile, diversa da quella identificabile come di sinistra.
Non è il governo della Spectre. E' il governo della cultura e dell'ideologia del liberismo economico. A ben vedere, non sarebbe neppure esatto considerarlo un'espressione dell'iper-liberismo, quello dello stato minimo (o dei Tea Party) per intenderci, nel senso che questo governo, e il suo premier, considera il mercato un meccanismo soggetto, facilmente, ad imperfezioni e dunque da tenere sotto sorveglianza. Ma la regolazione, di cui si deve fare carico l'intervento dello Stato, deve essere finalizzata rigorosamente a garanzia della competizione, e in definitiva, dunque per proteggere il sistema delle imprese. Non che debba restare fuori dal quadro una finalità quale la coesione sociale, ma solo in quanto è il contesto meno conflittuale e perciò quello di cui il sistema delle imprese ha bisogno. La convinzione alla base è dunque che nessuna finalità extra-economica debba guidare l'intervento dello Stato nel mercato che, depurato delle imperfezioni, garantirà il progresso sociale, la massimizzazione del benessere generale, su scala planetaria.

Non mi sembra necessario cercare altri argomenti. Il prof. Monti, del resto, non ha mai fatto mistero di queste convinzioni, né in passato né ora che ha assunto la responsabilità del governo. Le sue esternazioni, al di là di battute più o meno infelici o di una strategia comunicativa più o meno efficace, sono sempre state pubbliche, esplicite. Né il sen. Monti Presidente del Consiglio dei Ministri ha adottato, o anche soltanto dato l'idea di voler adottare, misure che rispondessero ad altre finalità (tanto per dire, il contrasto e l'accorciamento delle distanze tra i primi e gli ultimi, la promozione delle pari opportunità, ovvero la tutela del lavoratore come contraente debole del rapporto di lavoro).

Perché appoggiarlo dunque? Semplice: perché si deve assumere come una priorità assoluta, nell'interesse della grande maggioranza del popolo italiano e in particolare di quelli che stanno peggio, quella di porre fine all'occupazione del potere da parte del berlusconismo.

E' necessario sviluppare questo tema e dare conto dell'ordine di importanza che ho dato ai diversi aspetti, ponendo in cima a tutto l'uscita dal berlusconismo? Probabilmente sì, giacché sono convinto che sia diffusa, a sinistra, l'idea che il berlusconismo non sia poi molto peggio di qualunque altro governo di destra e che non lo si possa evocare per giustificare compromessi o accordi con altre espressioni della destra politica.
Questo giudizio, che non condivido, merita un approfondimento che ci porterebbe tuttavia lontano dalla questione che sto tentando di affrontare. Ho comunque espresso la mia opinione in proposito in due recenti interventi su E&L che mi permetto di linkare.

MA SULLO SFONDO CI SONO INTERROGATIVI CHE RIGUARDANO IL FUTURO DEL CAPITALISMO.
COME ACCADE IN GENERE NELLE FASI DI CRISI.

La domanda a cui dobbiamo tornare per cercare una risposta è dunque questa: può una ricetta liberista, che veda nell'impresa (mossa dal profitto e priva di finalità sociali in quanto “non sta lì per fare beneficienza”) il centro motore della produzione di ricchezza e, conseguentemente, dell'intera dinamica sociale, salvare l'Italia (e l'Europa, ecc. ecc.)?
Attenzione: è una domanda che affiora dall'interno stesso del mondo della finanza, dell'impresa, dell'economia capitalistica. Se non altro perché si assiste a uno scenario inedito, in cui le economie capitalistiche, basate su libertà di impresa e democrazia liberale, sono in crisi rispetto alle performance (come oggi si dice) di paesi emergenti retti da sistemi politici autoritari o solo in parte democratici, che prevedono un interventismo pesante dello Stato nell'economia, una regolazione del mercato ben oltre la semplice correzione delle imperfezioni e (non meno importante) una politica monetaria tutt'altro che “neutra” o indipendente dal potere politico. Se lo domanda perciò l'Economist, come il Financial Times. E giunge a una conclusione che solo qualche tempo fa sarebbe stata impensabile. Il dibattito aperto dall'Economist si conclude con un sondaggio che dà ragione alla tesi secondo cui il capitalismo di stato è un'alternativa praticabile. Ci sarà un motivo? Ce lo dobbiamo domandare anche noi, o davvero la sinistra si è persa nel labirinto e ha smarrito il senso del suo essere?


January 24th 2012 - February 4th 2012  
State capitalism
This house believes that state capitalism is a viable alternative to liberal capitalism.


Ebbene, il fallimento dell'iper-liberismo reganian-thatcheriano (quello della caduta delle briciole, “arricchitevi che dalle vostre tasche cadrà qualcosa che potrà sfamare i poveri”) sta ponendo in questione - di nuovo, perché è un tema ricorrente nella storia recente - i limiti del capitalismo in quanto tale. L'espansione delle diseguaglianze e la corsa all'arricchimento, questo il tema, non nascono dagli eccessi della de-regolazione ma dalle regole stesse dell'economia capitalistica. L'asimmetria che producono, con la conseguente spirale della recessione, non è un accidente da attribuire a quegli eccessi, non contrastati a sufficienza, ma un effetto ineliminabile della sua dinamica. Lo stato del welfare, il modello renano, le socialdemocrazie nordiche, erano (sono) altrettante risposte al problema di collocare la regolazione (per finalità extra economiche, ebbene sì) dell'economia in un quadro che faceva salvo il modello politico democratico-rappresentativo.
Dobbiamo arrivare a rovesciare l'assunto liberale e a stabilire che il mercato e la libera iniziativa sono incompatibile con la democrazia politica? Questo il tema che si pone. Questo il dubbio (esistenziale, si dovrebbe dire) che attraversa oggi la politica liberale nelle sue espressioni più avanzate. Ma non è la domanda che tipicamente dovrebbe interrogare la sinistra? E come mai la sinistra non elabora (ancora) una risposta? Insomma, se la ricetta liberista, pur temperata, pur presentabile, fuori dal berlusconismo, non salverà l'Italia, che proposta porterà la sinistra?

Mica male, penserete, come interrogativi! Siamo partiti da Monti per arrivare a domande “da cento milioni”. Che non possono certo trovare qui la risposta.
Porsi una domanda è però il primo passo, senza di che la ricerca di una risposta non comincia neppure. Ecco, il problema sarebbe grave per la sinistra
soprattutto se non ci si ponessero queste domande. Se ci si accontentasse delle formule collaudate o delle semplificazioni.
Un lavorìo è in corso, in tutto il mondo. La rete accoglie un fitto intersambio da un continente all'altro, fibrillazioni e sommovimenti agitano sistemi politici assai distanti tra loro. Tra i danni peggiori prodotti dal berlusconismo c'è l'aver riesumato e sdoganato il provincialismo e l'autarchia culturale come valori positivi. L'isolamento del nostro paese ha comportato un prezzo per tutti, ha reso più difficile l'interscambio anche per chi non accetta di chiudersi in un recinto perché ha inaridito le fonti del dialogo e prosciugato il mare in cui trova alimento.
Un motivo in più per reagire e porre al primo posto la rinascita civile e culturale. Ma il tempo stringe, bisogna pensare già ora ai passi successivi.